Reflazione?

INDICE:

  1. I mercati: ad Ovest molto di nuovo
  2. I crocevia economici del 2017
  3. Apocalisse bancaria
  4. Piccole banche al bivio
  5. E’ in arrivo la de-globalizzazione
  6. La Sharing Economy celebra il successo a Wall Street
  7. Amazon One, icona del gigantismo finanziario della New Economy
  8. La crisi delle banche italiane non si risolve per decreto

1) MERCATI: AD OVEST MOLTO DI NUOVO

Uno scoppiettante inizio del 2017 anche quest’anno lascia in bocca a quasi tutti gli analisti finanziari parole di ottimismo oltre che la sensazione di una relativa stabilità dei mercati finanziari e, di conseguenza, la possibilità che ripartano gli investimenti produttivi, nell’innovazione e nelle infrastrutture.

L’attesa di una leggera inflazione dei prezzi al consumo è il sintomo della nuova positività ritrovata dagli operatori economici dopo la vittoria di Trump alla Casa Bianca.

Ovviamente le trappole all’orizzonte della crescita economica non mancano e nell’articolo che segue vengono enumerati numerosi crocevia strategici che potrebbero inficiare un nuovo ciclo positivo, ivi compresa l’eventuale ricaduta nella deflazione, laddove il focolaio di ripartenza dell’economia americana non dovesse propagarsi al resto del mondo. Ma ci sono buoni motivi per restare almeno neutrali, se non addirittura ottimisti.

3Non è solo il Presidente Eletto della nazione egemone a promettere sviluppo e prosperità, bensì anche il “consensus” di buona parte degli economisti attorno ad un ritrovato quadro generale di compostezza nello sviluppo come nelle relazioni internazionali, anche se in molti casi ciò è dovuto più all’attendismo che non a un effettivo rilassamento.

L’Europa del resto, come entità geopolitica non è autonoma e non potrebbe fare altro che attendere, dopo aver subito una serie di bordate “populiste” (come sono state erroneamente classificate dalla vecchia classe politica) quali la Brexit, il cambio della guardia nel referente americano e la bocciatura dei referendum costituzionali italiani. E come se non bastasse si avvicinano importanti appuntamenti elettorali nel cuore del vecchio continente (in Francia e Germania innanzitutto) molto delicati dal punto di vista della tenuta dell’Unione.

Le borse internazionali, pur ai massimi di sempre, hanno sino ad oggi avuto buoni motivi per restare su livelli elevati di valutazione implicita delle aziende quotate : l’anno che si apre sembra promettere più di quanto possa minacciare il contesto industriale e commerciale, a partire da Wall Street, il cui principale indice azionario si è decisamente risollevato ed è giunto alla soglia storica dei 20.000 punti nel corso dell’ultimo mese e mezzo ma è salito in 12 mesi parallelamente all’indice della produzione industriale.

Proprio quel traguardo storico tuttavia lascia qualche perplessità circa la possibilità he la giostra possa procedere molto oltre i livelli già toccati, riportando la maggior parte degli analisti su livelli di neutralità nelle previsioni, nonostante si prospettino un prosieguo della corsa del Dollaro Americano e un incremento generale dei tassi di interesse.

Le prospettive di relativa calma nelle tensioni geopolitiche e nei prezzi delle principali commodities, l’attesa di politiche fiscali di stimolo all’economia e di nuovi importanti investimenti infrastrutturali infatti sembrano ai più un argomento sufficiente a controbilanciare le conseguenze negative del superdollaro e del rialzo dei tassi.

Anche il Giappone sta vivendo una fase positiva della propria economia e sembra orientato a nuovi traguardi con una leadership politica che oggi non viene più messa in discussione e con un tessuto industriale di prim’ordine dal punto di vista del valore aggiunto e della capacità di innovare e rinnovarsi, che si associa alla prospettiva di ulteriori svalutazioni competitive dello Yen.

A livello di macroaree geografiche possiamo solo notare che le Borse europee, Milano compresa, per i motivi suddetti quasi non hanno invece beneficiato del rinnovato entusiasmo nippo-americano e sono dunque le prime candidate a proseguire il rally che altrove potrebbe essere giunto al capolinea, mentre le altre nazioni che stanno intorno al “Pacific Rim” sembrano molto meno interessanti per gli investitori a causa della relativa instabilità del sistema finanziario cinese, dominante in quell’area.

Nessuno peraltro oggi si aspetta particolari sussulti provenienti dal celeste impero e pertanto giocano a sfavore quasi solo le prospettive di ulteriori, continuative svalutazioni del Renminbi, dovute più che altro all’uscita netta di capitali che vi si associa.

La relativa calma generale si assapora anche osservando le prospettive dei principali Paesi Emergenti, sui quali gli investitori, per gli stessi motivi visti per la Cina, non sono particolarmente ottimisti, ma che indubbiamente hanno ritrovato una relativa stabilità con il recupero dei prezzi (in Dollari) delle maggiori materie prime, oro e preziosi esclusi ovviamente.

Non sembrano così malvagie nemmeno le prospettive di uno dei Paesi che rappresentano il maggior rischio sistemico tra i più progrediti -il nostro- a causa del combinato disposto di un debito pubblico fuori controllo e di un sistema bancario in apparente avaria.

Intendiamoci: le banche nostrane hanno serissimi problemi di capitalizzazione e di controllo delle elevatissime sofferenze sui crediti, ma non sono le uniche (in un’Europa che ha voluto darsi al riguardo una normativa fatta di due pesi e due misure) e non potrebbero essere lasciate fallire senza quelle inimmaginabili conseguenze che oggi gli analisti non ritengono una vera minaccia.

Ulteriore motivo di ottimismo è dato dall’aumentata non-correlazione degli andamenti borsistici dei diversi settori economici, cosa che lascia supporre che i grandi investitori in borsa stiano facendo ruotare i loro portafogli e non stiano più soltanto scommettendo sul mercato. Nel caso della borsa italiana questo può significare un minor rischio per i titoli diversi da quelli bancari.

I mercati scontano la possibilità che l’Italia, in un modo o nell’altro, superi l’attuale baratro del sistema finanziario interno e il suo Prodotto Interno Lordo, nonostante tutto, cresca anche quest’anno di un altro risicatissimo punto percentuale. Se poi per qualche meravigliosa congiuntura favorevole il Governo Gentiloni dovesse riuscire a proseguire nel percorso delle riforme, allora le prospettive del Bel Paese diverrebbero le migliori d’Europa!

Lasciamo dunque che questa speranza accarezzi i pensieri degli operatori economici nostrani, per lungo tempo sino ad oggi fin troppo tartassati e vituperati!

