Il nuovo bazooka di Draghi

SOMMARIO:

  1. IL NUOVO BAZOOKA DELLA BCE PROVOCA L’APPLAUSO
  2. “LIFE IS NOW !” (OVVERO LA DIVERGENZA DEI MERCATI)
  3. FENOMENOLOGIA DI UN PARRUCCONE
  4. NON E’ LA CINA CHE FRENA I MERCATI FINANZIARI
  5. L’OCSE RIVEDE AL RIBASSO LE STIME DI CRESCITA MONDIALE 
  6. E L’ITALIA CHE FA?  LE RIFORME, IL PIL E IL RATING ITALIANI

1. IL NUOVO BAZOOKA DELLA BCE PROVOCA L’APPLAUSO

Dopo molta attesa e molto riserbo finalmente Draghi ha parlato. Le buone notizie arrivate dalla BCE non sono da poco. Le borse hanno reagito positivamente nel complesso. D’altronde nessun operatore di mercato può ignorare quello che farà una delle due più potenti banche centrali al mondo.

L’economia mondiale sta rallentando e quella europea ancora di più: Draghi ne ha preso atto, segnalando quale sua priorità la liquidità disponibile e premiando le banche che privilegiano l’erogazione di credito al sistema economico (la notizia è che comprerà anche “corporate bonds”).  Siamo dunque quasi nell’ipotesi “Helicopter Money”.

Da questo momento in poi tuttavia i risparmiatori, gli investitori istituzionali e i gestori dei fondi e degli istituti finanziari si chiedono cosa succederà dopo: quali effetti di stimolo tali manovre potranno effettivamente avere sull’economia reale.

E qui viene il bello: al di là dell’euforia iniziale del momento borsistico possiamo davvero affermare che le borse sono effettivamente uscite dalla spirale di ribasso che le ha colpite da un paio di mesi a questa parte?

E possiamo inoltre affermare che l’economia europea potrà adesso trovare nuovo impulso in seguito alle manovre adottate?

Proviamo a rispondere brevemente confermando due tesi già proposte in passato :

A) Che ci attendiamo una accresciuta volatilità dei corsi,

B) Che ci attendiamo una grande stabilizzazione dei mercati sottostante alle montagne russe procurate dall’enorme liquidità in circolazione.

Come si conciliano le due cose?

È più facile commentare partendo dalla seconda: oggi gli investimenti in strumenti finanziari diversi dai titoli azionari tendono tutti a procurare rendimenti negativi o nulli. Dunque i dividendi che saranno staccati di qui a breve dai titoli azionari sono divenuti preziosi e danno maggior valore ai titoli azionari, quasi l’unica “Asset Class” in grado di assicurare un rendimento periodico ai “cassettisti”, cioè a chi investe con lo scopro di ottenere un reddito: ai risparmiatori, ai fondi pensione, alle compagnie assicurative, eccetera.

Il fatto che i titoli azionari possono pagare un reddito (seppur senza garanzie che lo faranno ancora nel futuro) a differenza degli altri titoli, aiuta a stabilizzare un grande interesse dei soggetti istituzionali nei confronti dell’investimento borsistico.

Più difficile è spiegare perché gli stimoli monetari che sono in arrivo (e che se avranno successo nelle prossime settimane saranno probabilmente imitati dai governatori di altre banche centrali) non potranno che incrementare la volatilità dei mercati, borsistici e valutari.

Le grandi disponibilità di moneta sono soprattutto appannaggio della speculazione operata dai maggiori operatori del mercato, i quali hanno un approccio opportunistico all’acquisto di titoli azionari (provocando in tal modo alti e bassi borsistici a seconda della convenienza immediata). Essi hanno anche forte capacità di influenzare i mercati. E non solo: le ulteriori svalutazioni competitive che vedremo nei prossimi mesi faranno la loro parte nel condizionare i flussi di capitale cross-border e nell’alimentare l’altalena.

Il tutto non renderà la vita semplice al risparmiatore della strada. Ma i mercati applaudono. E gli operatori economici sperano. Alla fine della storia non è poi questo quel che conta?

