Newsletter Aprile 2014

ASPETTANDO GODOT

  

 

    
SOMMARIO:

1) PREVISIONI IN SINTESI: “Aspettando Godot”
2) LO SCENARIO MACRO: “Il Sistema-Paese alla prova dei mercati finanziari”
3) FUNDAMENTALS  E DINTORNI : Le strategie delle PMI italiane si misurano sulla distribuzione
4) LA STORIELLA (Economisti tra il serio e il faceto)


1) PREVISIONI IN SINTESI:

“ASPETTANDO GODOT”                  
        
Che l’aria stia forse cambiando (ma non troppo) l’avevamo già scritto nella newsletter di Marzo e oggi, all’arrivo di una nuova primavera, ci piacerebbe tanto affermare che finalmente la ripresa arriverà copiosa anche da noi. I mercati finanziari sono fiduciosi sull’Italia e non completamente a torto. La buona notizia è che il risultato di arrestare la decrescita e la conseguente deflazione strisciante dovremmo finalmente coglierlo. Quella cattiva è che (per ora) ciò non dipenderà affatto dalle striminzite riforme in arrivo.

Il nuovo Primo Ministro alza il naso al cielo come Mr.Bean e tenta di rinnovare le regole del gioco, le istituzioni e i loro esponenti, ma con poco successo per il momento. Spinge sull’innovazione, sul dialogo tra le parti, sulle alleanze occidentali, ma tutti sanno che all’Italia, per rivedere la luce del benessere, ci vorrebbe una ripresa del reddito e dei consumi, cioè una maggiore occupazione. Tutti sanno che, per vedere più posti di lavoro, qualcuno dovrà aiutare sia gli imprenditori esistenti che quelli che vogliono iniziare oggi, affinché le imprese possano nel complesso tornare a investire e ad assumere personale, i consumatori a spendere.

Perché ciò accada non basterà però lanciare degli slogan, tagliare qualche spesuccia (futura) e rimborsare qualche credito fiscale (pregresso) verso la P.A. (anche se può aiutare per rilanciare l’entusiasmo). Ci vorrebbe soprattutto la riforma del lavoro, ma è ostacolata dalla sinistra estrema e dai sindacati, la cui maggioranza degl’iscritti appartiene agli occupati e addirittura ai pensionati!  Renzi è forse capace di miracoli ma ragionevolezza vuole che se anche egli fosse “santo subito”, con la rigidità strutturale che affligge l’Italia i tempi perché qualcosa cambi davvero saranno lunghi. E nel frattempo torneremo forse a crescere, si: ma soltanto dello zerovirgolaqualcosa% all’anno. Non quanto basta perché il debito pubblico inizi a scendere.

Dunque lo scenario è da calma piatta? Neanche per sogno! Come dice Fugnoli, “strategist” di Kairos: nonostante le apparenti buone notizie dai mercati i banchieri centrali e gli economisti sono consapevoli della precarietà delle cose. La situazione di Cina, Giappone, Europa, Sud America e Russia è fragile. Restano gli Stati Uniti. Dal 2008 gli unici strutturalmente solidi ma non più capaci di crescere come un tempo e fungere per il resto del mondo da locomotiva dello sviluppo economico. Possono arrivare al 3% ma si sa: è stata un’accelerazione una tantum e la velocità di crociera dell’economia americana è scesa irrimediabilmente sotto al 2 per cento (perciò meno della crescita demografica da immigrazione) e che i profitti delle imprese hanno raggiunto i massimi.

Tutti si attendono dunque una maggiore volatilità dei mercati finanziari, la futura risalita dei tassi d’interesse (magari prima negli U.S.A. visto che l’U.E. non cresce) e forse l’avvio tardivo di un Quantitative Easing europeo (guarda guarda: i Tedeschi si sono forse accorti della deflazione? magari si, adesso che vendono meno macchine a causa dell’Euro forte). Perciò le acque dei mercati resteranno probabilmente increspate, sebbene in media ci aspettiamo che restino inchiodati ai livelli attuali, con le prospettive economiche di medio termine che non sono tranquille per nessuna parte del mondo.