 

2) I CROCEVIA ECONOMICI DEL 2017

Come si legge un po’ ovunque, ci sono buone speranze che nel 2017 il mondo possa non solo non ridurre la propria crescita economica bensì addirittura accelerarla. A fare da traino della crescita un po’ tutte le aree del globo: dall’America che crede anche troppo al miracolo-Trump fino alle economie emergenti che sperano un po’ troppo nel non dover fare i conti con il super-Dollaro, passando per le tigri asiatiche che anche quest’anno porteranno a casa un risultato da record, fino alla vecchia Europa che, quasi dappertutto, registrerà una modesta crescita…

Quel “quasi” siamo noi italiani e pochi altri, che a livello statistico dovremmo cavarcela “quasi” altrettanto (a causa di una live ripresa degli investimenti fissi), ma che a livello di potere d’acquisto siamo già certi che non vedremo un bel niente, soprattutto se si tiene conto che anche in Italia la media del pollo del dato nazionale con le crescenti disparità tra nord e sud serve a poco per capire cosa succede davvero nello Stivale.

 

LA CRESCITA ECONOMICA

Il grande Martin Wolf in un recente intervento sul Financial Times ci ricorda che -a livello planetario- essa è determinata dall’innovazione tecnologica oppure dall’adozione nei Paesi emergenti di modelli di business che hanno avuto successo in quelli più sviluppati (il c.d. “catch up”).

Mentre non possiamo proprio lamentarci del livello crescente di innovazione tecnologica di questi anni, non è chiaro se possa determinare effettivamente un incremento del reddito disponibile per la popolazione, tenendo conto del fatto che determina crescita ma anche disoccupazione e che sono alcuni decenni che le statistiche dei Paesi OCSE non registrano più gli incrementi di produttività del lavoro che si vedevano in passato.

Alla montagna di disoccupazione e prepensionamento forzoso che viene generato dall’innovazione aveva sino a ieri provveduto la previdenza pubblica più o meno ovunque nel mondo. Era il prezzo da pagare per il progresso tecnologico.

Ma il prezzo crescente dei deficit dei bilanci governativi causati dal forte ricorso a politiche di “welfare” le generazioni attuali non lo stanno pagando davvero, addossandolo invece a quelle che seguono attraverso l’aumento dei debiti pubblici, senza una chiara strategia per ovviare al problema.

Le nazioni più fortunate finanziano il deficit attirando ricchezza verso di esse dai Paesi meno solidi o con maggiori prospettive di svalutazione monetaria, ma questo fino a prova contraria è un gioco a somma zero. Semplicemente qualcun altro paga (e pagherà) il conto del benessere di cui esse godono (e ce ne stiamo accorgendo anche in Italia).

Di qui la vera questione: il modello attuale di crescita economica dell’Occidente è sostenibile nel tempo? Ogni anno, come si può notare dal grafico sulle previsioni di crescita, gli analisti hanno peccato di eccessivo ottimismo.

La risposta a quella domanda probabilmente non la conosce nessuno. E fors’anche interessa a pochi leaders politici, di questi tempi totalmente impegnati a combattere un’ondata di ribellione generale mal definita “populismo” a causa del fatto che nuovi leaders la stanno cavalcando cercando di soppiantare quelli che erano in sella.

 

INFLAZIONE O DEFLAZIONE?

La questione della sostenibilità del modello di crescita economica attuale ha un’immediata applicazione pratica: dobbiamo aspettarci nei prossimi anni nuova inflazione o ancora deflazione?

L’inflazione basa i suoi presupposti sull’aspettativa di prevalenza della domanda sul l’offerta di beni e servizi (che fa gonfiare i prezzi) la deflazione sul suo opposto. La prima ha i suoi svantaggi ma normalmente riflette una condizione di salute economica, la seconda rispecchia invece aspettative di declino e minor potere di acquisto, oltre a scoraggiare direttamente consumi e investimenti rendendo conveniente rimandarli nel tempo.

Da questo punto di vista le banche centrali hanno oramai mostrato di avere le armi spuntate perché l’enorme liquidità da esse riversata sui mercati finanziari (negli anni che hanno seguito la grande crisi finanziaria) si è tradotta assai poco in maggior disponibilità di reddito da parte dei consumatori e soprattutto in una ancor minore crescita dei prezzi al consumo.

Questo a livello globale e della media generale, sebbene esistano importanti differenze a livello geografico e anche merceologico.

Si vedono perciò pochi elementi fondamentali a supporto delle recenti aspettative di risalita dei prezzi, persino se la si aspetta come conseguenza del maggior prezzo dell’energia, tutto da consolidarsi anch’esso, dal momento che vi sono poche certezze nella tenuta del cartello oligopolistico che dovrebbe limitare l’offerta di petrolio per favorirne il prezzo. La recente esperienza narra invece una forte elasticità dell’offerta di petrolio al suo prezzo, limitandone di fatto la ripresa delle quotazioni.

Da un punto di vista strettamente teorico la continua crescita di valore del Dollaro americano potrebbe altresì aiutare il resto del mondo a generare/importare inflazione, ma non ci sono grandi evidenze nel riscontro pratico del fatto che andrà effettivamente così. Dunque il ritorno mondiale all’inflazione che tutti attendono potrebbe anche risultare in un fuoco di paglia di inizio anno, per poi non consolidarsi affatto.

 

IL NODO DELL’ECCESSO DI FINANZA NEL MONDO

Qualche analista accompagna le previsioni di crescita all’osservazione che nel 2017 non ci troviamo esattamente nella situazione delle precedenti espansioni economiche, quantomeno a causa di un nodo gordiano : quello dell’eccesso di debito e della parallela bolla speculativa sui mercati finanziari che vi si è gonfiata intorno.

Pur costituendo un grosso rischio (di replicare la crisi del 2008) il problema teoricamente si potrebbe risolvere con un forte coordinamento tra i principali Paesi nel mondo per arrivare a “monetizzare” i debiti pubblici, ma in realtà nessuno di essi ha oggi davvero interesse ad allentare, sperando di trarne profitto.
In effetti ogni volta che scoppia una grande crisi c’è sempre qualcuno che ne trae enormi benefici, e lo stesso vale per le guerre. Dunque non possiamo fingere di ignorare gli interessi che possono presiedere alle politiche economiche che le generano.

Il punto dell’eccesso di finanziarizzazione però non sono i deficit pubblici, bensì i debiti complessivi di ciascun Paese. Nei Paesi che hanno sviluppato il maggior debito complessivo è il sistema bancario che rischia di non avere indietro i propri prestiti, con eccessi evidenti come quello italiano (ma anche quello europeo in generale non naviga in acque sicure).

In Paesi come il nostro il sistema bancario invece “deve” rimanere in piedi, tanto per evitare shock monetari quanto per aiutare il collocamento dei titoli pubblici che -almeno a casa nostra- sono principalmente le banche ad acquistare con il sussidio finanziario della Banca Centrale.

Fiumi di inchiostro sono stati versati al riguardo, soprattutto perché in Italia è oramai allarme rosso non soltanto per il Monte dei Paschi, bensì anche per molte altre banche “sistemiche” del Paese, a iniziare dall’Unicredit. E se un numero consistente di banche italiane dovesse andare in crisi, chi acquisterà gli €400 miliardi di titoli di Stato italiani in scadenza nel 2017?

