Helicopter Money

INDICE:

  1. Uno sguardo ai mercati
  2. Perché la ripresa globale è così timida?
  3. Una soluzione di sistema per la capitalizzazione delle banche italiane?
  4. L’Europa dei tassi (e tutto il resto) col segno meno
  5. Vicissitudini delle banche e tutela del patrimonio
  6. Bsi Papers: un segreto sino ad oggi ben custodito
  7. Articolo 47(della Costituzione della Repubblica Italiana)

1) UNO SGUARDO AI MERCATI

<< L’economia mondiale avanza, anzi forse no >>.
Se un domani si volesse scrivere un epitaffio sulla tomba della dottrina economica moderna, forse questa sarebbe la frase giusta, perché oramai nulla è più così vero, certo, tangibile. Sono giorni in cui ogni verità è  sfuggente , come in un romanzo d’appendice.
Se infatti guardiamo ai Paesi più avanzati del mondo: USA e Giappone, troviamo solo mezze verità, risultati altalenanti e sempre maggiore scetticismo tra gli operatori professionali.
Se invece guardiamo ai Paesi emergenti, altalena a parte (che c’è per tutti) si è tornati a guardare al futuro con molta più fiducia, dal momento che il Dollaro si è rilassato e i prezzi delle materie prime e dei combustibili è tornato a livelli di salvaguardia.
Dopo le ultime statistiche che proiettano quasi a zero la crescita economica americana per la restante parte del 2016, forse la Federal Reserve per qualche tempo interromperà la litania del rialzo dei tassi, o forse addirittura tornerà a cavalcare il Pègaso alato dell’ampliamento della base monetaria, dal momento che già il Giappone è tornato tecnicamente in recessione e che entrambi i Paesi sono normalmente gli “early birds” che anticipano al resto del mondo quel che poi accadrà anche agli altri.
Se poi questo significa che il ciclo economico si è già invertito dopo una timidissima ripresa, ovvero che la ripresa permane, ma và a scatti, non lo sa nessuno.
Anzi, ancora oggi tutti continuano a temere una pesante correzione delle borse mondiali, che in parte c’è già stata, insieme a una relativa “normalizzazione” dei timori di deflazione che negli ultimi mesi si sono fatti più decisi a causa dei ribassi nei prezzi dell’energia, dell’agricoltura e delle materie prime. Neanche in questo ci sono certezze, anzi: i tassi d’interesse hanno ripreso a scendere un po’ dappertutto e non è facile interpretarne le cause senza imbattersi di nuovo nella parola “deflazione”.
Guardando però avanti, oltre l’eventualità dei soliti improvvisi temporali (finanziariamente intesi) di Ferragosto, alla timida ripresa dei consumi, al prosieguo degli investimenti in nuove tecnologie e nuovi sistemi di produzione industriale, un po’ d’ottimismo è d’obbligo. Anzi: se il mondo prosegue abbastanza a lungo nella direzione intrapresa possiamo ben sperare nella riduzione(o monetizzazione) degli ingenti debiti accumulati, nella ripresa dei profitti aziendali e, sinanco, in nuovi rialzo delle borse.
Si ma dopo. Dopo l’estate, dopo che si è visto chi governerà il globo a partire dal 2017, dopo che i successi tecnologici ci avranno consegnato un mondo migliore nel quale vivere. Per ora non ci sono certezze, cioè ci sono quasi solo incertezze. E tagliole, trappole, possibili sorprese, scarsa visibilità e la teorica prospettiva di ricadere già in una nuova (magari moderata) recessione senza aver quasi goduto della ripresa (per i fondelli) che le statistiche ci hanno propinato.

2) PERCHÉ LA RIPRESA GLOBALE È COSÌ TIMIDA?