2. “LIFE IS NOW !” (OVVERO LA DIVERGENZA DEI MERCATI)

Quando Larry Summers parla di seri rischi di stagnazione secolare si riferisce al fatto che, nonostante molti anni di Quantitative Easing, il “consensus” degli analisti di mercato prevede un’inflazione all’1-1,2% in media negli U.S.A. per i prossimi 10 anni, mentre la vede più o meno allo zero nello stesso decennio per il Giappone e per l’Europa (che però non ha sconfitto la disoccupazione). Per i Paesi Emergenti lo scenario deflattivo dipinto dalla maggioranza degli analisti finanziari è ancora più grigio perché non solo i prezzi delle materie prime (espressi in $) sono scesi ai livelli più bassi degli ultimi 30anni ma in più il Dollaro (valuta contro la quale esse sono scambiate e con cui gli stessi Paesi Emergenti hanno contratto forti debiti) non si rivalutava così bruscamente dai tempi della guerra del golfo.

Dunque il preoccupante scenario condiviso dagli analisti di tutto il mondo prevede un prossimo decennio quasi piatto per gli U.S.A., riflessivo per U.E. e Giappone, molto negativo per quasi tutti gli altri. Uno scenario del quale le autorità monetarie ed economiche globali non solo non hanno colto i pericoli e l’urgenza di contrasto, ma sul quale addirittura esse non concordano.

Le conclusioni dell’ultimo summit dei G20 non sembrano indicare una forte volontà delle banche centrali di ricostruire la loro credibilità e autorevolezza nel guidare i mercati e attivarsi nel contrastare la possibilità che lo scenario sopra indicato si trasformi in quello di una nuova recessione globale, arrivando a dare anzi l’impressione che oramai essi possano fare poco altro per stimolare la crescita, a causa della relativa inefficacia delle politiche monetarie in presenza di una situazione come quella attuale che J.M.Keynes descriveva nel 1936 con la denominazione di: “trappola della liquidità”.

La recente scelta della banca centrale giapponese di proseguire sulla strada di tassi negativi (nonostante che dopo anni di stimoli monetari quell’economia non dia segnali di ripresa) indica infatti che i banchieri centrali seguono teorie economiche sbagliate e dispongono di strumenti di osservazione divergenti da quelli di tutti gli altri analisti finanziari.

È questo il motivo per cui c’è stata grande attesa nei confronti della “rockstar dei banchieri centrali”, Mario Draghi, il quale ha annunciato interventi “non convenzionali” per stimolare l’economia europea e dunque mostrare finalmente la volontà della B.C.E. di combattere quelle grigie prospettive.

Però ci sono tre possibili interpretazioni di tali interventi , che vorrei elencare in ordine crescente di probabilità:

– La prima è quello che la manovra di Draghi risulti deludente per tutti, che risulti a conti fatti proseguire solamente sulla strada di tassi negativi come ha fatto Kuroda, il suo omologo giapponese, senza che gli operatori del mercato valutino tale manovra davvero capace di modificare i corsi azionari. Ovviamente nei primi giorni dopo l’annuncio le borse sono salite, ma la vera partita si gioca a partire dalla settimana successiva;

– La seconda è che egli raccolga effettivamente grandi consensi risultando la sua finalmente una coraggiosa politica di stimolo alla domanda aggregata, composta di misure ovvie e altre meno convenzionali che possano avere quantomeno l’effetto di riaccendere le aspettative generali di nuova crescita economica. A prescindere dalla effettiva concretezza di tali aspettative, questa ipotesi restituirebbe credibilità alla categoria dei banchieri centrali e costringerebbe i governanti europei a collaborare di più con la Banca Centrale sotto il profilo del taglio delle spese e degli stimoli fiscali, riaccendendo la fiducia degli investitori;

– La terza possibile interpretazione che i mercati potranno dare dopo i primi giorni è una via di mezzo, con la convivenza dell’inevitabile entusiasmo generato a causa della nuova liquidità che sarà immessa sul mercato, ma anche con la relativa cautela da parte degli operatori più attenti nel considerare davvero quelli di Draghi dei forti stimoli all’economia. Questo esito, che è anche il più probabile, farebbe brindare ancora una volta i banchieri e gli operatori di borsa alla nuova liquidità in arrivo, ma confermerebbe contemporaneamente le grigie attese degli analisti circa l’inevitabilità di un prossimo decennio relativamente stagnante, alimentando la divergenza tra le aspettative di breve e quelle di lungo periodo e, così facendo, alimentando ancora una volta la volatilità tendenziale dei mercati.

