E se avesse ragione Soros?

SOMMARIO:

  1. E se avesse ragione Soros?
    • Le parole del Guru
    • Il momento di Minsky
    • La crisi del 2008 e il Q.E.
    • La crisi della Cina e il petrolio
    • La distruzione epocale di ricchezza e le sue conseguenze
    • L’ondata dirompente delle nuove tecnologie
    • La somma degli effetti: un possibile Tsunami
  2. La crisi delle banche italiane potrebbe provocare una reazione a catena in tutto il sistema europeo
  3. Quali stimoli economici potranno risollevare l’Italia?
  4. Affogare nel petrolio?
  5. Gli anni a venire

1. E SE AVESSE RAGIONE SOROS?

A. LE PAROLE DEL GURU

Nelle ultime settimane George Soros, il più famoso finanziere dell’era moderna, colui che ha ispirato il personaggio centrale del film di culto “Wall Street”, intervistato dalle maggiori televisioni del mondo, si è lasciato andare ad insolite quanto dirompenti affermazioni:
– Siamo in una situazione simile a quella del 2008 (o meglio ancora: del 1992, per chi se la ricorda) cioè le borse potrebbero crollare di nuovo e l’economia imbarcarsi di conseguenza come allora;
– Le valute dei Paesi emergenti (come la Cina) soffriranno ancora a lungo.
Nulla di che: solo che il mondo sta per crollarci addosso…
La Cina gli ha dichiarato immediatamente guerra addirittura in un editoriale del quotidiano del popolo, seguita a ruota dalla Russia. I banchieri centrali di tutto il mondo (Draghi compreso) si sono affrettati a lanciare dichiarazioni rassicuranti.

Io stesso sono rimasto infastidito da un discorso così diretto e spudorato.

La mia reazione spontanea è stata di stizza. Dopo essermi nutrito di discorsi e ragionamenti cauti e mai assoluti, che a mio parere erano necessari data la difficoltà di fare drastiche previsioni in momenti come questi, non avevo però compreso chè la poderosa capacità di sintesi di quell’uomo aveva in realtà risolto prima di tanti altri il sistema di equazioni che governano i mercati.

Soros non è nuovo a straordinarie prese di posizione e a ancor più straordinario coraggio nel combattere i luoghi comuni. Nel 1992 lo ha fatto addirittura contro la Banca d’Inghilterra (oltre che la Banca d’Italia e molte altre ancora)!

Se infatti è vero che il mondo non può affogare nel petrolio dal momento che ne ha pur sempre un grande bisogno, se è altresì vero che tutto ciò che va giù deve prima o poi tornare su, se è ancor più vero che nessuno può combattere ad armi pari con le banche centrali… È tuttavia altrettanto vero che il momento che stiamo vivendo è proprio di quelli eccezionali e, in quei momenti della storia in cui il mondo affronta una grande sfida, il primo problema è riconoscerla.

B. IL MOMENTO DI MINSKY

Qualcuno ha persino tirato di nuovo fuori la profezia di Hyman Minsky!

In effetti, un primo elemento utile a comprendere la situazione attuale è proprio la dirompente dimensione dei debiti pubblici.

Ma non basta: quando in gergo tecnico si dice che le banche centrali hanno espanso all’inverosimile i loro “bilanci”, si sta compiendo un giro di parole per dire che anch’esse si sono riempite di debiti!

Che è la determinante del cosiddetto “Minsky Moment”, cioè quel momento in cui si prende atto del fatto che le politiche monetarie non funzionano più. Esattamente quel che sta accadendo peraltro!

Ma non voglio parlare di teorie economiche, anche perché risulterei mortalmente noioso.

C. LA CRISI DEL 2008 E IL Q.E.

Il punto vero di partenza è invece un altro: cosa è successo nel 2008 dopo il crollo della Lehman Brothers e della fiducia nei mercati? È successo che uno straordinario ammontare di ricchezza è stato bruciato in pochissime ore, provocando una caduta verticale dei mercati finanziari e della fiducia degli investitori nei medesimi. E con il crollo degli investimenti e la distruzione di ricchezza la disoccupazione è montata, la deflazione ha fatto capolino e la sfiducia tra le banche ha provocato il crollo verticale dei valori degli strumenti “derivati”, cioè i futures, le opzioni e via dicendo, causando una brusca decelerazione della circolazione di moneta e una forte distruzione di base monetaria.

Dopo di ciò la Federal Reserve si è dovuta inventare il Quantitative Easing, cioè la stampa di carta moneta, andata avanti per ben quattro anni, per tentare di far recuperare alla valuta americana non tanto base monetaria ma soprattutto velocità di circolazione, fondamentale per far percepire ricchezza a chi la detiene e per far ricrescere di conseguenza i consumi e i valori immobiliari. Il Q.E. ha assolto anche a un altro compito fondamentale dopo che le banche non potevano più farsene carico: quello di acquistare titoli pubblici, che rischiavano di divenire carta straccia.

Il Q.E. europeo, per inciso, assolve proprio a questo compito, dal momento che non può (per statuto della BCE e per veto tedesco) servire a stampare moneta: serve ad acquistare quei titoli pubblici che sarebbero altrimenti crollati.