Negli ultimi 7 anni, quelli successivi alla crisi finanziaria globale, il mondo intero, dai Paesi più ricchi a quelli più disagiati, ha vissuto un’incerta e contrastata uscita dal tunnel.
Da allora su queste pagine abbiamo lanciato spesso allarmi circa i pericoli che incombevano sull’economia globale, che oggi sono chiaramente ancora vivi e fors’anche più minacciosi di allora, quando il dibattito riguardava principalmente la giustificazione o la bocciatura delle attese di una rapida ripresa.
Una ripresa che anche statisticamente è arrivata tardi, solo a tratti, a macchia di leopardo, nella ripartizione geografica del mondo come nella suddivisione tra i vari settori economici, per poi smaterializzarsi temporaneamente e riapparire solo in seguito.
Tuttavia l’ultimo lustro ha visto comparire formidabili investimenti nel Venture Capital e, più o meno in corrispondenza, altrettanto poderose innovazioni tecnologiche, che avrebbero -in tempi normali- da sole rilanciato molto in alto le aspettative di crescita economica.
Ora la domanda è perché invece, dopo aver vissuto una crisi così profonda, il mondo non abbia visto apparire un altrettanto importante rilancio dell’economia? Il pendolo ha forse smesso di oscillare? Quale meccanismo si è inceppato in questo mondo così evoluto?
Alla questione si spesso pensato di dare una risposta semplice: la ripresa non si è sviluppata molto perché l’eccesso di debito stratificatosi in precedenza ha fatto sì che ne sia mancato il carburante: il denaro.
La cosa tuttavia non ha convinto i più: si può obiettare infatti che le riduzioni del moltiplicatore della moneta e della sua velocità di circolazione, conseguenti a una crisi così forte, sono state ampiamente contrastate da forti immissioni di liquidità che le Banche Centrali, attraverso manovre come il Quantitative Easing, pur discutibili, hanno inequivocabilmente erogato.
Le banche avrebbero potuto trasmetterle all’economia reale attraverso il finanziamento degli investimenti e gli acquisti in Borsa, e invece hanno mancato di farlo, scavando un solco profondo tra l’andamento dei mercati finanziari e quello della cosiddetta “economia reale”.
La ripresa di quest’ultima invece è rimasta quasi al palo, così come il reddito disponibile dopo le tasse (che sono mediamente aumentate), lasciando nell’uomo della strada la sensazione che non si sia mai usciti davvero dalla recessione del 2008.
Si è detto che è mancata la catena di trasmissione all’economia reale (costituita appunto dal credito), affinché la ripresa registrata in maniera così impetuosa e prolungata sui mercati finanziari, potesse estendersi anche alla capacità di acquisto del cittadino medio del mondo. In parte è vero.
Ma questo da solo non basta a spiegare il fiato grosso delle economie più mature, né le esitazioni di quelle più fragili nell’inaugurare una nuova stagione di benessere.
C’è stato chi ha attribuito la mancata contabilizzazione della ripresa ad un erroneo strumento di misurazione: il Prodotto Interno (o globale) Lordo, che si limita a misurare i consumi in termini di spesa materiale in Dollari (che si è in effetti apprezzato troppo nei cfr di tutte le altre valute, riducendo la visibilità della ripresa), senza considerare inoltre tutti i benefici della “Sharing Economy” di cui hanno goduto coloro che sono passati ad accedere stabilmente ad internet, senza dover spendere quattrini. Ma neanche questa interpretazione dei fatti è consistente: il fenomeno ha dimensioni ancora troppo limitate nel mondo.
Non solo, ma le nuove tecnologie avrebbero dovuto accrescere non dico i redditi, ma quantomeno la produttività del lavoro, di cui magari si sarebbe appropriato il solo mercato dei capitali, lasciando ai lavoratori solo le briciole. Invece non è stato così: non si sono registrate significative crescite della produttività del lavoro negli ultimi 7 anni. Pertanto nessuno l’ha rubata ad altri. Anche questo è un mistero dal momento che da tempo si parla da anni di “Industria 4.0”, di “Internet delle Cose” eccetera.
Il fenomeno della mancata crescita della produttività peraltro non è da considerarsi una curiosità accademica poiché, come fa notare Nuriel Roubini, andando avanti in questa dicotomia tra economia reale ed economia finanziaria, il populismo avanza tra lo scontento della gente e pone una seria minaccia alla stabilità politica e sociale dell’Occidente.
Molti ne concludono perciò che bisogna rispolverare le teorie interventiste di John Maynard Keynes e tornare a rilanciare le politiche economiche dal punto di vista della spesa pubblica infrastrutturale, dal momento che gli stimoli alla ripresa dei consumi fruttano così pochi risultati. Questo in effetti non è ancora stato seriamente sperimentato e potrebbe risultare fortemente coerente con l’evoluzione demografica e digitale dell’umanità, visto che buona parte degli investimenti infrastrutturali riguarderebbero i trasporti, le telecomunicazioni e le altre “Public Utilities”.
Troppo pochi però si chiedono davvero come fare per riuscire a ringiovanire la società civile, a rilanciarne gli entusiasmi, ad aumentarne l’integrazione internazionale, a stimolarne la creatività e la progettualità.
Se tutto ciò di colpo intervenisse davvero sarebbe relativamente improbabile che la nuova crescita economica risulterebbe impedita dalle pur oggettive limitazioni nel credito disponibile o dall’ eccesso di debiti pregressi. Il vento della storia spesso soffia impetuoso e non viene trattenuto da qualche barriera artificiale.
Forse lo sviluppo futuro dipenderà proprio dal rilancio nella società civile di questi fattori “umani” più che non da quelli finanziari e tecnologici.
Forse l’umanità del ventunesimo secolo ha solo disperatamente bisogno di un nuovo umanesimo!
(Nell’immagine l’indice TIGER (Tracking Indexes for the Global Economic Recovery) elaborato dal FINANCIAL TIMES ad Aprile 2016.