Dietro l’angolo infatti per i mercati finanziari restano infiniti pericoli di tenuta, tra i quali: l’esagerato ammontare dei contratti derivati, l’acuirsi della nuova guerra fredda, un altro crollo dello Yuan cinese, un’accresciuta sfiducia nei confronti dei titoli a reddito fisso (buona parte dei quali sono emessi da governi nazionali che si sa bene che non saranno mai in grado di ripagare il loro debito), una progressiva attesa di riduzione dei profitti aziendali e, soprattutto, il possibile sgonfiamento della bolla speculativa sui nuovi titoli “high-tech”.

A guardare i fondamentali non si vede una sola buona ragione per la quale le borse dovrebbero continuare a correre, ma la liquidità immessa sui mercati le condiziona e le nutre, rimandando a tempi futuri l’eventuale presa d’atto della pochezza degli argomenti a favore dell’euforia.

Dunque, come diceva quella geniale recente pubblicità dei telefonini: “Life is Now”! Stigmatizzando meglio di qualunque altra definizione l’approccio effimero degli anni che stiamo vivendo!

3. FENOMENOLOGIA DI UN PARRUCCONE

Stavolta sembrerebbe che Donald Trump ce la possa fare a ottenere la nomina repubblicana alla corsa alla Casa Bianca.

Se poi mi domando “ce la farà anche contro la Clinton?” la mia risposta è: vedremo quanto forti sono i poteri dietro l’aggressiva signora però direi di sì: ce la può fare.

L’americano medio non è così ingenuo da dare troppo credito ad un fantasma in gonnella, una spietata seguace del peggior Henry Kissinger (magari quello che ricordiamo nella parodia del “dottor Stranamore”), una fredda calcolatrice insomma che non ha avuto voglia nè interesse a mozzare l’arnese di suo marito ai tempi dello scandalo “Monica”. Insomma la Clinton é molto apprezzata, ma non piace granchè.

Stavolta l’uomo della strada gliela proprio vuole far vedere, ai signori di Wall Street e, per farlo, potrebbe anche votare il parruccone.

Trump è certamente un leader naturale, sanguigno e diretto. Parla alla pancia degli americani così come faceva con gli italiani il berlusca di venti anni addietro. Dice le cose che tutti pensano e che pochi hanno il coraggio di declamare ed è decisamente credibile quando afferma di voler cambiare tutto.
Questa è forse la sua carta vincente. Anche perché non ha problemi nè ansie a spararne di ogni ai quattro venti e a prendersi in faccia le torte di chi non la pensa come lui.

Dunque in caso di nomina, per chi volete che voteranno i giovanissimi? Per chi gli agricoltori, i piccoli commercianti, i pensionati?

Per la lady di ghiaccio sicuramente invece voterà una certa intellighenzia, Wall Street (ma non tutta: è divisa), molti leader religiosi e molti colletti bianchi. Ma controvoglia. Hillary non suscita gli stessi entusiasmi.

Mi attendo peraltro una competizione serrata fino all’ultimo voto. Che potrebbe anche favorire lei, il caschetto dorato. Anche perché di certezze sulla correttezza dei sistemi di calcolo dei voti espressi nell’urna per definizione non possono essercene e i poteri forti potrebbero facilmente detenerne le chiavi.

Magari basta aggiustare solo qualche numero quando si è giunti allo spareggio… Ma moralmente (si fa per dire, dato il coriaceo personaggio) lasciatemele dire: ha già vinto Donnie.

L’uomo della strada che si è risollevato dalla calvizia, dalla peggior crisi immobiliare di tutti i tempi, da più di un fallimento, da un penosissimo divorzio con Ivana e dall’anatema a lui lanciato da chi comanda davvero.