D. LA CRISI DELLA CINA E DEL PETROLIO

E cosa è successo negli ultimi mesi? Che l’economia della Cina ha vacillato e ha scoperto di non poter più sostenere con la spesa pubblica l’espansione ipotizzata, facendo crollare la sua valuta, il Renminbi (tradotto dal cinese: la moneta del popolo).

Ma soprattutto è successo che, più o meno di conseguenza, la Vina ha iniziato ad acquistare meno petrolio e il suo prezzo (come quello del gas e di moltissime altre materie prime tra cui la maggior parte dei metalli di utilizzo industriale) è andato a picco. E con esso anche buona parte delle divise monetarie degli altri Paesi emergenti, i primi esportatori delle medesime.

La discesa in meno di un anno del prezzo del petrolio da 100 Dollari a 30 è un fattore dirompente che non tutti hanno misurato per bene: con esso è crollato nel mondo il valore delle riserve petrolifere (stimate in 1656 miliardi di barili) per un ammontare stimato di 120 migliaia di miliardi di Dollari bruciati. Avete letto bene?

A quel crollo dobbiamo sommare:
– la perdita di valore di tutti quei titoli di debito che i vari soggetti collegati al mondo del petrolio e dell’energia non potranno più rimborsare;
– la perdita di valore dei mercati borsistici di tutto il mondo;
– la perdita di valore di quasi tutte le altre divise monetarie contro Dollaro e, dal momento che le ricchezze finanziarie e immobiliari normalmente si scambiano in valuta locale ma si misurano in Dollari,
– la perdita di valore di buona parte dei beni immobiliari esistenti nel mondo, con l’unica importante eccezione dei beni rifugio (oro, argento e diamanti), dal momento che il loro prezzo non può che essere espresso in Dollari;
– la ridotta appetibilità degli investimenti nelle tecnologie e nella produzione di energie da fonti rinnovabili.

E. LA DISTRUZIONE EPOCALE DI RICCHEZZA E LE SUE CONSEGUENZE

Se sommiamo tutto non è irrazionale supporre che ci avviciniamo ai 200 mila miliardi di Dollari (il Prodotto Interno Lordo del mondo intero nel 2015 è stimato pari a poco più di un terzo di quella cifra: 73 mila miliardi di Dollari)!

Come dire che è stata distrutta sui mercati finanziari in pochi mesi più ricchezza di quanta ne sia stata prodotta nella maggior parte dei secoli precedenti.

Nel 2015 è stata distrutta molta più ricchezza nel mondo di quanta ne sia stata distrutta ai tempi della Lehman!

La ricchezza percepita è tra l’altro fondamentale per determinare il livello dei consumi, degli investimenti e anche dei prezzi di moltissimi beni immobili o strumentali, indipendentemente dalla loro utilità.

Numerose teorie dimostrano che l’essere umano tende a spendere parte della propria capacità di reddito in funzione delle aspettative e della ricchezza percepita.

Per questo motivo non è irragionevole attendersi una decisa contrazione di consumi e investimenti nel mondo, man mano che la percezione di impoverimento si diffonderà anche tra la popolazione.

Lo stesso vale per le aspettative: quale comportamento assumiamo quando il futuro è incerto e gli investimenti rallentano?

Se abbiamo ragione di temere che i prezzi dei beni in cui possiamo investire potrebbero essere più bassi assumeremo un comportamento prudente e riflessivo. Non certo il contrario.

Ma questo vuol dire deflazione, e con essa una probabile nuova recessione globale (o meglio: bassa crescita).

F. L’ONDATA DIROMPENTE DELLE NUOVE TECNOLOGIE

A quanto sopra riportato dobbiamo ricordarci di sommare gli effetti poderosi di un altro fenomeno in corso: L’ONDATA di nuove tecnologie (principalmente legate a internet) che sta scuotendo l’industria, il commercio e i servizi.

Se è vero che le medesime hanno permesso alla gente comune di fare cose che mai prima di esse potevano ipotizzare (come ad esempio telefonare e videotelefonare gratis in tutto il mondo), dall’altra parte hanno creato un vero e proprio terremoto per i profitti e la stabilità di moltissimi settori industriali, accelerandone l’esposizione alla concorrenza internazionale e la compressione dei profitti che ne deriva.

Moltissimi distretti produttivi sono andati in crisi, provocando più disoccupazione di quanta ne aveva provocata l’avvento delle macchine che sostituivano il lavoro umano all’alba dell’era industriale.

Anche il commercio è in corso di profondi rivolgimenti, dal momento che una quota crescente si è smaterializzata, passando dai negozi e grandi magazzini ai computers e, sopratutto, ai telefonini intelligenti.

Persino il sistema dei pagamenti (che ha dato per secoli potere e profitti alle banche che li dominavano) è in corso di profonda trasformazione perché una quota crescente dei medesimi è accentrata su pochissimi operatori globali come Visa e PayPal. La tendenza non potrà che penalizzare i “supermercati del denaro” che sono diventate le banche moderne perché le disintermedia. Le banche sono inoltre a maggior rischio poiché esposte al deterioramento della qualità del credito causata dalla caduta dei profitti aziendali e al rischio di crollo dei prezzi dei titoli di stato posseduti.