3) UNA SOLUZIONE DI SISTEMA PER LA CAPITALIZZAZIONE DELLE DELLE BANCHE ITALIANE?

Quello che stiamo vivendo è un periodo di fuoco per le banche di tutta Europa ed in particolare per quelle italiane: la Borsa Italiana ha portato in poco più di un semestre la valorizzazione dell’indice compartimentale dei titoli bancari alla metà dei valori precedenti. Molti potrebbero perciò considerare quella attuale una situazione ideale per speculare in Borsa: comprare a buon mercato titoli di aziende solide non capita tutti i giorni.
Ma il punto che definisce un buon investimento non è mai il differenziale dei valori attuali rispetto ai massimi storici, bensì l’aspettativa sul valore futuro delle banche nazionali: se la tendenza attuale dovesse permanere quei titoli di svaluteranno ancora a causa delle esigenze di ricapitalizzazione delle banche stesse: in tal caso il sistema lascerà che le quotazioni dell’intero comparto vadano a picco provocando magari nuovi “bail-in” sulle spalle dei depositanti?
O il fondo Atlante raccoglierà nuove risorse e rastrellerà tutto per poi poter giocare un ruolo da protagonista nella successiva partita di integrazioni che si aprirà all’indomani dell’apoteosi attuale della bolgia sui crediti in sofferenza ? Il mercato se lo chiede, indeciso se lasciar proseguire la slavina o speculare al rialzo, ma ad oggi la tendenza al ribasso non appare definitivamente interrotta.
È anche questo il motivo per cui Draghi, seppur con toni infinitamente più diplomatici che non egli stesso abbia fatto in precedenza, ha parlato chiaro qualche giorno fa : non lasceremo che il mercato finanziario vada a rotoli -tradotto in vulgata-: se necessario noi interverremo. Peró Draghi sa bene che non ha mano libera e non può farlo solo per uno specifico Paese.
D’altra parte la recente politica dei piccoli passi negli aumenti di capitale delle banche quotate e quella bilancistica della graduale emersione delle perdite maturate sui crediti commerciali ha creato una sfiducia generalizzata negli investitori, e non ha fatto bene alle banche italiane: i limitati collocamenti di capitale che ciascuna di esse ha promosso per evitare di far crollare il titolo sono risultati ogni volta insufficienti, trascinando comunque al ribasso le azioni senza mai dare la sensazione che la loro ricapitalizzazione potesse risultare “definitiva”.
In altre parole alcuni titoli bancari sono oggi scambiati a una piccola frazione del patrimonio netto contabile, ma gli investitori hanno mangiato amaramente la foglia delle perdite accumulate fino ad oggi e stanno ugualmente lontani dal comparto bancario, sino a quando non interverrà una qualche “soluzione di sistema” (ivi compreso l’eventuale ampliamento del Fondo Atlante) che metta fine allo stillicidio.
Contribuiscono al loro scarso entusiasmo i limitati tagli alle spese generali delle banche e il modello di business ancora fortemente tradizionale (mentre nel mondo impazza la nuova ondata di “Fintech”), il limitatissimo livello dei tassi di interesse che penalizza l’intermediazione del denaro, il peso dei titoli pubblici in pancia alle banche italiane e i timori generalizzati sui mercati finanziari internazionali nei quali comunque sono investite risorse importanti di ogni istituto bancario.