Trump ha una voglia infinita di fargliela vedere a tutti coloro che lo hanno ostacolato nella corsa alla presidenza a causa di una linguaccia un po’ troppo fuori controllo e anche in questo egli stavolta rassomiglia all’americano medio, che non ne può più di sentirsi sempre dire che tutto va bene e che se il resto del mondo odia l’America è perché la stampa è manovrata e i media sono allineati a politici incivili e corrotti. Il dubbio invece corre…

Per assurdo tuttavia la sfida più difficile che Trump deve affrontare è probabilmente quella all’interno del suo partito, di cui egli è tutt’altro che il tipico epigono, Trump è l’opposto del rampollo bene educato che assicuri continuità al potere delle grandi famiglie d’America che discendono dai padri pellegrini della Mayflower.

Anzi. Fa andare in bestia tutti quei lobbysti che pensavano di tirare avanti in eterno a fare affari con l’ordine (precedentemente) costituito.

Ma tant’è: sono lussi e oneri del suffragio universale.! L’avete voluto voi che avete creato il sogno americano, il sistema attuale, no?

 

4. NON E’ LA CINA CHE FRENA I MERCATI FINANZIARI

A sentire la maggior parte dei commenti l’attuale situazione di stallo sarebbe da attribuire prevalentemente alla discesa dei prezzi delle materie prime e in particolare del petrolio, a loro volta esplose e causate dal rallentamento della crescita economica che la Cina ha sperimentato a partire dall’estate del 2015.

Ho di recente letto una lettera finanziaria “Absolute Return” che afferma che non c’è nulla di più errato.

Concordo, ma vediamo il perché:

• La Cina è senza dubbio una delle principali economie mondiali, ma il suo P.I.L. non supera il 63% di quello degli U.S.A. dunque un rallentamento della sua crescita non è in grado di mettere in ginocchio il prezzo delle materie prime di tutto il mondo; (qui sotto: il P.I.L. dei paesi del G20)

• Non solo: l’export cinese è passato dal 34% al 23% del P.I.L . in soli dieci anni: oggi solo il 23% della minor crescita del P.I.L . cinese incide sulla minor crescita della produzione esportata, mentre nello stesso periodo gli investimenti cinesi sono invece aumentati dal 42% al 46% di un prodotto interno lordo cresciuto al ritmo di quasi il 10% medio annuo (cioè più che raddoppiato);

• Bisogna poi considerare che tra le principali cause del minor export cinese c’è la minor domanda mondiale, che non dipende affatto dalla Cina;

• Tutti sanno che la maggior quota di variazione del prezzo delle materie prime è dovuta al petrolio la cui discesa precipitosa è dipesa quasi esclusivamente dall’eccesso di offerta, che si è riversata sul mercato dopo che la speculazione ha gonfiato all’inverosimile gli stock di oro nero nella speranza di un rimbalzo. Tuttavia il P.I.L. 2015 della Cina non arriva al al 15,5% di quello globale ($73.507 bln) , dunque non è in grado di modificare nemmeno i prezzi di buona parte delle altre materie prime, in calo dal 2011.

In realtà buona parte dei problemi che i mercati finanziari di tutto il mondo dipendono da tre fattori fortemente correlati tra di loro:

• Un Dollaro sempre più forte
• I tassi di interesse sempre più bassi
• Un debito pubblico e privato costantemente in crescita e giunto a livelli
insostenibili in particolare per i Paesi Emergenti.

Bisogna poi ricordare che il principale fattore di contrasto della recessione indotta dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009 sono state le facilitazioni monetarie delle banche centrali di tutto il mondo, che hanno inoltre innescato una serie di svalutazioni competitive, al termine delle quali il Dollaro americano è uscito vincitore e il costo delle materie prime è crollato ai minimi.
Il Qantitative Easing prima americano e poi europeo ha permesso di allontanare la possibilità di default dei principali debiti pubblici del mondo, ma ha introdotto una crescente volatilità andando di fatto a finanziare la speculazione.