Tornando al tema generale,  l’avvento delle tecnologie di telecomunicazione, miniaturizzazione e intelligenza diffusa degli oggetti non potrà che liberare forze meravigliose che permetteranno molto probabilmente all’umanità di fare altri balzi in avanti nel benessere e, forse, nella libertà d’azione, tuttavia il loro effetto immediato è terribile: il valore economico di moltissime imprese di tutte le dimensioni è a rischio o è già stato distrutto e, insieme alle medesime, anche milioni di posti di lavoro e le certezze di altrettante famiglie.

G. LA SOMMA DEGLI EFFETTI: UN POSSIBILE TSUNAMI

La definizione di onda anomala è esattamente la stessa che si può descrivere quando osserviamo il sovrapporsi di numerosi fattori che congiurano per un nuovo shock mondiale dell’economia: quando più di un’onda viene a sommarsi alle altre ecco che si crea un movimento straordinario che crea una discontinuità dirompente, che si trasmette con poca dispersione di energia molto a lungo, raggiungendo distanze notevoli se non trova ostacoli.

Il terremoto in corso in una così vasta gamma di valori patrimoniali messi a rischio dalla caduta dei prezzi dell’energia e delle materie prime, nonché dal contemporaneo ridimensionamento dei profitti aziendali che deriva dall’avvento delle nuove tecnologie, non può che riflettersi sui mercati finanziari internazionali.

La volatilità crescente cui assistiamo allibiti da oramai qualche anno è probabilmente ciò che deriva dal contrasto elevato che il correttivo del pompaggio di liquidità sui mercati ha creato nei confronti di una tendenza di fondo discendente.

Molti, me compreso, hanno ritenuto di mantenere un relativo ottimismo nel prendere sul serio le statistiche diffuse di recente a proposito dell’incremento dei consumi (provocato dall’effetto-benessere del calo del petrolio) e della ripresa economica ad essi collegata, auspicando (con la discesa dei tassi di interesse) un incremento nei moltiplicatori di valore delle aziende capaci di generare molta cassa, che andava a contrastare la discesa incontrovertibile dei profitti.

Ma la distruzione di ricchezza (accentuata dalla svalutazione contro Dollaro) cui stiamo assistendo nella maggioranza dei Paesi del mondo rischia di prevalere sui benefici per i consumatori, provocando innanzitutto un crollo della base monetaria allargata ai principali valori finanziari e, in seconda battuta, una contrazione degli investimenti produttivi.

La tempesta perfetta insomma, che si è abbattuta sui mercati delle commodities e delle materie prime, non è un paradosso che stia arrivando a propagarsi ai mercati finanziari.

E se questo fosse vero la recessione indotta (o bassa crescita) potrebbe durare tanto a lungo quanto potrà durare l’eccedenza di offerta delle medesime commodities sulla loro domanda, proprio a causa della distruzione di ricchezza sopra citata.

Senza che nuovi stimoli monetari possano fare un granché (se non favorire la speculazione e le solite banche) almeno sintanto che i debiti pubblici impediranno veri e propri interventi sull’economia reale.

2. LA CRISI DELLE BANCHE ITALIANE POTREBBE PROVOCARE UNA REAZIONE A CATENA IN TUTTO IL SISTEMA EUROPEO

La mancata risoluzione delle ingenti partite di crediti incagliati nelle pieghe dei bilanci della maggioranza delle banche italiane esercita uno strano magnetismo nei confronti degli operatori economici e delle istituzioni del resto d’Europa:
– da un lato preoccupa, dal momento che un Paese che pesa per l’11% del Prodotto interno lordo non può rischiare di confrontarsi con una crisi di credibilità del proprio sistema bancario senza che il fenomeno non finisca per investire anche il resto dell’Eurozona;
– dall’altro lato affascina gli operatori che potrebbero muoversi nella gigantesca partita di NPL (crediti incagliati) perché rappresenta una gigantesca opportunità di guadagno.
Soprattutto la seconda questione corrisponde ad perfetto gioco a somma zero: se la partita degli NPL non verrà trattata con la dovuta cautela, al guadagno (principalmente d’oltralpe) di chi li comprerà corrisponderanno due tristi fenomeni:
– le banche italiane dovranno iscrivere immediatamente la perdita e dunque risultare di colpo sottocapitalizzate;
– mentre l’immenso numero di imprese italiane che hanno trovato temporaneo sollievo grazie alla moratoria di fatto che il sistema bancario ha loro concesso (nel reciproco interesse di attendere la fine della crisi che perdura da un quinquennio) si troveranno sotto il fuoco incrociato delle azioni di recupero che tutti gli acquirenti degli NPL attiveranno un attimo dopo aver esercitato l’acquisto.

Orbene il fenomeno si somma nello stesso istante ad un altro rilevante problema: da quest’anno l’Italia s’è trovata costretta ad adottare la direttiva europea riguardante il “BAIL-IN” cioè il salvataggio dall’interno della banca che si dovesse trovare in crisi patrimoniale, attingendo prima ai denari depositati presso di essa e soltanto poi alle garanzie statali.