Una “soluzione di sistema” risulta dunque necessaria perché non è pensabile l’adozione generalizzata del “bail-in” per risolvere i problemi di sottocapitalizzazione delle banche italiane. La normativa europea denominata “bank recovery and resolution directive” prevede la disapplicazione del “bail-in-in” in caso di rischi per la stabilità finanziaria. Lo stesso articolo 107 del Trattato di Lisbona dispone che possano considerarsi compatibili con il mercato interno gli aiuti di stato destinati “a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”. E sarebbe proprio il caso dell’Italia qualora dovesse allargarsi l’attuale crisi del comparto bancario.
La “soluzione di sistema” non è necessariamente però il Fondo Atlante, che seppur governato con molta competenza dal prof. Alessandro Penati, ha risorse limitate e non potrebbe ricevere aiuti di Stato. E gli investitori restano perciò a guardare sprofondare il comparto chiedendosi fino a che punto arriverà.
Pochi mesi orsono, quando Atlante è stato proposto ai sottoscrittori, non ha raccolto tutti i capitali che avrebbe dovuto e non può non ragionare come un operatore di private equity specializzato: esso può comprare, risanare, fondere e rivendere con profitto, ma nel medio termine. A breve non può intervenire in Borsa per risollevare il “sentiment” del mercato di Borsa.
Nemmeno Penati può dunque oggi riuscire a ingenerare sufficiente fiducia nell’andamento dell’economia nazionale, scosso tra l’altro dal selvaggio confronto politico in atto per la campagna referendaria. Senza che il Governo agisca con molta decisione, il fango che le fazioni gli getteranno addosso sino ad Autunno inoltrato non aiuteranno certo l’Italia a divenire meta privilegiata degli investitori istituzionali stranieri ! Nè l’ombrello della BCE può divenire una panacea. Draghi non può emettere norme “ad hoc” senza scatenare un putiferio e per giunta deve guardarsi le spalle mentre si avvicina alla scadenza del suo mandato.
La “soluzione di sistema” non può che arrivare perciò da un deciso e risolutivo intervento normativo a gamba tesa del Governo stesso, in accordo o meno con l’Unione Europea, e non può nemmeno essere tardivo: qualora infatti nessun operatore di mercato sottoscriverà in misura necessaria la ricapitalizzazione del sistema bancario italiano, esso giungerebbe a sprofondare in una nuova stagione di “bail-in” che a sua volta muoverebbe le piazze e le barricate in un’ondata di sfiducia, non solo di depositanti e risparmiatori, bensì dell’intera cittadinanza, e provocherebbe una nuova immancabile fuga di capitali all’estero, paragonabile a quella che ha messo definitivamente in ginocchio la Grecia.
La posta in gioco è perciò assai alta e il tempo per il Governo di Matteo Renzi e Piercarlo Padoan, per prendere coraggio e mobilitare risorse che assai probabilmente non arriveranno da Bruxelles, resta piuttosto breve!