Il nostro da questo punto di vista è di gran lunga il Paese OCSE più a rischio, forse ancora più a rischio della Cina, che può sempre contare su una propria autonomia monetaria e su una macchina produttiva prima al mondo (e di cui nessuno può fare a meno).

 

MORALE E CONCLUSIONE

Ancora una volta le importanti aspettative di crescita per l’anno appena iniziato rischiano di essere ottimistiche ed auto-referenziali, prive cioè di un terreno solido sotto i loro voli pindarici, alimentati soprattutto dalla grande liquidità di cui godono i mercati finanziari.

Se poi quella liquidità a sua volta galleggia su un oceano di debiti e su poco più di tenui speranze che gli investimenti in corso nelle numerose innovazioni tecnologiche all’orizzonte possano davvero innestare nei paesi più sviluppati una crescita del benessere collettivo e che questa possa a sua volta gradualmente estendersi al resto del mondo, forse per adesso non interessa proprio a nessuno.

Non interessa per esempio ai mercati finanziari, impostati su solidi fondamentali di una domanda di attività finanziarie che supera ampiamente l’offerta e fa presagire una nuova ondata di IPO’s che nel 2016 iniziavano a diradarsi.

Non interessa alle imprese che, contrariamente a molte autorevoli previsioni, non hanno vissuto quella riduzione dei profitti di cui si è parlato per tutto lo scorso anno.

Non interessa alle banche centrali, che attraverso le facilitazioni monetarie erogate hanno conquistato le prime pagine della cronaca globale ed hanno vissuto un’esperienza di vere protagoniste anche a livello politico. Non saranno perciò così urgentemente interessate a rientrare nei ranghi del tempo passato.

La vita però è adesso, come dice la pubblicità globale della Vodafone (gestita da un Italiano illustre nel mondo come Vittorio Colao). C’è la seria possibilità che l’umanità riesca ancora una volta ad aggirare le numerosissime trappole pronte a tendere l’agguato alla nuova ondata di crescita che il mondo si aspetta.
Godiamoci perciò questo ottimistico primo scorcio dell’anno, perché viviamo in una delle epoche meno prevedibili che la storia abbia mai annoverato!

(riceviamo e ripubblichiamo qui un articolo di un nostro corrispondente che abbiamo inizialmente inserito nella pagina Facebook de La Compagnia riscontrando un enorme successo di pubblico).

 

3) APOCALISSE BANCARIA

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Unicredit è la seconda banca italiana ed è sull’orlo del disastro. Per rimettere in sesto Unicredit servirebbero almeno 9 miliardi di euro. Il problema è che nessuno li ha, e non sarebbero nemmeno sufficienti a mettere in salvo la banca in maniera definitiva.

Procediamo con ordine, e proviamo a raccontare la storia, tutta italiana, di questo istituto di credito, che potrebbe avere un finale drammatico per tutto il Paese, ed esporre ad un salvataggio bancario milioni di italiani.

Si può asserire che Unicredit ha imboccato la strada dell’apocalisse fin da quando l’allora CEO, Profumo, forgiò la Banca aggregando realtà italiane, a partire dal Credito Italiano e da Banca di Roma, e tedesche. La banca crebbe velocemente, è inutile ricordare tutte le aggregazioni e le acquisizioni, e Profumo divenne l’alfiere della finanza Ulivista, politicamente schierata senza pudori.

Il gigante, però, aveva i piedi di argilla.

I dipendenti erano (e sono) troppi, mal organizzati, pagati in maniera eccessiva e con una bizzarra organizzazione del lavoro. In questo contesto, il management spinse in modo forsennato per aumentare la redditività della Banca con metodi che possiamo definire al limite della legalità e che, in alcuni casi sanzionati dalla magistratura, questo limite lo hanno più che abbondantemente superato.

In ogni caso la gestione Profumo terminò non tanto per la sua cattiva gestione ma perché si trasformò in una specie di lacchè dell’allora dittatore libico Gheddafi che entrò in forza nel capitale della banca.
Dopo la defenestrazione di Profumo la situazione non migliorò di molto: non si è mai avuto il coraggio di incidere in una situazione di sprechi faraonici, sovrapposizioni di filiali frutto delle aggregazioni, dipendenti costosi e poco efficienti.

Una banca ben gestita, avrebbe potuto superare la crisi con qualche doloretto ma senza danni. Unicredit non era in queste condizioni.

I clienti fallivano (alcuni come nel caso di Divania, vennero fatti fallire per derivati capestro proprio dalla stessa Unicredit) o iniziavano a non restituire i prestiti.

Le sofferenze quindi, salivano in maniera esponenziale e oggi siamo arrivati alla somma mostruosa di oltre 80 miliardi di crediti in sofferenza.

Anche a voler immaginare che si riesca a recuperarne il 20%, significa per Unicredit una perdita secca di più di 65 miliardi. E’ vero che ci sono stati accantonamenti e che gli utili generati dall’attività bancaria sono stati utilizzati in parte per coprire questi crediti. Ma è come voler svuotare l’oceano utilizzando un cucchiaino, bucato per di più.

Gli utili delle banche italiane sono in picchiata. La colpa è di Draghi che ha abbassato fino ad annullarli i tassi di interesse ma questo ha distrutto anche il margine di intermediazione delle banche.
A questo punto Unicredit ha dovuto fare i conti con la realtà. Il management ha deciso di provare a cambiare rotta scaricando l’Ad Ghizzoni.

Quello che servirebbe subito sono almeno 10 miliardi di euro. Tale aumento, avrebbe però un effetto devastante: diluirebbe il peso delle Fondazioni Bancarie.

Ma nel caso di Unicredit, l’aumento di capitale avrebbe l’effetto di diluire la quota azionaria delle fondazioni per rafforzare il primo azionista, il fondo Aabar degli Emirati Arabi Uniti. O il quarto azionista, il fondo sovrano libico che malgrado la guerra civile che infuria in Libia ha trasferito la sede a Malta e continua i suoi oscuri traffici sui mercati finanziari oltre che a finanziare milizie di ogni tipo in patria. Insomma, non proprio una bella situazione. Le fondazioni si oppongono, dunque all’aumento, forse potrebbero essere disposte a sottoscrivere pro quota un aumento di capitale da appena 5 miliardi.

Ma le sofferenze sono mostruose, un aumento da 5 miliardi non servirebbe a molto, al massimo permetterebbe alla banca di continuare a galleggiare per qualche mese. Poi saremmo punto e a capo. Loro non hanno soldi, i fondi libico o degli Emirati Arabi sì e si prenderebbero la banca per meno, molto meno di un piatto di lenticchie. Cosa ne farebbero poi questi moderni predoni non è dato sapere.