La questione in punta di diritto non rivela a prima vista l’enorme minaccia sottostante: la crisi di fiducia nel sistema bancario italiano che essa può provocare. Chiunque infatti superi la disponibilità di €100mila può vedersi infatti cancellato il proprio credito qualora la banca dove ha effettuato il deposito andasse in crisi. È chiaro di conseguenza che tutti coloro che dispongono di liquidità eccedenti tale importo vedono la minaccia reale di perderle e cercano di fatto di trasferirle a banche prive di tale minaccia e dunque in molti cadi all’estero. Non per motivi fiscali bensì per salvaguardia.

La possibilità che il combinato disposto dei due fenomeni anzidetti generi una crisi di credibilità dell’intero sistema bancario è una possibile corsa agli sportelli è dunque reale, sebbene non immediatamente visibile.

Insomma il rischio che scoppi una crisi delle banche italiane e che essa trovi esiti che rassomigliano a quelli ciprioti di pochi anni fa tormenta il sonno dei risparmiatori e al tempo stesso la credibilità dei banchieri nostrani, con la terribile minaccia che il fenomeno degeneri in una crisi dell’intero sistema-paese dal momento che:
– le banche italiane posseggono una quota rilevante del debito pubblico nazionale ;
– nella derelitta ipotesi di “corsa agli sportelli” o comunque di ingenti movimenti di capitale verso l’estero le banche italiane si vedrebbero private della liquidità necessaria a erogare credito e dunque moltiplicherebbero gli effetti negativi allargandoli a tutti gli altri comparti dell’economia reale.

Il rischio non è peraltro facilmente accantonabile con qualche decreto legislativo perché l’Italia è profondamente inserita in un contesto europeo che le impedisce di risolvere la questione monetizzando il debito del proprio sistema bancario, dal momento che la Banca d’Italia ha perso la propria capacità di stampare moneta e il Tesoro il proprio arbitrio di socializzare le eventuali perdite del sistema bancario coprendole con l’ampliamento del proprio debito pubblico.

Il sistema europeo insomma da un lato socializza determinate funzioni che in precedenza erano prerogative dello Stato nazionale, dall’altro lato lascia il peso del debito pubblico sulle spalle di ciascun paese membro, senza che quest’ultimo disponga più degli strumenti per sostenerlo. D’altra parte l’Europa richiede che il salvataggio delle banche in crisi possa estendersi al debito italiano (e dunque in ultima istanza al debito totale europeo) soltanto dopo che abbiano perso quattrini tutti coloro che ne risultano invischiati).

Non è difficile leggere dietro a questa situazione la lunga mano dei Francesi e dei Tedeschi (e con essi delle altri Paesi del Nord-Europa) nel rifiuto di accollarsi i molti disastri che afferiscono al nostro, dal l’eccedenza del debito di Stato, alla debolezza del sistema bancario, sino alla precarietà della nostra previdenza pubblica.

Il risultato evidente di questa situazione è tuttavia la perdita di fiducia della classe media nelle istituzioni nazionali , che si vede ancora una volta a rischio di immediato impoverimento, così come le era successo soltanto -generazioni addietro- in epoca di guerra.

La più probabile risposta della medesima sarà il ritorno ad un massiccio nuovo esodo di capitali e il corollario immancabile della nuova scarsità di credito disponibile per il sistema produttivo non potrà che accentuare i timori di insolvenza del Tesoro italiano, con il forte rischio che la morsa rassomigli sempre più a quella che ha recentemente avvolto la Grecia e, come è capitato a quest’ultima, senza che la situazione risulti gestibile a livello solamente italiano e anzi con il rischio che l’intera Unione Europea sia chiamata a profondere denaro nel buco nero che rischia di materializzarsi.

Non soltanto tuttavia il solo insorgere di una tale possibilità infligge un nuovo durissimo colpo alla credibilità politica dell’intera costruzione della comunità europea, ma (a causa delle dimensioni dell’economia italiana) essa mette a rischio anche la credibilità finanziaria della medesima, di fatto spuntando le armi alle future manovre di primavera della sua Banca Centrale, alla credibilità operativa dell’ancora non attuato Piano Juncker, e finendo per ritorcersi facilmente contro gli interessi di quegli stessi intolleranti Paesi che la hanno determinata.

E non è finita: l’attuale crisi di fiducia che ha determinato la deflazione globale dei prezzi di buona parte delle materie prime, derrate alimentari ed energia nell’intero continente euroasiatico verrebbe inevitabilmente amplificata dal possibile deflagrare della crisi italiana, con il rischio che l’intera economia mondiale ne possa di conseguenza soffrire.

È triste notare che esattamente come è già successo nelle ultime due guerre mondiali, l’approccio integralista e inflessibile di quei Paesi che le hanno determinate ha anche fatto sì che essi le abbiano sistematicamente perdute, sebbene ciò non abbia impedito loro di disseminare per lunghi anni costernazione e sofferenza anche a tutto il resto del mondo!