Lo spettro di una recessione globale simile a quella del 1929 non è mai stato infatti completamente esorcizzato e, dopo che il rischio di deflazione globale si è manifestato più chiaramente, le Banche Centrali stanno lavorando ad ipotesi estreme come quelle denominate “Helicopter Money” che, insieme alle manovre di Quantitative Easing sin qui messe in atto, dovrebbero fornire sollievo ai mercati finanziari e potrebbero permettere di non interrompere quel lungo periodo di crescita economica globale che ha permesso di vincere buona parte della fame nel mondo.

Ma il principale motivo per il quale le manovre monetarie non hanno sino ad oggi prodotto inflazione (e anzi hanno lasciato che la deflazione si allarghi nel mondo) è senza dubbio l’eccedenza di debito. Come infatti aveva sapientemente predetto nel 1992 Hyman Minsky, un forte e improvviso collasso nel valore degli investimenti può arrivare quando, al termine di un lungo periodo di prosperità economica, quei valori sono sostenuti soltanto dalla speculazione basata su un eccesso di indebitamento. Dopo la pubblicazione della sua famosissima “Financial Instability Hypothesis” fu infatti coniato il termine “Minsky Moment” per indicare il punto di “non ritorno” dovuto all’eccesso di indebitamento.

Certo quello del debito è uno dei principali problemi che hanno determinato il calo della crescita cinese (giunta oggi a meno del 5% annuo, dicono i bene informati). Il sistema bancario ha infatti finanziato più o meno a qualsiasi costo gli investimenti cinesi, in molti casi in assenza di una adeguata capitalizzazione. Ma gli eccessi di debito sono innanzitutto quelli americani ed europei. E quello della Cina arriva ad appena il 40% del P.I.L.

Domani i mercati finanziari riapriranno con grandi aspettative di crescita proprio a causa del diffondersi dell’ipotesi dell’Helicopter money che i banchieri centrali stanno alimentando per fornire nuova fiducia alla crescita economica, ma l’entusiasmo sembra destinato ad una breve durata.

L’economia mondiale però continua a soffrire, non soltanto di eccesso di debito, ma soprattutto della limitata capacità degli Stati di finanziare con adeguato capitale e ampliare gli investimenti infrastrutturali che potrebbero aiutare i Paesi più deboli a limitare il loro “digital divide” e a favorire l’integrazione internazionale delle loro piccole imprese.

E sintantoché non vedremo grandi dispiegamenti di forze in quella direzione difficilmente potremo assistere ad un’importante crescita economica globale.

5. L’OCSE RIVEDE AL RIBASSO LE STIME DI CRESCITA MONDIALE 

L’economia globale frena, l’Europa è divenuta più vulnerabile e l’Italia cresce davvero poco. È una previsione all’insegna della cautela quella pubblicata pochi giorni fa dall’ Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che riunisce le economie più “ricche” del pianeta.
L’Ocse ha rivisto al ribasso le stime per il Pil italiano per il 2016, prevedendo una crescita all’1%, 0,4 punti percentuali in meno rispetto all’outlook di novembre.

Confermata invece la stima di +1,4% per il 2017. Il forte taglio alle stime sull’Italia arriva in un contesto in peggioramento per l’intera economia mondiale.
Per il 2016 la previsione è di un Pil mondiale in progresso del 3%, come nel 2015, contro il +3,3% stimato lo scorso novembre e per il 2017 il pronostico si ferma a +3,3%, contro il +3,6% precedente.
Secondo il Fondo monetario internazionale, una crescita del Pil mondiale al di sotto del 3% equivale a una recessione, dato che non supera la crescita demografica.

La crescita sta rallentando in molte economie emergenti mentre quelle avanzate registrano «una ripresa molto modesta» e il calo dei prezzi delle materie prime deprime i Paesi esportatori. Commercio e investimenti restano deboli. La fiacca domanda e l’eccedenza di offerta portano all’ingiù i prezzi di qualsiasi cosa e a una crescita inadeguata salari e occupazione.

In questo contesto, l’Ocse sottolinea la necessità di «una risposta politica più forte a sostegno della domanda. Le banche centrali non possono agire da sole. Bisogna utilizzare la leva fiscale e incrementare gli investimenti strutturali.
Le stime di crescita dell’Eurozona scendono all’ 1,4%- 1,7% ponendo un forte freno alla crescita globale e lasciando l’Europa vulnerabile agli shock globali.