4) L’EUROPA DEI TASSI (E TUTTO IL RESTO) COL SEGNO MENO

La parola Brexit in questi giorni è sulla bocca di tutti, ma ci siamo chiesti davvero cosa vuol dire? Siamo sicuri che si tratti di una manovra populista di uno dei membri “ricchi” del club di nazioni che compongono l’Unione, come i tiggì ci vogliono far credere?
La domanda è forse pleonastica, la risposta meno: la perfida Albione che settant’anni fa bombardava le chiese e i monumenti storici d’Italia, che ha sempre tenuto un piede dentro e uno fuori del vecchio continente, che ha conservato la propria valuta, i propri sistemi metrici e le proprie normative anti-comunitarie, per una volta sta chiedendosi infatti davvero cosa dice la sua gente: sta mettendo “questa” Unione, non il concetto stesso di Unione, sotto processo.
Inutile dire che anche lì esistono il populismo, gli slogan preconfezionati, nonché le campagne che agitano la paura di un generale impoverimento dell’economia più aperta al commercio internazionale che la storia abbia mai conosciuto (vere ma solo in parte, piccola aggiungerei, come sempre d’altronde).
“Questa” Unione infatti di colpe da farsi perdonare ne ha accumulate infatti un po’ troppe: dagli sprechi di bilancio (solo all’Italia costa oltre €50 miliardi l’anno, più o meno il valore del nostro deficit di bilancio) dai muri alle frontiere con l’Italia, alle normative su misura di Francia e Germania, al rigore a due o tre velocità, sino alle direttive europee sull’industria alimentare che, oltre a ledere i nostri interessi, feriscono anche il nostro orgoglio nazionale. Figuriamoci quello britannico!
E chi si ricorda del Piano Junker? Qualcuno si è accorto che esiste? E dell’unione bancaria, di quella fiscale, di quella militare o di quella dell’energia si è visto qualcosa? La risposta potrebbe essere complessa, ma quella semplice è un bel NO, come la parola che vogliono far dire ai sudditi di sua maestà novantenne.
Forse l’unica eccezione (ma non troppo, visto che al di quà delle Alpi nessun cittadino ne coglie i benefici) è la politica davvero paneuropea di Mario Draghi. Supermario però è attento a non travalicare i confini, a non scontentare davvero il Bundestag.
I tassi negativi potrebbero infatti far bene all’Europa è meglio ai Paesi periferici come il nostro, ma senza oliare le cinghie di trasmissione delle politiche monetarie (le banche) nisba! Neanche loro ci danno una mano.
Si dice che i tassi negativi colpiscono i creditori, non i debitori. Si dice che, con la loro lotta indiretta alla mano morta, essi faranno affluire più risorse per pagare i circa 60mila miliardi di infrastrutture e opere pubbliche ancora da realizzare nel mondo nei prossimi quindici anni (una parte consistente dei quali in Europa del Sud). Però appunto la moneta europea circola sempre meno, la deflazione europea accentua la sua tenaglia e contribuisce alla “calabrizzazione” della penisola, mentre persino in zona Sterlina essa provoca qualche prurito.
Lo si dice da tempo che le sole banche centrali non possono governare l’economia (e ottenere risultati) ma intanto nemmeno davanti al fantasma della disintegrazione europea si intravedono politiche di stimolo all’economia, dal momento che le medesime avrebbero un costo principalmente a carico dei Paesi più virtuosi e un vantaggio principale per quelli meno ricchi, categoria che spesso corrisponde a quelli meno virtuosi.
Questa Unione insomma sta rifiutando il primo collante politico di ogni unione tra viventi: la solidarietà!
E poi non è vero che a noi i tassi a zero fanno bene: le pensioni e gli studi dei figli a pagarli molto spesso sono le cedole dei risparmi, nei quali noi Italiani siamo sempre stati eccellenti! I tassi a zero penalizzano chi risparmia, chi è avanti con l’età (e noi risultiamo i più longevi) e penalizzano le banche (che da noi sono già in ginocchio).
Sono alcune delle tante categorie che ci assimilano ai britannici.
Anche noi Italiani dovremmo mettere sotto scrutinio i ministeriali di Bruxelles e i commissari, europei si, ma un po’ troppo di parte. Ma noi non ce lo possiamo permettere. Abbiamo altri pensieri, oggi.
Allora ben venga chi lo fa al nostro posto con coraggio, chi promuove un vero e sano dibattito nazionale, perché da noi è il contrario: l’unico vero tema urgente sul quale avrebbe avuto senso discutere (quello delle riforme urgenti) è stato già politicizzato e radicalizzato a dovere, evitandoci di spremere le meningi e ripristinando i nostri più cavernicoli sensi di appartenenza a questo o quel treno politico, che in Italia restano necessari sintantoché qualcuno “tiene famiglia”!