La soluzione che qualcuno ha proposto e la vendita di una serie di banche ad alta redditività che operano in centro e est Europa. Un’idea che ha una serie di controindicazioni. In primo luogo, non si tratterebbe di una vendita ma di una svendita a prezzi così bassi da non risolvere assolutamente il problema.

Unicredit in effetti ci ha provato, cedendo la sua controllata Ucraina. Risultato? Ha dovuto mettere nel bilancio 600 milioni di euro di perdite dovute anche al crollo della valuta locale. Conti alla mano, la cessione delle controllate europee di Unicredit potrebbe, se le cose vanno bene, lasciare invariata la situazione patrimoniale.

Ma siccome siamo realistici, diciamo che molto probabilmente se Unicredit si mette a vendere per un piatto di lenticchie o meno queste banche, la situazione peggiorerebbe.

E se intervenisse Atlante? Ormai è una figura quasi mitologica del panorama bancario italiano.
In effetti, diciamo subito che Atlante ha già salvato Unicredit. Lo ha fatto quando ha sottoscritto interamente il capitale della Banca Popolare di Vicenza, evitando quindi che a farlo fosse Unicredit che aveva garantito l’aumento stesso. E se Unicredit avesse dovuto sborsare più di un miliardo di euro, avrebbe dovuto deliberare il giorno dopo a sua volta un aumento di capitale. Perché Atlante non può sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit? Semplicemente perché non ha i soldi.

Se Atlante volesse sottoscrivere l’aumento, dovrebbe andare prima sul mercato a cercare altri soldi. Ci sono banche piene di liquidità che potrebbero sottoscrivere altre quote di Atlante? No, al massimo potrebbe essere la famigerata Cassa Depositi e Prestiti, cioè il custode del risparmio postale degli italiani.
Insomma, se alla fine la soluzione sarà quella di Atlante, a tenere aperto per qualche altro mese la seconda banca italiana saranno i risparmi delle vecchiette (e meno male che sono un sacco di soldi grazie al generosissimo sistema pensionistico retributivo). Una forma mascherata all’italiana, di nazionalizzazione, che servirebbe a tenere aperto il carrozzone.

La soluzione vera, l’unica definitiva e sostenibile, sarebbe l’acquisto dell’intera banca da parte di un cavaliere bianco con un patrimonio solido e capacità gestionali, oltre che dotato del pugno di ferro necessario per riformare la banca e ridurre i costi tagliando filiali e personale.

Questo cavaliere bianco oggi in Italia non esiste. Un’alba rossa si sta per alzare su Unicredit, un’alba tinta dal sangue dei risparmiatori colpiti ferocemente da quello che potrebbe essere il più grande bail in della storia europea.

Chi può, si salvi, anche perché il Fondo di garanzia Interbancario ha le casse vuote e non potrebbe intervenire per coprire i depositi, non solo sopra i 100 mila euro, ma neanche al di sotto.

Guido Gorla

 

4) PICCOLE BANCHE AL BIVIO

Le nuove tecnologie potrebbero sancire la fine delle banche di limitate dimensioni?

La domanda non è oziosa dal momento che tutto il mondo sta commentando l’avvento delle nuove tecnologie informatiche nel settore bancario come l’unico sistema capace di riproporzionare i costi correnti con le magre prospettive di limitati margini nell’intermediazione del denaro e un futuro di maggior concorrenza online tra istituti di credito che mette a rischio quella voce del loro conto economico che sino ad oggi era sempre cresciuta: i ricavi da servizi e commissioni accessorie.

Le banche di piccole dimensioni tuttavia non soltanto potrebbero incontrare maggiori difficoltà (di quelle dotate di più ampi budget da investire) nel rivoluzionare le proprie tecnologie di “remote banking” e consulenza automatizzata agli investimenti basata sull’intelligenza artificiale. I veri problemi per le banche di piccole dimensioni stanno più spesso altrove.

Il primo punto da prendere in considerazione è che molte di esse hanno forti radici nel proprio territorio, cosa che negli ultimi anni si è tramuta in uno svantaggio per la qualità del credito concesso o per le pressioni politiche ricevute nel supportare determinati soggetti economici.

Ciò che infatti fino alla svolta del secolo poteva essere considerato un vero e proprio vantaggio (quello di conoscere bene le caratteristiche e la qualità degli operatori economici del proprio territorio), con l’arrivo di anni più turbolenti si è tramutato invece in una vera e propria iattura: molte delle aziende affidate (anch’esse di piccole dimensioni) non hanno retto l’impatto con la globalizzazione e non sono riuscite a stabilire buoni canali di distribuzione internazionale, finendo per vedere i propri costi sopravanzare i ricavi calanti.

In più gli interventi della politica e delle istituzioni locali a sostegno dell’occupazione hanno ispirato ristrutturazioni aziendali basate quasi esclusivamente sul sacrificio delle banche creditrici e troppo spesso si sono rivelate inopportune oltre che poco lungimiranti, causando soltanto il prolungamento del l’agonia di tali aziende, molte perdite per i creditori bancari e, alla lunga, l’incapacità di questi ultimi di continuare ad erogare credito.

Il secondo e più letale fattore che mina alla base le speranze di vita delle piccole banche risiede tuttavia nella loro capacità di raccogliere depositi bancari, vera e propria preziosa materia prima per gli tutti operatori finanziari, tanto per proseguire con l’erogazione del credito quanto per poter alimentare i ricavi da servizi accessori a quelli dell’intermediazione del denaro.

Nel sistema bancario la raccolta normalmente proviene da due diverse fonti : l’essere operatore del sistema di pagamenti (che genera depositi “in transito” a favore di chi li opera) e, soprattutto, l’amministrazione delle eccedenze finanziarie (risparmi individuali e collettivi che si incanalano in strumenti di investimento).

Ora l’avvento tanto delle nuove tecnologie quanto della globalizzazione hanno chiaramente giocato a sfavore dell’intero sistema nella sua capacitá di raccogliere depositi bancari, ma soprattutto hanno giocato a sfavore delle piccole banche: i pagamenti transitano sempre più dai sistemi online a partire dalle carte di credito, mentre la discesa costante del tasso di remunerazione dei depositi nonché la maggior facilità d’accesso per i pericoli operatori a opzioni di investimento provenienti magari dall’altro capo del mondo rendono sempre più improbabile per i soggetti minori la capacità di esprimere autorevolezza nella gestione del risparmio.

È dunque proprio il declino inesorabile dei depositi bancari il fattore critico che minaccia la sopravvivenza degli istituti di minori dimensioni, più delle perdite su crediti e più della ridotta capacità tecnologica che limita l’offerta di servizi finanziari ad elevato valore aggiunto o a costi competitivi.

Questo non significa che non potranno nascere (anche nelle periferie economiche) nuove istituzioni bancarie, magari anche di ridotte dimensioni ma capaci di formulare alla clientela potenziale proposte davvero innovative o di grande convenienza. Anzi le nuove tecnologie promettono meraviglie in tal senso senza nessun bisogno di eserciti di dipendenti per farle “girare” e i mercati finanziari premiano tali iniziative con valutazioni da capogiro.