Il rischio è che la zona euro resti intrappolata in bassa crescita e bassa inflazione, con una fiducia sul medio termine troppo debole per generare i forti investimenti e le innovazioni che rafforzerebbero la produttività e la crescita dell’occupazione.

6. E L’ITALIA CHE FA? LE RIFORME, IL PIL E IL RATING ITALIANI  

Dopo tanto parlare di Europa, Banca Centrale compresa, Cina e America, quasi nessuno più si chiede dove sta andando il ns Paese.

Sono personalmente disgustato dal coro di critiche sterili sul Primo Ministro e dagli attacchi personali stile Berlusconi che gli vengono rivolti. Renzi resta fino a prova contraria un politico tipico italiano (e non ne conosco di migliori) e si barcamena come può tra le necessarie dosi terapeutiche di populismo, cerchiobottismo e realismo europeo.

Diciamo che le declamate riforme istituzionali sono state tuttavia un palliativo, che a molti annunci altisonanti non sono seguiti i fatti. Ma diamogli atto di essere stato tra i più coraggiosi che la storia repubblicana ricordi.

Ma la cosa meno piacevole sono i numeri, che tradiscono la vera trama del dramma che si svolge sotto i nostri nasi: un 2015 cresciuto con un magro 0.6%, un inizio di 2016 con crescita dubbia, un gettito fiscale 2015 cresciuto del 4% (come dire che le tasse sono salite di almeno il 3.4%), nessun taglio visibile alla spesa pubblica che anzi trasborda la crescita impetuosa del gettito, incrementando deficit e debito pubblico, in nome di quegli 80 euri e di quella tutela delle maxi-pensioni, del mantenimento dei costi delle province (solo trasformate) delle regioni, del senato, dei vitalizi e sinanco del salvataggio delle quattro banche commissariate…

Difficile fare peggio. Anzi no: dal momento che abbiamo un altro dramma in corso: la crisi di credibilità della banche italiane, che tradotta in Politichese spiccio si legge “braccio di ferro con l’Europa continentale”. Peggiore forse di quello che Berlusconi aveva intavolato. Con l’unica differenza che a lui è venuto a mancare l’appoggio atlantico, mentre Renzi ancora ne gode. Si ma per quanto?

Renzi tace. O meglio parla solo con gli slogan. Non si capisce se è perché non ha molto da dire o perché glielo hanno chiesto dall’alto.

L’Italia resta però sotto schiaffo, e la cosa non può non nuocere. Perché il debito pubblico incombe. E la speculazione non vede l’ora di scommettere contro l’ombrello di Draghi.

Difficile essere ottimisti in queste ambasce. Meglio tenere gli occhi ben aperti!

Eppure dei segnali positivi ci sono: Il Pil ha ripreso a crescere nel 2015, e se il 2016 terrà fede alle previsioni, avremo un altro anno con il segno “più”dal 2008 a questa parte. La fiducia delle famiglie, al febbraio 2014, segnava, nell’indice Istat, 94,8, e oggi è a 116,8; la fiducia delle imprese (manifatturiere, costruzioni e servizi) è passata da 95,8 a 103,1. Il tasso di disoccupazione è sceso dal 12,8% della forza-lavoro all’11,5%; quello giovanile dal 42,9 al 39,3 per cento. L’occupazione è salita di 476mila unità.Le buone notizie non riguardano le vendite al dettaglio: ferme, sia in valore che in volume, ma è colpa dell’Istat che non vi conteggia le auto né i servizi, bensì solo i negozi con sede fissa. Dunque non viene catturato il ricorso crescente alle vendite online.

L’umore dei consumatori, si può dedurre dall’acquisto crescente dei beni durevoli. Ebbene, dallo scorso giugno a oggi il tasso annuo di aumento delle vendite di auto si è attestato sulle due cifre, e a febbraio siamo addirittura al + 27,3 per cento. Questo vale anche per il credito al consumo, che riguarda tutte le vendite a rate in genere, oltre ai prestiti personali. Anche qui dalla metà dell’anno scorso l’aumento sull’anno si è fatto a due cifre e il dato di gennaio (fonte Bce) dà un +15,4%.