5) VICISSITUDINI DELLE BANCHE E TUTELA DEL PATRIMONIO

Il tema che in passato era collegato all’esigenza di sfuggire alla voracità del fisco italiano, all’esportazione dei capitali, o alla costituzione di un Trust familiare, oggi è tornato prepotentemente alla ribalta a causa delle prime crisi bancarie e della normativa sul bail-in (che si pronuncia all’inglese ma si traduce dal genovese quando ci si sforza di capire cosa rimarrà ai detentori di ingenti patrimoni in quei frangenti).
Il sistema bancario italiano è sempre apparso ben capitalizzato ma oggi, dopo sette anni di perdite sui crediti e di mancato rinnovamento gestionale (costi eccessivi nonostante le fusioni e modello di business troppo tradizionale), è considerato più che mai a rischio.
L’aver acquistato inoltre troppi titoli di stato, anch’essi considerati a rischio (sui quali hanno goduto per anni: prima di un crescente differenziale tra il costo del denaro e il rendimento, e poi delle notevoli plusvalenze conseguenti al ribasso dei tassi) è poi oggetto di ulteriore controversia tra gli analisti italiani -che ancora considerano i patrimoni bancari sufficienti a scongiurare rischi- e quelli stranieri, che fanno notare che nella normativa di vigilanza non esiste un apposito capitolo: “rischi derivanti dalla detenzione di titoli di stato”.
Le banche fanno quindi sempre più fatica a reperire sottoscrittori dei propri aumenti di capitale, che in passato provenivano dalla clientela stessa, oggi delusa. Ma senza incrementare il loro capitale appaiono sempre più a rischio di default e, a causa della suddetta normativa sul bail-in, conseguentemente pericolose per chi vi deposita risparmi al di sopra della soglia di protezione del fondo interbancario dei depositi: quella dei 100mila euro.
Ecco che tutti si chiedono come “tutelare” i risparmi e che molti per questo motivo hanno ripreso a varcare le frontiere.
Il tema è divenuto anche oggetto di specifiche politiche di marketing, ovviamente rivolte a coloro che superano la soglia di protezione dei depositi: specifiche campagne sui media volte a sottolineare la differenza tra banca e banca, gruppi di promotori dedicati al dialogo con la clientela target, coordinamento della gestione sui mercati mobiliari con la consulenza su altre forme di allocazione della ricchezza familiare (gli immobili e i preziosi innanzitutto), e gli immancabili nuovi sistemi di efficienza gestionale quali i “consulenti digitali” e i c.d. “robo-advisers” (ancora poco diffusi da noi) tramite i quali si moltiplicano le possibilità di assistenza alla clientela e se ne tagliano i costi.
Ho sentito da un brillante giornalista che oggi lo slogan non è più: “vieni da noi che siamo i più bravi”, bensì: “vieni da noi che non ti portiamo via il patrimonio!” E come dargli torto?
Tutelare il patrimonio familiare non è più un argomento giuridico: arriverà una selezione naturale tra le banche più capitalizzate, le più sicure (non è necessariamente la stessa cosa) ma soprattutto tra le più innovative quanto a modello di business.
E la competizione è globale: sebbene sia piuttosto chiaro che gli stranieri che vengono in Italia per raccogliere denaro gestito, riservano poche attenzioni alla clientela italiana meno abbiente e non conosciuta personalmente, sono molti i connazionali tornati a confidare nelle istituzioni straniere o a portare i loro risparmi oltre confine.
Una volta si sarebbe detto “oltre cortina” ma… ci siamo quasi!