3. QUALI STIMOLI ECONOMICI POTRANNO RISOLLEVARE L’ITALIA?

In un recente suo articolo uno dei più famosi economisti dell’Università di Harvard, Martin Feldstein si chiede come mai il Quantitative Easing della Banca Centrale Europea non abbia sino ad oggi avuto quasi successo nel combattere la scarsa crescita, la deflazione e la disoccupazione a differenza di quello americano.

Negli U.S.A. soltanto nel 2013 Ie borse sono cresciute del 30% e i valori immobiliari del 13%, generando un incremento della ricchezza delle famiglie di 10 miliardi di dollari. Quella maggior ricchezza ha trainato la liquidità di quei mercati e, conseguentemente, la spesa per consumi, cresciuta all’incirca del 2,5% all’anno per gli ultimi tre anni, con la disoccupazione quasi dimezzata in totale e arrivata al minimo storico del 2,5%per i laureati.

Con quattro anni di ritardo (che da soli potrebbero essere stati fatali) la BCE ha tuttavia fatto lo stesso, portando sotto zero i tassi e iniziando a comprare titoli sul mercato per farne crescere liquidità e valore, ma i risultati a tutto il 2015 non si sono quasi visti in termini di crescita economica e disoccupazione.

Certo, nell’Unione Europea la quota di titoli azionari detenuti dai privati è sensibilmente inferiore e così è molto ridotto in termini di benessere percepito il rialzo del loro valore, con evidenti scarsi effetti nell’incremento della spesa per consumi, mentre il mercato immobiliare soffriva di un tale eccesso di offerta che solo verso la fine del 2015 si sono visti segnali di ripresa e soltanto nelle aree più ricche.

Il vero vantaggio del Q.E. Europeo lo si può riscontrare soprattutto nella discesa del 25% del tasso di cambio con il dollaro, sebbene quest’ultimo si sia rivalutato così tanto nei confronti dei Paesi Emergenti che l’incremento nell’export dell’Eurozona è stato relativamente basso e, malauguratamente, più marcato per i Paesi più ricchi dell’Unione.

Nei confronti degli USA poi era già molto invalsa l’abitudine di fatturare in dollari per gli esportatori europei, molti dei quali hanno costituito unità commerciali oltre Atlantico e dunque i vantaggi sono rimasti comunque limitati.

La discesa del tasso di cambio potrà forse contribuire a una lieve risalita dell’inflazione ma ciò evidentemente dipende anche da quel che succede al tasso di cambio con i Paesi Emergenti, che sono passati da una quota del 35% del Prodotto Globale Lordo nei primi anni ottanta a ben il 60% dello stesso.

Per concludere con gli effetti in termini di economia reale del tardivo Q.E. europeo, non possiamo trascurare di considerare l’effetto positivo che ha avuto l’annuncio di Draghi di nuovi stimoli a Marzo prossimo, nè quelli incrociati che le altre facilitazioni monetarie in Giappone come in Cina potranno avere quantomeno a favore di una ripresa delle quotazioni delle Borse Valori, ma data l’elevata interconnessione delle Borse di tutto il mondo. ciò potrà più aiutare a stabilizzare la loro tendenza al ribasso iniziata nell’estate scorsa con la fuga dei capitali dalla Cina, che non a inaugurare una vera e propria nuova stagione di successi.

Se pertanto la strada “finanziaria” per gli stimoli economici alla crescita dell’economia reale e alla riduzione della disoccupazione è praticamente preclusa, quali altre strade risultano ancora teoricamente percorribili per evitare i danni di una prolungatissima stagnazione?

Quello che non è stato ancora realizzato è l’avvio di importanti stimoli “fiscali” cioè di intervento pubblico atto a stimolare la ripresa attraverso spesa e investimenti, nonostante l’anno scorso sia stato varato il cosiddetto Piano Junker, che avrebbe dovuto mobilitare ingenti risorse verso investimenti pubblici e infrastrutturali, dai trasporti alle telecomunicazioni alle energie da fonti rinnovabili (un capitolo a parte meriterebbero i sostegni alle innovazioni e all’imprenditoria, che probabilmente non arriveranno mai dall’Europa a causa di forti interessi privati). Quegl’investimenti tra l’altro risulterebbero assai idonei ad amalgamare le popolazioni del vecchio continente e a creare l’equivalente di uno stimolo fiscale all’economia che non può arrivare a causa del doppio problema dell’elevato debito pubblico e dell’intolleranza della parte più ricca dei Paesi dell’Unione verso una mutualità del debito complessivo europeo.

Ad oggi il Piano, che menzionava cifre mirabolanti ma non stanziava che spiccioli a livello di budget della Commissione Europea, non è nemmeno partito. Sono i tipici investimenti che andrebbero finanziati con l’emissione di Eurobond sottoscritti poi dalla BCE.

Tuttavia sul tema un cauto ottimismo è lecito perché i vantaggi del medesimo, soprattutto per le grandi società di costruzione d’oltralpe, possono superare gli svantaggi in termini di riduzudel valore reale della divisa europea, avversata soprattutto dai tedeschi. Questi ultimi oramai se ne sono fatti una ragione, non tanto per generosità, quanto perché la mancata svalutazione della divisa comune avrebbe comportato un rallentamento anche nelle sue esportazioni.