È solo assai meno probabile che tali innovazioni possano vedere la luce a partire da soggetti tradizionali e di ridotte dimensioni patrimoniali. Per queste ultime le strade obbligate di strategie estreme per posizionarsi in particolari “nicchie” di mercato che consentano loro la sopravvivenza ovvero quella (più probabile) delle aggregazioni forzose per trovare economie di scala rappresentano forse l’unica alternativa alla bancarotta, a evitare la quale sarà sempre meno probabile che possano intervenire altri denari pubblici.

Il messaggio per il sistema bancario italiano -che esprime in massima parte banche piccole- non potrebbe essere più chiaro: innovare (pesantemente) oppure tagliare, aggregare, o infine chiudere. “Pantalone” non pagherà in eterno per gli errori di gestione!

 

5) È IN ARRIVO LA DE-GLOBALIZZAZIONE?

Nonostante un incremento costante del commercio elettronico,  che per definizione è privo di confini geografici, il volume complessivo dei beni oggetto di commercio internazionale sta scendendo e, negli ultimi tempi, sembra persino che il volume degli scambi internazionali di valuta si riduca (esattamente del 19% negli ultimi tre anni).

Come dire che nemmeno i capitali continuano a muoversi più come prima.

Cosa sta succedendo? Per quale motivo dopo decenni in cui sembrava che il volume degli scambi sul mercato internazionale dei capitali dovesse andare soltanto all’insù, oggi si assiste ad una riduzione?

Il fenomeno sembra innanzitutto dovuto al calo del volume di finanziamenti bancari internazionali, scesi a $28.000 miliardi dal picco massimo di quasi 35.000 nel 2008, determinando un flusso netto di valuta pregiata verso i Paesi Emergenti addirittura negativo nello stesso periodo.

Le banche che sono state meno attive oltre confine sono tuttavia quelle europee, alle prese con maggiori problemi di capitalizzazione e debiti pubblici che non le loro concorrenti basate altrove nel mondo.

Secondo la McKinsey gli investimenti diretti oltre confine che si sono quasi dimezzati dal 2007 al 2015, anche a causa della tendenza generale delle imprese multinazionali a rimpatriare negli ultimi tempi una parte delle attività produttive in precedenza delocalizzate, cosa che a sua volta ha determinato un rafforzamento delle principali valute (Dollaro e Euro in testa) e una parallela svalutazione di quelle storicamente più deboli.

L’intero fenomeno può anche essere letto come una conseguenza della grande crisi del 2008 (che in a Europa si è fatta sentire con oltre un anno di ritardo), in funzione della minor richiesta di credito da parte delle imprese in tutto il mondo (deleveraging).

Ma esso non basta a spiegarlo se non si tiene conto del fatto che è l’intero settore bancario che sta in effetti perdendo dinamismo, non solo nel vecchio continente , ma di fatto anche in tutto il resto del mondo, in parte per la moltiplicazione delle alternative ai finanziamenti bancari, fornite oggi dal mercato dei capitali, e in parte per l’incremento di regolamentazione e requisiti di capitale che si sono accumulati negli ultimi anni dopo l’ultima crisi finanziaria.

È infine possibile che l’inversione di tendenza nei movimenti di capitali sia arrivata con i primi cricchiolii del sistema bancario cinese registrati nel corso del 2015, da molti osservatori inquadrato come sempre più a rischio e certamente caratterizzato nonché penalizzato dal flusso netto di capitali in uscita dall’ex celeste impero.

L’ultimo bollettino della Banca per i Regolamenti Internazionali fa inoltre notare che la cooperazione tra le principali banche centrali del mondo al riguardo delle politiche monetarie, sebbene abbia contribuito a ridurre la speculazione internazionale, ha avuto come effetto secondario di non trascurabile rilevanza anche la riduzione della liquidità disponibile sui mercati, dal momento che un minor numero di soggetti è entrata sul mercato per fare trading.

Fatto sta che la riduzione di movimenti finanziari contribuisce ad alimentare un fenomeno complessivo di apparente de-globalizzazione che forse nessuno si aspettava arrivasse così presto, così come nessuno si aspettava che vincessero la Brexit, Donald Trump e il No al Referendum per le riforme in Italia, sull’onda di un rinnovato interesse a proteggere le attività nazionali.

Il possibile innalzamento delle barriere doganali promesso dai nuovi leaders (o da quelli che si candidano a rimpiazzare gli attuali) rischia di fare il paio, completando il quadretto.

Cosa potremmo aspettarci dall’avvento di un processo di de-globalizzazione se ciò fosse vero? Non è facile rispondere, dal momento che -come sempre- vi sono numerose conseguenze in ciò, ivi compresi vantaggi e svantaggi .

Da una parte la il combinato disposto della progressiva digitalizzazione, dell’automazione industriale, della stampa in tre dimensioni, dell’intelligenza artificiale e della crescente interconnessione globale in tempo reale consente alle imprese multinazionali un maggior grado di decentramento delle produzioni industriali, evitando pertanto che cospicui flussi di merci si muovano da una parte all’altra del mondo come accadeva in precedenza.

Le tecnologie legate all’uso di internet stanno inoltre consentendo un minor volume di viaggi nel mondo, cosa di per sé positiva, poiché riduce le emissioni nocive e le perdite di tempo dei trasferimenti. Senza contare il fatto che le medesime tecnologie stanno individuando nuovi modi di automatizzare servizi e commerci migliorando le prospettive di produttività del lavoro e permettendo ai medesimi di raggiungere anche quei Paesi remoti dove sarebbero stati più cari o meno disponibili.

Il risultato della rivoluzione operata quotidianamente dalle innovazioni legate a internet e al commercio elettronico non si è visto tuttavia soltanto nella delocalizzazione delle fabbriche  e nella globalizzazione dei servizi. A livello logistico il mondo ha cambiato prospettiva, con l’incremento della necessità di stoccare e consegnare a domicilio (da parte dei corrieri espressi e in generale di chi raggiunge “l’ultimo miglio”) e la riduzione dei traffici di trasporto di linea, soprattutto internazionali.

Se però sarà sempre più possibile fornire servizi e consulenza “da remoto” e realizzare  localmente le produzioni in maniera automatizzata,  non soltanto si muove e si muoverà meno gente in giro per il mondo, ma addirittura molte imprese impegnate in attività economiche ad elevato valore aggiunto potranno concentrarsi su poche sedi vicine al loro quartiere generale, restando cioè a casa propria anche quando “esportano” beni e servizi.

È vera de-globalizzazione? La risposta che viene spontanea è: si, ma solo in apparenza. In realtà l’incremento nell’interconnessione tra i popoli non sembra affatto diminuire e, insieme a quest’ultimo, possono invece continuare ad essere abbattute le barriere culturali e linguistiche, contribuendo nell’insieme a un fenomeno di maggiore interlacciamento delle nazioni in grado di più che compensare i volumi calanti del commercio mondiale o la riduzione degli scambi di valuta e dei finanziamenti internazionali.