6) BSI PAPERS: UN SEGRETO SINO AD OGGI BEN CUSTODITO

Se non fossero emersi gli scandali del fondo sovrano della Malesia 1mdb capital e dei politici che vi sono dietro forse non sarebbe finita sotto i riflettori della stampa una vicenda che vede protagonista la chiusura forzosa della filiale di Singapore della BSI e che invece risale a molti anni fa, quando il controllo della medesima era strettamente nelle mani delle Assicurazioni Generali e dei potentati che vi sono dietro.
Il puzzle di relazioni e connessioni tra una ventina di banche private e di investimento di tutto il mondo fa emergere oramai ciò che viene considerato dagli addetti ai lavori uno scandalo paragonabile a quello dei Panama Papers.
I politici malesi legati al primo ministro Rajib Razak coinvolti hanno cercato di nascondere le vicende attraverso l’interessata copertura che la PetroSaudi International aveva dato al fondo sovrano, dichiarando in una lettera di patronage la sua proprietà di una società che ha ricevuto denaro dal fondo sovrano  apparentemente per lo sviluppo di progetti energetici, per poi girare buona parte del denaro stesso ad altri soggetti. La copertura è capitolata di fronte alle prove che ad essere coinvolto è invece un banchiere privato cinese, un certo Jho Low, amico di famiglia di un importante politico malese.
Anche un’importante banca d’affari americana (Goldman Sachs) sembra aver collaborato a far sparire denaro dal fondo sovrano malese attraverso l’emissione di bond islamici (sukuk). Il capo nell’area del Bacino orientale pacifico era cresciuto in stretta amicizia legati con esponenti della casta politica dominante in Malesia ed è stato silurato alla fine dello scorso anno.
Ma il nodo principale resta il fatto che, attraverso le pratiche non esattamente ortodosse della Banca della Svizzera Italiana (mancata verifica della liceità dei fondi e trasferimenti a destinatari non verificati  del denaro ricevuto), ciò che sta emergendo è un traffico di tangenti e appropriazioni indebite che percorre l’intera filiera dei trafficanti internazionali di petrolio, a partire dalla Petrobras sino alla ENRC, società mineraria nazionale del Kazakistan, passando per un’altra banca privata svizzera, la Falcon di Abu Dhabi, eccetera…
Generali già dai tempi delle dimissioni volute dall’A.D. Mario Greco aveva deciso di liberarsi della proprietà della BSI, da tempo compromessa agli occhi della vigilanza bancaria Svizzera, dopo che era stata costretta a chiudere la sua filiale di Londra e quando erano emerse le prime investigazioni sulla banca da questa controllata a Singapore dove un suo funzionario: Yeo Jiawei, dimessosi nel 2015 è oggi accusato ufficialmente di aver agito in pratiche di riciclaggio di denaro sporco.
Ma qui viene il bello della vicenda: a chi ha ceduto lo scorso anno Generali la sua partecipazione in BSI divenuta oramai “scomoda” ? Nientemeno che a Andree Esteves, Patron di  BTG Pactual, una banca privata brasiliana, Tycoon paulista arrestato pochi mesi dopo (fine 2015) per uno scandalo di mazzette legate al petrolio.
Oggi BTG Pactual sta chiedendo a Generali un importante indennizzo per ciò che è emerso a proposito della BSI, ma questa è una vicenda quasi secondaria, dal momento che, subito dopo l’arresto di Esteves, BTG decide di vendere in pochi mesi la BSI.
Se la aggiudica un altro finanziere legato al mondo del petrolio, il miliardario greco Spiros Latsis, principale azionista di una banca privata di Zurigo, la EFG International famosa per essere stata la banca privata della famiglia Onassis.
Spiros è il figlio di Giannis Latsis armatore greco che accumulò una enorme ricchezza negli anni ’70 e ’80, è il secondo uomo più ricco del suo paese[1] dopo Philip Niarchos, e 55º uomo più ricco del mondo  (secondo  Forbes  nel 2007) con un patrimonio di 11,4 miliardi[1] di dollari.
Opera attraverso la società di famiglia, la EFG Bank European Financial Group, un vasto conglomerato che possiede diverse attività, soprattutto bancarie. Possiede circa il 40% in EFG Eurobank Ergasias, la filiale greca della sua banca svizzera EFG Group, e più del 30% della Hellenic Petroleum, una delle maggiori compagnie petrolifere dei Balcani. Possiede anche la Paneuropean Oil and Industrial Holdings S.A. e PrivatAir (una compagnia aerea privata) e la Lamda Development (immobiliare).
Da inizio anno il direttore generale della BSI, Stefano Coduri, si è infatti dimesso, mentre il nuovo azionista EFG, banca privata da poco tempo governata dal rispettatissimo banchiere zurighese  Joachim Strähle,  ha appunto adesso ricevuto ordine dalla INMA ( vigilanza elvetica ) di cancellarne anche il nome, incorporando la BSI al suo interno.
Ben interconnesso con la potente lobby bancaria Svizzera come del resto il suo azionista, considerato uno dei banchieri della regina d’Inghilterra, Strähle sta cercando cerca di tenere sotto controllo il putiferio che si è sollevato dopo che è apparso chiaro a tutti che la BSI e il suo azionista di riferimento Generali avevano operato per anni al servizio della lobby mondiale del petrolio.

ARTICOLO 47(DELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA)