È anche probabile che l’alzare i toni da parte di Renzi a Berlino possa trovare un qualche accoglimento delle sue istanze in cambio di feroci riforme strutturali in Italia per ciò che riguarda l’adeguamento alle direttive comunitarie, le quali non arriveranno senza un prezzo da pagare, soprattutto nei confronti della classe media.

Altra moneta di scambio sarà facilmente l’apertura del sistema bancario nazionale alla concorrenza europea, come pure l’inaugurazione di nuove importanti privatizzazioni, da leggere come veri e propri dazi da pagare a quei Paesi che potranno permettersi di effettuare le offerte e che otterranno, in cambio dell’acquisto, la promessa del governo di mantenere alte le tariffe di ciò che prima era semplicemente un servizio pubblico erogato al costo (come accade per le Autostrade) .

È un sentiero quasi obbligato, ma l’alternativa, quella di un progressivo allontanamento del nostro Paese dalla stanza dei bottoni europea, rischia di essere peggiore, posto che una seconda alternativa ci sarebbe: quella dell’uscita tout-court dell’Italia dall’Unione Monetaria.

Ma l’elevatissimo costo sociale a breve termine da sostenere nessun politico del nostro Paese sarebbe in grado di reggerlo!

4. AFFOGARE NEL PETROLIO?

Man mano che il suo prezzo tocca nuovi record negativi, non sono più solo gli economisti a chiedersi cosa stia succedendo.

Dal solo ultimo capodanno le quotazioni sono scese all’incirca di un altro 20%. Poi hanno provato a sollevare la testa ma l’eccedenza di offerta sulla domanda lascia spazio soltanto a movimenti speculativi.

Il terremoto dei prezzi di petrolio e gas naturale si riflette su tutta la filiera energetica e ovviamente terrorizza i mercati finanziari dal momento che provoca licenziamenti e disinvestimenti a catena.

A sua volta il crollo di ogni possibile prezzo o valore correlato al petrolio genera altra deflazione, oltre quella che le statistiche già facevano sempre più fatica ad occultare.

Ma l’argomento che lascia più sgomenti gli osservatori è l’impennata delle riserve petrolifere nel mondo, cresciute oltre ogni misura nel passato come se non se ne dovesse estrarre più un solo barile, mentre l’estrazione da parte dei principali Paesi produttori continua a crescere nel disperato tentativo di compensare con le quantità il calo degli incassi e, conseguentemente, buttare fuori tutti quei nuovi produttori che avevano esplorato campi fuori mano o adottato nuove tecnologie di estrazione, indebitandosi e contando su prezzi maggiori.

Che la crisi delle materie prime e, segnatamente, quella dei prodotti energiferi, fosse determinata da un eccesso di offerta, era cosa nota da molti mesi agli economisti.

Ma il buonsenso del vecchio detto che ogni quotazione che va giù prima o poi inevitabilmente torna all’insù, aveva orientato per tutto il 2015 il naso degli operatori e degli speculatori, spingendoli ad accumulare eccezionali riserve in attesa del grande rimbalzo, che non è mai arrivato.

Anzi, le vendite sui mercati sono spinte anche dal panico, nonché dall’impossibilità di “tenere botta”. Cosa che farebbe pensare che la situazione non si perpetuerà in eterno, anche a causa dell’ovvia conseguenza dell’odierno abbandono di numerose nuove iniziative di estrazione, che prima o poi avranno un effetto limitativo nell’offerta di greggio.

Prima o poi, se non fosse per un altro paio di cosucce…

Non solo infatti il mondo industrializzato prosegue la sua corsa verso l’efficienza energetica, a favore dell’utilizzo di carburanti alternativi e nella direzione di fonti rinnovabili, ma soprattutto un importante giro di vite nel consumo di materiali combustibili “deve” necessariamente arrivare dalle politiche ambientali che conseguono alla constatazione del sempre peggiore stato di inquinamento da CO2 del pianeta.

Senza contare il fatto che un ulteriore colpo letale ai consumi petroliferi è destinato ad arrivare dai progressi compiuti sul fronte dell’energy storage, cioè a quel coacervo di tecnologie finalizzate alla razionalizzazione dei consumi energetici e al riciclaggio delle energie non consumabili immediatamente.

Lo sviluppo delle tecnologie sul fronte energetico tra l’altro abbraccia ulteriori centinaia di altre applicazioni, dalla compressione del gas naturale per utilizzi “ecologici” nell’autotrazione sino allo sviluppo di sistemi completamente nuovi basati sulla produzione e riproduzione dell’idrogeno.

Molte di queste tecnologie sul fronte dell’energia e del suo accumulo non sono state sviluppate soltanto per economizzare il consumo di combustibili fossili, ma soprattutto per rimpiazzare questi ultimi, in vista di esigenze principalmente ambientali ovvero di compattamento delle dimensioni.