In fondo persino le tariffe doganali che i nuovi “nazionalisti” pretenderebbero di innalzare hanno lo scopo di prevenire politiche di “dumping” da parte degli esportatori nelle economie emergenti, vale a dire che costituiscono un incentivo a ridurre le sproporzioni nei salari corrisposti ai lavoratori ovvero nelle sovvenzioni di stato.

Cosa che di per sè potrebbe incentivare un diverso approccio al mercato di intere nazioni come la Cina, che in questi giorni per evitare tariffe doganali da parte dei Paesi OCSE e dimostrare di essere divenuta un’economia di mercato, si è appellata alla Corte Internazionale dell’Aia per ottenere il relativo riconoscimento, ai sensi del trattato internazionale sul commercio da parte del WTO.

Chi ha il coraggio dunque di affermare che quella che vediamo oggi non è che una nuova forma di globalizzazione? La storia dell’umanità, per quanto ne sappiamo, non torna mai sui propri passi, nemmeno quando l’apparenza suggerirebbe l’opposto.

6) LA SHARING ECONOMY CELEBRA IL SUCCESSO A WALL STREET

In America dopo una prima ondata di quotazioni in borsa di aziende della new economy intorno alla fine degli anni ’90 sono capitate grandi sciagure come la caduta delle torri gemelle e la grande crisi del 2008 che per qualche tempo hanno messo in ombra le internet companies e fatto sì che personaggi come Warren Buffet si vantassero di non aver mai investito un centesimo su di esse.

Poi è arrivato il Quantitative Easing (denaro facile) e gli investitori, in cerca di novità, sono tornati a guardare con interesse le start-up tecnologiche di ogni genere, ivi comprese le internet companies, molte delle quali propongono modelli di business fondati sulla cosiddetta “Sharing Economy” (condivisione di opportunità e servizi gratuiti in cambio di pubblicità e promozioni).

Il fenomeno è diventato virale e in tutto il mondo si è incominciato di nuovo a parlare di valori stratosferici per aziende che, di norma, non guadagnano dollari anzi, ne perdono parecchi. La più famosa delle start-up tecnologiche è tutt’ora Tesla (già quotata) divenuta un gigante mondiale ed entrata anche nel cuore di molti osservatori.

Dopo il fenomeno di costume dei Social Network (con Facebook e Linkedin) la più prossima alla quotazione a Wall Street nonché la più famosa società della sharing economy è senza dubbio Uber (valutata dai suoi finanziatori poco meno di $70 miliardi) famosa per la possibilità di risparmio e le opportunità di lavoro che propone oramai in tutto il pianeta, ma soprattutto assurta alle cronache di mezzo mondo per le proteste che ha generato (dai tassisti ai trasportatori fino alle autorità fiscali).

I nuovi modelli di business proposti dalla Sharing Economy brillano non soltanto per la genialità delle loro proposte, ma anche e soprattutto perché sono partite da uno dei settori economici più scontati, ad esempio quello dei trasporti, per poi mostrare di essere in grado di applicare la loro tecnologia anche a numerosissimi altri ambiti. Un esempio fra tutti è la tecnologia della “blockchain” che è servita per assicurare in modo indipendente la certezza delle transazioni per la moneta elettronica “Bitcoin”. La medesima tecnologia è oggi oggetto di interesse per ogni genere di archivi “sicuri” e sistemi di catalogazione.

Altra start-up candidata a Wall Street anche perché divenuta nuovo campione mondiale della “Sharing Economy” è AirBnb , cresciuta come un fungo in pochi anni, per aver saputo piazzare a viaggiatori di ogni parte del globo qualcosa come 500.000 camere per ogni notte dell’ultimo anno, assommando un’offerta di oltre 640.000 camere (quanto Hilton Hotels dopo 97 anni di storia) in 57.000 città e 191 nazioni. L’ultima valutazione attendibile di AirBnb (sulla base del collocamento di 3 miliardi di Dollari effettuato nell’ultimo round di Dicembre) implica una valutazione di $30-40 miliardi da parte dei venture capitalists che l’hanno sostenuta.

Questi “Unicorni” (come sono stati chiamati i nuovi campioni) hanno dimostrato che il miracolo dello sviluppo accelerato (grazie all’assenza di barriere fisiche) per le imprese della Sharing Economy può esistere nel mondo reale e, anzi, è un fenomeno dilagante. La creazione di ricchezza che alcune di esse hanno mostrato di saper realizzare non è più una nozione teorica, tant’è che persino grandi aziende della old economy stanno pianificando una sempre maggiore presenza online.

Ecco che dunque, come si poteva presupporre, con i nuovi record di Wall Street raggiunti dopo l’elezione di Trump, molte di esse oggi tornano a guardare alla Borsa come traguardo di un successo anche finanziario che, sino ad oggi, soltanto colossi come Google e Facebook hanno saputo raggiungere.

Molte altre di esse, non ancora arrivate a valutazioni di diverse decine di miliardi di Dollari, sono oggetto di attenzione del Private Equity e di Investitori Istituzionali come i fondi pensione, le compagnie assicurative, gli hedge funds che vedono il loro investimento come stadio intermedio per la quotazione. Tra queste troviamo ad esempio: Glassdoor (community per l’analisi della reputazione delle aziende), Thumbtack (servizi professionali), Instantcart (grocery delivery).

L’elenco potrebbe proseguire a lungo ma il fenomeno della Sharing Economy sta cambiando i connotati di molti settori economici e Wall Street è solo uno degli aspetti più macroscopici.

Uno degli aspetti più importanti ma anche decisamente meno evidenti è la misura del prodotto lordo dell’economia, che evidentemente non viene contabilizzato per la parte di servizi di interscambio o gratuiti forniti online dalle aziende della Sharing Economy.

Price Waterhouse ha stimato che il valore annuo del loro fatturato ha superato i 20 miliardi di Dollari, ma il valore non monetario dei servizi da queste forniti è incalcolabilmente più elevato.

Per quella parte (prevalente) della loro attività non esiste un fatturato che viene rilevato, ma il valore da esse generato per i milioni di utenti innegabilmente si (attraverso la capitalizzazione), dal momento che la loro utilità pratica porta le aziende che li forniscono a grande notorietà e a un posizionamento strategico particolarmente solido.

Niente male come risultato per un’intera categoria di aziende che forniscono servizi immateriali che per buona parte non vengono contabilizzati, no?

 

7) AMAZON ONE, ICONA DEL GIGANTISMO FINANZIARIO DELLA NEW ECONOMY

É sul Financial Times di questa mattina la notizia che Jeff Bezos, capo e fondatore di Amazon.com, anche per celebrare il successo commerciale raggiunto a vent’anni dalla nascita, ha annunciato l’imminente consegna del suo nuovo aereo cargo-icona chiamato (nientemeno) che “Amazon One”.