E le Borse? Al di là della sostanziale staticità attuale, tutti si aspettano di vedere qualche segnale di inversione della tumultuosa crescita di cui hanno goduto per anni sino ad oggi. Segnale che però (salvo cataclismi e guerre) non arriva. Come in “Aspettando Godot” (dramma teatrale di Samuel Beckett che non a caso appartiene al filone del Teatro dell’Assurdo): è nell’attesa di eventi che non accadranno mai, che si sviluppa la scena.

L’umore generale sta forse scemando in sordina: la disoccupazione (in tutto il mondo) non demorde, le banche non erogano nuovo credito, il mercato dei capitali è generalmente scettico sul futuro delle Borse nonostante abbia riposto più fiducia nella nostra Penisola che non in molti altri Paesi occidentali. Ma adesso vuole vedere che Renzi snoccioli agl’Italiani i veri tagli nonostante le arcinote resistenze della Casta, altrimenti, come solo ieri ha fatto con i paesi emergenti, quegli stessi investitori finanziari diranno anche a noi: “sorry, we go home”. E la bolletta energetica s’è già capito che non resterà a guardare: lo shock ucraíno lo pagheranno le nostre tasche, parola dei petrolieri!

Se i mercati borsistici alla fine volgeranno al peggio lo si capirà forse dal riprendersi del corso dell’oro, che qualcuno dice sia stato tenuto sino ad oggi artificialmente basso. Se salirà sarà perché gli investitori cercheranno rifugio dalla tempesta imminente.

Quella che – però – non arriva mai.
 

2) LO SCENARIO MACRO:

IL SISTEMA PAESE ALLA PROVA DEI MERCATI FINANZIARI

 

 

 

                                                 
Se buona parte del mondo occidentale arranca, l’ex Unione Sovietica viene messa sotto schiaffo, l’Asia non esulta, Il Pil dell’Unione europea nei cinque anni di crisi dal 2008 al 2012 è calato dello 0,6% in media all’anno, mentre negli USA, da cui proviene la crisi finanziaria è aumentato del 3,6%, una domanda sorge spontanea: come si spiega la capacità di ripresa economica degli Stati Uniti?

Certo ricordando il loro ruolo di predominanza politica e tecnologica sul resto del mondo, ma questo non basta. Gli economisti affermano unanimi che si spiega soprattutto con la loro maggior flessibilità strutturale.

Tutto è avvenuto da loro più in fretta che altrove: la riduzione della leva finanziaria delle imprese, i salvataggi industriali e finanziari, le misure estreme avviate per ridurre i problemi del bilancio pubblico, lo spostamento delle risorse produttive verso il mercato B2B (per colmare il divario creato da una debole domanda interna per consumi)…

Questo fa capire che, oltre alle riforme, contano anche le cose che si fanno o non si fanno: il debito pubblico nostrano che non scende (come non cala la spesa pubblica), la tassazione che non è stata diminuita né si sono visti incentivi agli investimenti strutturali, le imprese che hanno ridotto solo marginalmente il loro grado di indebitamento, la protezione dell’occupazione che ha portato solo rigidità: ha aiutato chi un posto di lavoro ce l’ha già ma ha danneggiato chi lo cerca, infine il protezionismo verso le nostre imprese nazionali: ha introdotto rigidità, non flessibilità. Le politiche che proteggono dalla concorrenza straniera (quelle agricole, ad esempio) hanno inoltre effetti redistributivi a carico dei consumatori.

La prova dell’importanza della flessibilità strutturale viene anche dal Nord Europa: fatto pari a 100 il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto della media europea, tra il 2007 e il 2012 sono cresciuti i valori di paesi come la Germania (+6), l’Austria (+6), la Norvegia (+14), la Svizzera (+15), il Belgio (+3) e la Danimarca (+2); invece sono diminuiti i valori di paesi come l’Irlanda (-16), la Grecia (-15), la Spagna (-8), l’Italia (-5) e il Portogallo (-4).  Anche l’Inghilterra, il Canada, l’Australia, e la Nuova Zelanda hanno minori rigidità strutturali e la ripresa l’hanno imbroccata. Persino il Giappone di Shinzo Abe si sta adeguando in fretta, mentre l’Europa del Sud discute spesso di riforme che portano alla flessibilità ma poi non le pratica, ottenendo in questo modo ulteriore minor credito in assise comunitaria.