Se vogliamo proprio andare a cercare qualche ricaduta positiva dell’attuale evoluzione dei mercati, essa allontana sempre più il mondo dallo sviluppo delle attuali tecnologie di produzione di energia dalla fissione atomica, riducendo i rischi sistemici che essa inevitabilmente comporta.

Ma anche su quel fronte non è lontano il giorno in cui saranno operativi i primi reattori nucleare a “fusione”, cioè animati dallo stesso principio fisico che fa produrre energia al sole, determinando una caduta verticale dell’inquinamento derivante dalla produzione di energia.

Ovviamente tutto ciò non cambierà in un giorno le nostre abitudini, le nostre fonti abituali di riscaldamento, condizionamento, trasporto e produzione industriale.

Anzi è probabile che l’attuale crisi delle quotazioni petrolifere possa presto conoscere nuove ondate al rialzo, forse proprio in virtù dell’eccesso di ribasso, nonché della lungaggine dei tempi dell’innovazione tecnologica.

Ma è oramai opinione diffusa che non sia mai stata vera la storiella della limitatezza delle riserve naturali di petrolio sul pianeta terra, ragione per cui esse sarebbero presto state esaurite.

Sembra piuttosto vero il contrario: il mondo affoga nel petrolio (e nei suoi immediati succedanei) sino al punto da non poter più utilizzare tutte le sue riserve per motivi diversi dalla scarsità: da quelli di esigenze ambientali sino a quelli di praticità e fruibilità (dal momento che l’uso dell’elettricità si presta all’infinita possibile miniaturizzazione).

Cosa che fa pensare che forse le quotazioni petrolifere potranno anche rimbalzare, ma anche che nel medio-lungo termine la loro strada sia inevitabilmente segnata al ribasso. Sebbene nel fare previsioni occorra sempre tenere a mente J.M.Keynes il quale ricordava ai suoi colleghi economisti che nel lungo termine “saremo tutti morti”.

5. GLI ANNI A VENIRE

Per coloro che ritengono che gli anni a venire promettano al nostro Paese molta incertezza e poche prospettive di miglioramento della situazione economica generale (ma soprattutto contemplino l’imminenza di radicali cambiamenti nella vita lavorativa senza una ragionevole probabilità che gli stessi possano generare sufficienti vantaggi per il cittadino medio), ecco alcune considerazioni sulle macro-tendenze che potranno determinare le discontinuità e su ciò che sarà ragionevolmente possibile fare per “cavalcare la tigre”.

Numerosi e incontrollabili fattori economici, sociali, geopolitici e tecnologici infatti rivoluzioneranno la nostra vita e influenzeranno sensibilmente il nostro reddito personale, che risulterà di conseguenza tutt’altro che stabile e garantito.

Vediamo quali:

– I mercati finanziari sono divenuti intrinsecamente instabili, a prescindere dalle buone e cattive notizie che li muovono, dall’intervento (sempre più invadente) delle banche centrali, dai risultati di gestione delle aziende quotate, e soprattutto a prescindere dal livello sempre minore dei tassi di interesse;

– Ne è risultata una discesa della velocità di circolazione della moneta e conseguentemente della sua disponibilità, unitamente all’evaporazione della sensazione di benessere che nei decenni precedenti era invece sempre cresciuta in ragione dell’innalzamento dei salari medi, dei consumi e perciò della circolazione delle risorse liquide;

– I valori immobiliari stessi sono stati messi in costante discussione, dal momento che la minor liquidità disponibile ne ha accentuato la difficoltà di realizzo, mentre tecnologia e esigenze di tutela dell’ambiente hanno provocato una rapida obsolescenza di molti cespiti, oppure la necessità di investire su di essi per adeguarli, con l’ovvia conseguenza di dover riconsiderare verso il basso la ricchezza disponibile, al netto dei più incerti valori e delle numerose esigenze di spesa che ne derivano;

– La rendita finanziaria sulla quale contavano sino a pochi anni fa innumerevoli risparmiatori, pensionati, investitori e depositanti in banca, si è azzerata, parallelamente alla discesa sotto lo zero dei tassi di interesse e delle aspettative di inflazione, provocando numerose questioni irrisolte o irrisolvibili riguardo alla radice stessa delle motivazioni per il risparmio e l’investimento, che sono sempre state poggiate nella ricerca di disponibilità future e di tutela o di incremento del tenore di vita;

– Le cinture di sicurezza sociali e previdenziali dello Stato sono altresì progressivamente venute meno, contribuendo anch’esse a generare sgomento e incertezza riguardo alle nostre capacità di difendere il tenore di vita e la possibilità per molti dei figli del “baby boom” degli anni cinquanta e sessanta di riuscire a ritirarsi in pensione o a curarsi decentemente negli ultimi anni della propria vita;

– Le numerose aspettative negative sopra descritte non possono che determinare un calo dei prezzi di praticamente qualsiasi cosa (cioè la deflazione e la riduzione delle aspettative di valore che è alla base del calo degli investimenti), nonché una ulteriore discesa al di sotto dello zero dei tassi di interesse e forse un rinnovato furore delle guerre monetarie tra i Paesi più poveri che rincorrono svalutazioni competitive;

– Ma soprattutto una congiuntura così deludente non può che amplificare le aspettative che discendono dalla ricerca scientifica e dalle innovazioni tecnologiche, con la consapevolezza dell’importanza sempre maggiore del possibile loro contributo a determinare una controtendenza nei profitti aziendali, nel potere d’acquisto della gente e dunque in generale a provocare l’innalzamento del benessere collettivo.