Infine si notano segni di risveglio nelle compravendite immobiliari e nell’erogazione dei mutui, salite dello 0,5%, nonostante i prezzi delle case siano scesi rispetto a un anno fa. Il ricorso al credito è anche aiutato dal fatto che i tassi sono diminuiti.

Infine qualche parola sul Rating dell’Italia: periodicamente infatti le turbolenze sui mercati finanziari o le polemiche sulla solidità delle nostre banche riaccendono il dibattito sul debito pubblico dell’Italia.

Un recente Rapporto della Commissione Europea ha definito il debito pubblico italiano a “basso rischio” nel breve termine (2016-17), ad “alto rischio” nel medio termine (2017-2026), peraltro assieme ai debiti di altri 10 Paesi tra cui Francia, Gran Bretagna, Spagna e anche Finlandia, e il debito meno rischioso in assoluto nel lungo termine (sull’orizzonte 2030). Il debito italiano è definito ad “alto rischio” nel medio termine esclusivamente perché incapace di convergere al ritmo voluto dalle attuali regole europee verso l’obiettivo del 60% sul Pil nel 2030. Un obiettivo che nessuna nazione al di fuori dell’area Euro oggi si sognerebbe mai di porsi. Mentre nello stesso scenario di base prefigurato dalla Commissione Ue, l’Italia, pur essendo considerata ad “alto rischio” nel medio termine, sarà comunque il Paese che ridurrà di più il proprio debito tra il 2017 e il 2026 abbassandolo di 19,9 punti dal 130% al 110,1%.

Altrettanto importante che ridurre il rapporto debito/Pil è poi spiegare con argomenti solidi che l’Italia è un Paese che non merita il rating BBB- che le assegna oggi l’agenzia di rating S&P: un livello che ci penalizza praticamente solo le nostre imprese sui mercati finanziari perché invece per il debito pubblico c’è l’ “ombrello” BCE. L’Italia è considerata più a rischio della Romania e poco più sicura del Portogallo, pur essendo la terza economia dell’Eurozona, con la seconda miglior bilancia commerciale manifatturiera con l’estero e avendo mantenuto ininterrottamente (unico caso al mondo) un avanzo statale primario positivo dal 1992 ad oggi con la sola breve e insignificante parentesi del 2009?

Il nostro Rating è BBB- essenzialmente perché ha il rapporto debito/Pil alto (oggi al 132,8%, ma gli Stati Uniti non sono forse anch’essi al 105,6%?) e perché cresce poco.

Ma nessuno ricorda che l’Italia ha un fortissimo livello di industrializzazione e una delle maggiori  ricchezze  private al mondo, uno dei più bassi debiti delle famiglie in rapporto al Pil e una posizione finanziaria netta sull’estero molto limitata. Il debito pubblico detenuto da non residenti nel 2014 era infatti pari a solo il 44,4% del Pil, valore più o meno uguale a quello della Germania (42,3%).

Il nostro Paese negli ultimi 10 anni è stato dopo la Danimarca quello che ha generato il più alto avanzo statale primario cumulato prima del pagamento degli interessi, pari al 14,1% del Pil.

Tra i Paesi più “virtuosi” nella gestione delle finanze pubbliche: assieme all’Italia e alla Danimarca ci sono la Germania, il Lussemburgo e la Svezia, tutti con più di 10 punti cumulati di surplus primario in percentuale del Pil negli ultimi 10 anni.

Eppure il rating dell’Italia è solo BBB- e Fitch e Moody’s, più generose di S&P, ci elevano al livello della Spagna i cui conti pubblici sono fuori controllo da anni e le cui banche sono state salvate anche col nostro contributo.

Tenuto conto di quanto sopra se il nostro debito pubblico iniziasse a scendere l’Italia potrebbe aspirare a un Rating decisamente migliore, con il quale le nostre aziende pagherebbero meno interessi, gli investitori scommetterebbero di più sulle nostre imprese e sulle nostre banche, difendendo meglio i nostri risparmi generando le condizioni per un potenziale di crescita.

Insomma basterebbe davvero poco…

Stefano L. di Tommaso