“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. 
Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”
Non credo di esagerare se affermo che la lettura del suddetto articolo può generare oggi decisa ilarità, tanto per ciò che riguarda il suo specifico contenuto, quanto per la considerazione generale cui sono pervenuti molti cittadini della Repubblica: essa (e i principi democratici che hanno ispirato la sua Costituzione) esiste oramai solo nella forma.
La sostanza invece è stata assorbita e annientata dalle numerosissime direttive comunitarie e dalle molte leggi-canaglia (esempio: il bail-in che, come dice Crozza per ricordarsi cosa sia esattamente, bisogna venga pronunciato in Inglese si, ma a Genova) che ne recepiscono le istruzioni e che non si chiedono più nemmeno se risultano conformi allo spirito della Costituzione.
Con la legge sul bail-in ai banchieri è stata fornita la possibilità di requisire i denari dei risparmiatori per il salvataggio della banca stessa.  Risparmi che vengono loro depositati in virtù di una legge specifica: la legge bancaria, che limita l’esercizio della professione di banchiere in funzione proprio della tutela del risparmio! Una bella presa in giro, soprattutto  se pensiamo alla sostanziale impunità dei banchieri medesimi.
E come la mettiamo con il fatto che una banca, nel caso delle rate impagate del mutuo casa possa, con l’ultima normativa, arrivare a fungere da ufficiale giudiziario e giudice al tempo stesso?
È evidente che le priorità della “Repubblica” (si fa per dire ovviamente, riferendoci piuttosto a chi la governa di fatto) sono oggi molto diverse da quelle delineate settant’anni fa nell’art.47 della sua Costituzione! Che neanche a farlo apposta cita il diritto del popolo alla proprietà della casa, a quella fondiaria e alla partecipazione al capitale dei complessi industriali!
Per quale motivo il risparmio non viene tutelato, anzi è svalutato attraverso lo svuotamento della base di valore di ogni singola moneta in cui è espresso e, negli ultimi anni, anche reso sostanzialmente improduttivo (con i tassi a zero o sottozero) sui mercati finanziari?
È semplice: esso è lo strumento principale di indipendenza, di autonomia e liberazione dell’individuo. Possiamo tranquillamente affermare che senza di esso la democrazia è una parola teorica. E che se esso non vale più una cicca, non valgono più granché nemmeno i concetti di indipendenza, autonomia e liberazione della persona!
Però l’articolo 47 non è qui citato per finalità politiche, bensì per commentare il livello di degrado cui può giungere la società civile quando la finanza prevale sul buonsenso, attraverso la manipolazione delle sue due leve fondamentali: il risparmio e il debito. Il primo è oggi in balìa delle vicende del secondo.
Il debito complessivo del pianeta terra è infatti assurto a dimensioni senza precedenti nell’epoca in cui stiamo vivendo ed è ciò che ha determinato buona parte degli attuali sconvolgimenti. Senza la crisi di fiducia del 2008 nel valore del debito casa cartolarizzato non avremmo vissuto gli anni terribili appena passati!
E con esso sono cambiati i protagonisti: nel 2011 fu a causa del debito pubblico che Monti fu posto dalla Troika nel ruolo di  commissario straordinario dell’Italia.
È per l’eccesso di debito pubblico nel mondo che i tassi sono stati portati a zero e il dunque il valore del risparmio è stato sterilizzato (e con esso anche i diritti democratici).
È a causa dell’esplosione del debito privato che le aziende vengono fagocitate da altre aziende e poi ancora, in un vortice di consolidamenti industriali in giro per il mondo che porta dritti dritti ad una situazione da “grande fratello” orwelliano, in cui pochi grandi capitani governano l’industria mondiale.
È dietro a chi amministra il debito (banchieri e burocrati di ogni sorta) che si annidano oggi i maggiori poteri, per inciso oramai superiori a quelli politici, religiosi, militari e governativi.
Ho sentito che l’ultimo, decisivo passaggio, sarà quello di tornare all’emissione governativa di titoli irredimibili, cioè da non rimborsare, che completerà il “cappottino” nel quale viene infilato il risparmiatore, impedendogli di avere indietro quanto investito. A finire di portargli via il malloppo ci penseranno poi le norme fiscali sulla successione e le future svalutazioni ulteriori della moneta! C’è chi lo chiama “Equity” di Stato, cioè capitale di rischio. Ma se non rende più nulla nè dà diritto al governo “aziendale”, non è partecipazione popolare al capitale: è usurpazione, dal momento che se ne vedono solo gli svantaggi!
La verità è che non solo non vedremo mai i tagli alla spesa pubblica, agli aerei presidenziali e ai cacciabombardieri, non solo non troveremo nessun Cottarelli davvero all’opera, ma addirittura nessuno Stato al mondo pensa davvero a rimborsare il debito che ha contratto con i suoi risparmiatori, anzi nessuno Stato al mondo sa come fare per evitare che esso continui a crescere all’infinito, date le attuali strutture di governo, di redistribuzione del reddito e di gestione del consenso popolare. Ma non solo in Italia. Ovunque.
Perché -ricordiamolo- chi ci governa è da tempo che non è più in Italia, è ovunque. E si nasconde sempre meglio.

Stefano L. di Tommaso