La sua matricola nei cieli: N1997A, è infatti un fin troppo esplicito riferimento all’anno di fondazione della internet company che ha letteralmente rivoluzionato il commercio elettronico e che sta ancora lavorando a cambiare le regole del gioco a livello planetario per aver investito più di ogni altro concorrente in una imponente organizzazione logistica direttamente controllata in buona parte dei Paesi OCSE.

Così, tanto per fare il verso anche dal punto di vista estetico a quell’altrettanto iconico aereo presidenziale americano denominato “Air Force One” che il Presidente Eletto ha giusto iniziato a mettere in discussione per l’eccesso di costi che si porta dietro. Le fasce blu e oro sui fianchi dell’aereo-icona tolgono infatti ogni residuo dubbio alle caratteristiche pubblicitarie dell’operazione.

L’aver Jeff Bezos investito così pesantemente in una propria capacità di trasporto, logistica e distribuzione sino all’ultimo miglio (è nota l’altra iniziativa iconica che risale a pochi mesi fa denominata “Amazon Prime Air” con la quale sfida i cieli pubblicando i primi test di consegna in tempo reale -per mezzo di una flotta di droni volanti- dei prodotti venduti attraverso la propria catena commerciale online) è stata giudicata da molti analisti come una via di mezzo tra una strategia di lunghissimo termine, una trovata pubblicitaria e una sbruffonata, dal momento che è noto il risultato ancora pesantemente negativo (esattamente per 6,4 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) della divisione logistica della sua organizzazione. Una perdita economica che anzi, il Financial Times fa notare, cresce per Amazon più velocemente delle proprie vendite.

Non più tardi di qualche mese fa infatti era stato pubblicato un articolo dall’autorevole Forbes, di cui riporto qui il link, http://www.forbes.com/sites/oliverwyman/2016/02/18/amazon-is-using-logistics-to-lead-a-retail-revolution/#2d5933961309
nel quale si faceva notare quanto fosse fortemente perseguito l’intento originario del gigante del commercio elettronico: quello di poter controllare più o meno direttamente la propria logistica per arrivare a promettere di effettuare le consegne addirittura in un’ora nei maggiori centri abitati e sbaragliare così la concorrenza.

Intento comprensibile, dal momento che essere il più grande dei commerci mondiali al dettaglio senza avere propri punti vendita può destare, nel tempo, qualche perplessità.

Per lo stesso motivo Amazon ha addirittura aperto lungo le strade cittadine i suoi primi punti vendita di cibo e generi di prima necessità, ovviamente supportati dall’organizzazione logistica di consegne a domicilio più possente del mondo.

Ma quella dell’Amazon One è forse un’iniziativa che va oltre gli intenti originari del poter battere sul tempo (e dunque non sul prezzo) la propria concorrenza: il gigantismo finanziario del colosso americano le cui azioni in Borsa capitalizzano 160 volte i profitti attesi per il 2016 (cioè volgarmente tradotto, i cui titoli sono quotati per un prezzo pari agli utili dei prossimi 160 anni qualora essi non dovessero crescere) ha questa volta inteso celebrare sé stesso! Un articolo di ieri su un importante blog americano
http://seekingalpha.com/article/4030587-todays-amazon-facebook-google-cisco-intel-microsoft-internet-bubble

ricorda che il problema del possibile scoppio della nuova bolla speculativa riguardante i titoli azionari dei giganti della new new economy riguarda anche molti altri campioni quotati.

Un difetto -quello dell’autoreferenzialità- comune a molti tycoon e dittatori nel corso della storia dell’umanità, quasi sempre corrispondente all’inizio di una loro parabola discendente…

 

8)LA CRISI DELLE BANCHE ITALIANE NON SI RISOLVE PER DECRETO

Nel corso degli ultimi anni i bilanci delle banche di tutto il mondo hanno accusato segni di cedimento, soffrendo di un malessere che ha attraversato l’intero settore finanziario. Tra i problemi principali: il calo strutturale dei tassi d’interesse (voluto dalle banche centrali di tutto il mondo per rilanciare gli investimenti e ridurre gli oneri dei debiti pubblici), la riduzione dei depositi bancari, dovuta alla lenta ma costante disintermediazione creditizia, rilanciata dal fiorire delle alternative disponibili tramite internet sul mercato dei capitali e infine la necessità di rispondere a requisiti di capitalizzazione sempre più stringenti introdotti in forma graduale a seguito della crisi del 2008.

In buona parte dei Paesi del mondo le banche hanno affrontato la crisi ricevendo da un lato aiuti dalla mano pubblica o dalle banche centrali, e dall’altro lato aiutando sè stesse fondendosi tra loro per migliorare la propria efficienza di gestione o cercando di guadagnare la leadership di mercato in taluni ambiti di specializzazione, per migliorare la propria capacità di reddito e, indirettamente, la propria appetibilità per gli investitori a cui veniva richiesto di apportare altro patrimonio. In Italia il problema però è stato più intenso e meno facile da risolvere, anche perché affrontato in modo tardivo.

Per chiunque abbia seguito il dibattito che si è acceso a proposito della crisi del Monte dei Paschi di Siena (MPS) è divenuto ormai agevole comprendere che il problema delle banche italiane va inquadrato in un più ampio problema di rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea, ma anche che non si limita a ciò e che non si risolve soltanto migliorando quei rapporti o con l’intervento dello Stato.

Infatti l’allarme collettivo sulle sofferenze creditizie italiane ha crea un problema generale sugli investitori per l’intera area Euro, contribuendo a deprimere le quotazioni di borse e divisa unica, sebbene non si possa negare che esso è anche figlio delle politiche europee a senso unico: se il Quantitative Easing continentale non avesse subito il veto tedesco e fosse arrivato in tempo per riattivare il credito quando ancora in Italia c’era più domanda, forse si poteva risparmiare alle nostre banche la marea di sofferenze che si sono generate con la recessione e, soprattutto, con l’austerity forzosa.

 

L’ASIMMETRIA DELLA NORMATIVA BANCARIA EUROPEA

Ancor più grave è il profondo senso di ingiustizia che gli Italiani hanno provato quando hanno visto francesi, tedeschi e spagnoli profondere decine e decine di miliardi nel sostegno pubblico alle loro banche e, un istante dopo, promuovere una normativa europea sul c.d. “bail-in” che sembrava fatta apposta perché l’Italia, indietro come sempre, non potesse più fare altrettanto.

Per non parlare dell’asimmetria delle norme europee che dovrebbero portare all’armonizzazzione del sistema bancario, quando esse si concentrano sulle sofferenze ma poi chiudono tutti e due gli occhi sui derivati e titoli complessi (c.d. “attivi di livello 3″) di cui sono piene le banche tedesche, francesi e spagnole. Anzi queste ultime non ce li avevano, ma hanno risolto il loro problema delle sofferenze sul comparto immobiliare con una norma (quella sui “repossessed assets”) che le autorizza a cancellare i crediti in sofferenza acquisendone la garanzia reale sottostante a un valore da esse stesse stimato.