Ecco dunque parzialmente spiegate le apparenti contraddizioni tra il permanere della deflazione dei prezzi e le elevatissime valutazioni aziendali riservate dagli investitori finanziari alle società che promuovono nuove tecnologie o promettono forti discontinuità nel loro modello di business.

Ecco anche spiegata la difficoltà persistente di recupero dei precedenti valori per il mercato immobiliare.

Ecco infine chiarita la debolezza strutturale del prezzo di numerosi beni-rifugio (oro escluso).

Ma soprattutto dobbiamo ancora prendere in considerazione i fattori che potrebbero determinare le più importanti sfide alla tranquillità del ménage familiare medio, derivanti dalle tendenze di lungo periodo dell’economia reale, della politica, della geopolitica e della finanza pubblica.

La globalizzazione ha infatti messo in forte discussione il ruolo di numerosi comparti economici e delle imprese di ciascuno di essi, spesso azzerando i margini e i posti di lavoro, spostando altrove i ruoli direzionali e le attività a maggior valore aggiunto, determinando persino una rapida obsolescenza del nostro sistema scolastico e universitario.

La geopolitica e le minacce del terrorismo internazionale hanno spesso dettato le agende di ogni singolo governo nazionale (e cioè questi ultimi sono divenuti sempre più dipendenti dalle esigenze di adempiere ai diktat imposti dalle alleanze internazionali, dalle dipendenze dall’ombrello fornito da organizzazioni sovranazionali come la NATO, il Fondo Monetario, la Banca Centrale e la Commissione Europea).

La finanza pubblica quindi sembra da un lato destinata a sostenere un budget federale europeo sempre più gravoso nonché nuove importanti spese di adeguamento tecnologico delle attrezzature militari, dall’altro lato si trova costretta a delineare nuovi tagli di spesa che non potranno non impattare negativamente sul benessere dei cittadini, mentre i benefici delle privatizzazioni e delle modernizzazioni sembrano destinati soprattutto alle banche nonché a quei pochi imprenditori capaci di ritrovarsi al posto e momento giusto in ragione dei numerosi cambiamenti in atto.

Tasse e minori erogazioni di servizi non potranno perciò che imporre ulteriori limitazioni al benessere dell’uomo della strada, in ragione di fattori spesso difficilmente a lui spiegabili e non sempre così trasparenti, sebbene oggi numerosi strumenti di informazione, comunicazione e di confort siano scesi così tanto di prezzo da risultare disponibili praticamente per chiunque.

Tutti i fattori sopra delineati hanno determinato una ovvia conseguenza della polarizzazione della ricchezza non solo a favore dei ceti sociali più alti (quelli in grado di progettare e sostenere gli investimenti finanziari e un’imprenditoria globalizzata), ma soprattutto a favore dei Paesi più ricchi e dei sistemi capitalistici più avanzati.

Sono tutti fattori che possono essere considerati fuori del controllo (e in parte lo sono) della politica locale, come ad esempio i forti flussi migratori che interessano l’Europa, ma le cui tendenze rispondono a logiche e paradigmi tutto sommato identificabili e relativamente prevedibili, ai quali chi è previdente si può dunque adeguare per trarne beneficio invece che nocumento.

Gli investimenti finanziari ad esempio: difficilmente potranno continuare nelle modalità viste sino a tutto il 2010, dal momento che l’avversità per il rischio comporta un azzeramento dei loro ritorni. La cosa comporterà il necessario ausilio di operatori professionali ma anche la necessità di selezionarli sempre meglio.

Anche il luogo e gli ambiti di lavoro cambieranno, sempre più autonomi dal punto di vista dell’inquadramento retributivo, ma anche sempre più dipendenti da network e organizzazioni globali la cui appartenenza risulta sempre più indispensabile.

E il nostro approccio alla salute e allo stile di vita non potrà che tenere conto dell’esigenza sempre maggiore di prevenzione e sanificazione, senza l’applicazione delle quali il costo della sanità potrebbe diventare insostenibile (esempio: le assicurazioni sanitarie che vengono disdette dopo qualche grave intervento), anche in funzione del deciso incremento delle aspettative di longevità.

Tempi duri dunque? Si ma non solo. Le novità generano sempre maggiori opportunità, soprattutto per chi vuole farsi più dinamico e reattivo. Come sempre del resto!

E in questo apparente nuovo medioevo economico ci sono segnali di grandi novità tra le imprese che sanno mettere in discussione le loro precedenti abitudini, tra i professionisti e i dirigenti che sapranno cavalcare le nuove ondate tecnologiche, tra i risparmiatori e gli investitori che sapranno interpretare le nuove tendenze.

Gli anni a venire non saranno perciò nè brutti nè belli, ma sicuramente interessanti o preoccupanti, a seconda del nostro approccio alle novità!

Stefano L. di Tommaso