Se poi si tiene conto del misero misero livello di capitalizzazione richiesto come percentuale dell’attivo di bilancio: un 3%, senza dubbio insufficiente a tutelare i risparmiatori soprattutto quando non è chiaro il vero valore dei “repossessed assets” o di quegli attivi di livello 3 di cui sono piene le banche del resto d’Europa, diviene chiaro che tutta l’attenzione di quella normativa è stata spostata sulle sofferenze creditizie, ove noi Italiani siamo campioni del mondo!

 

IL PARADOSSO DEL MPS

 

Il caso del MPS, icona dell’intera struttura creditizia italiana, per certi versi è anche paradossale, per vari motivi:

  • perché mai prima d’ora era accaduto per un istituto di rilevanza nazionale che i suoi crediti incagliati arrivassero ad assommare a quasi il 40% dei prestiti erogati (come dire che l’errore nella valutazione del rischio è stato così frequente da lasciare più di un sospetto che la logica sottostante fosse di matrice squisitamente politico-clientelare);
  • perché la banca è storicamente vicina al partito che guida la coalizione di governo, partito che evidentemente Renzi non è riuscito a “rottamare” o peggio, cui ha contribuito egli stesso nell’influenza che esso ha esercitato sul MPS;
  • perché l’aumento di capitale ventilato (si è arrivati a parlare di €10 miliardi, conversione delle obbligazioni compresa) non sarà sufficiente a ristabilire la fiducia dei risparmiatori nella banca se non interverrà anche un nuovo management, forte e credibile (ma di tale staffetta non si parla, mentre affiorano problemi anche per molte altre banche italiane e il governo è costretto a stanziare l’incredibile cifra di €20 miliardi, pari a una “manovra economica” di medie dimensioni);
  • perché gli analisti hanno comunque stimato che il fabbisogno complessivo di maggior capitale della banca sembra ammontare a non meno di €30-40 miliardi e dunque la decina di miliardi stanziati per la sua ricapitalizzazione non solo costituisce un salasso per l’intero Paese, ma non migliora la percezione degli investitori sulle reali prospettive della banca.

 

LA DEBOLEZZA DELL’INTERO SISTEMA

Il punto di attenzione tuttavia, al di là dei problemi di due pesi e due misure per la normativa europea e persino al di là degli incommensurabili pasticci che il Paese ha saputo esprimere attraverso il Monte dei Paschi, risiede soprattutto sulle magre prospettive dell’intero panorama bancario nazionale, tanto a livello di reddito quanto di credibilità.

A partire da Intesa San Paolo che sembra ben capitalizzata e molto avanti nella dismissione di crediti insoluti, passando per l’Unicredit che ha appena lanciato un enorme aumento di capitale e la dismissione di un gran numero di dipendenti, fino alle più piccole realtà locali, il problema delle banche italiane sembra innanzitutto la scarsa capacità di produrre reddito nell’attività caratteristica, quella di prestare denaro, ponendo dubbi di fondo non solo sulle capacità dei loro vertici, ma anche sulla sopravvivenza dell’ecosistema che si è sviluppato intorno alle banche italiane.

L’aver realizzato profitti consistenti sui mercati finanziari negli ultimi anni ha infatti spesso controbilanciato le magre performances sul fronte del credito ma non può certo costituire la risposta strutturale alla crisi delle banche! C’è da attendersi infatti che prima o poi il tema della separazione tra le attività di banca commerciale e quelle di banca d’affari tornerà di moda e la giostra del trading finanziario con cui sono stati puntellati i bilanci delle maggiori banche del Paese dovrà fermarsi.

La scarsa capacità di attrazione delle nostre banche per gli investitori sta perciò soprattutto negli scarsi risultati economici che esse possono promettere, oltre che nella costante emorragia dei capitali dal mercato finanziario italiano. Solo una parte del problema italiano è dunque figlio di un’Europa poco solidale con noi.

 

LA NECESSITÀ DI UNA STRATEGIA – PAESE

Non si può tacere infatti che, se il Paese vuol ritrovarsi con un sistema creditizio sano, esso deve iniziare a confrontarsi con il più strategico dei problemi delle banche: quello della loro credibilità, con il conseguente calo nella raccolta dei depositi, tale da pregiudicare le prospettive di sopravvivenza di buona parte delle banche di piccola e media dimensione.

E i problemi strategici delle banche nostrane sono a ben guardare i medesimi che attanagliano l’economia italiana, a tutti i livelli. Perché -a forza di pannicelli caldi- è l’intero sistema economico nazionale che negli ultimi anni è andato in crisi.

L’intero sistema economico nazionale con l’arrivo della crisi ha infatti sperato nella panacea dell’intervento pubblico, senza affrontare i propri gangli strutturali e in tal modo ha contribuito ad aggravare il debito pubblico senza risolvere i suoi veri problemi.

Le banche italiane ad esempio sono troppo spesso piccole, come le imprese loro clienti peraltro. E lo sono per il solito motivo: la frammentazione delle poltrone di comando e l’incapacità di concepire una vera strategia di mercato.

La logica delle parrocchiette fino a ieri andava bene ma poi è arrivato il vento della globalizzazione, che ha costretto ogni azienda, bancaria e non, a confrontarsi con la concorrenza globale.

Oggi se un consumatore vuole comprare un prodotto in Indonesia o un risparmiatore vuole spostare i risparmi su una banca australiana, ha pochi problemi e li risolve in un minuto con Internet. E peraltro in Italia si è più che mai costretti a risparmiare per la necessità di integrare una Previdenza Sociale sempre più svuotata di contenuti.

Dunque con l’assistenza pubblica che sempre meno potrà fare la sua parte a causa del l’eccesso di debito, se banche e imprese italiane vogliono mantenersi competitive e restare appetibili per il mercato dei capitali, dovranno mostrare solidità, capacitá dei propri managers e convenienza per i loro clienti, altrimenti questi ultimi svolteranno l’angolo e navigheranno in rete alla ricerca di valide alternative.

Non sono solo le banche italiane perciò, ma é l’intero sistema-paese che deve decidere di ristrutturarsi prima che sia troppo tardi, di affrontare le sfide della tecnologia e delle nuove tendenze globali per riposizionarsi nelle aree di propria eccellenza.

È tutta l’Italia (banche incluse) che deve fare scelte dolorose ma necessarie per evitare che i propri clienti facciano shopping altrove, che i propri cervelli emigrino all’estero, che i capitali cerchino rifugio oltre confine, che i cittadini perdano ogni fiducia nelle istituzioni.

È l’intera nazione che deve risvegliare le proprie coscienze dal letargo del vero populismo, quello strisciante buonismo portato avanti negli ultimi quarant’anni in modo subdolo dall’amministrazione pubblica di vecchia maniera e dai politici di tutti i partiti!

Stefano L. di Tommaso