Senza cadere nel liberismo appare ovvio che lo Stato, la Politica e il Sindacato devono sapersi togliere di mezzo quando è il caso. Negli anni duemila il nostro costo del lavoro è fortemente cresciuto, insieme alla spesa, al debito pubblico e alla burocrazia indotta dall’U.E. Risultato: maggior rigidità.  L’esatto opposto di ciò che ci serviva con l’introduzione dell’Euro!

Con politiche comunitarie divergenti sugli incentivi allo sviluppo economico, sulla fiscalità e sul welfare, la politica monetaria è rimasta in costante tensione e ha comportato per i Paesi a minor sviluppo una dolorosa deflazione dei prezzi di molti dei fattori produttivi che a sua volta ha alimentato la decrescita.

La flessibilità strutturale non è ovviamente l’unica risposta, servirebbero altre risorse pubbliche per infrastrutture e innovazione. Servirebbe più disponibilità di credito e l’afflusso di capitali stranieri (invece dell’attuale deflusso). Ma con le severe limitazioni fiscali (e intellettuali) che affliggono il nostro Paese, probabilmente le riforme interne per raggiungere la flessibilità sono il primo passo da fare. In secondo luogo l’Europa deve avviarsi verso una maggiore integrazione politica e fiscale affinché i Paesi come anche il nostro non risultino penalizzati dall’assenza di cambi e tassi autonomi.

L’Italia resta tuttavia un punto di riferimento nel mondo per la moda, il lusso, il design e l’alimentare. A confermarlo sono le numerose recenti acquisizioni, da parte di multinazionali straniere, delle eccellenze del made in italy: da Brioni a Krizia o a Loro Piana, da Poltrona Frau alla pasticceria Cova, solo per citare i casi più recenti e discussi. Ma il fenomeno va ben oltre e riguarda ad esempio la quotazione di Prada alla Borsa di Hong Kong, o l’acquisizione di Chrisler da parte della Fiat, o molto di recente l’annuncio dell’accordo strategico di Luxottica con Google per sviluppare una nuova generazione di “Google Glass”, come pure spesso molte altre aziende meno note dell’industria (meccanica, logistica, elettronica) testimoniano una capacità manifatturiera che rende molte aziende italiane appetibili per gli investitori stranieri, nonostante il «sistema Paese» sia poco attrattivo.

Negli ultimi tre anni sono state 198, per un valore di 53,9 miliardi di euro le operazioni di fusioni e acquisizioni perfezionate da stranieri in Italia, secondo la banca dati di Standard & Poor’s Capital IQ. E poi ci sono gli investimenti nelle società quotate, con i casi più recenti di Enel ed Eni in cui la Banca centrale cinese ha superato la soglia del 2%. O le banche e le tlc, nel mirino di BlackRock, il fondo d’investimento più grande al mondo, che detiene quote vicine o superiori al 5% in Telecom, Unicredit, Intesa San Paolo e Mps.
Tutti segnali che, insieme ai flussi di acquisto dall’estero sui titoli di Stato, mostrano l’interesse generale degli investitori per l’economia italiana.

  

 

 3) “FUNDAMENTALS” E DINTORNI:

LUSSO, DESIGN, MODA, TESSILE, ARREDO E ACCESSORI: LE STRATEGIE DELLE PMI SI MISURANO SULLA DISTRIBUZIONE

Le trappole dell’Italian Style

Il nostro Paese esprime nel mondo la più alta concentrazione di piccole e medie imprese attive nella progettazione, produzione e commercializzazione di articoli collegati al concetto allargato di “design”. Quella dell'”Italian Style”è una gloria nazionale, una capacità innata di creare e concepire oggetti, accessori e servizi eleganti, di buon gusto, di design, a volte anche profondamente innovativi, che proviene dalla nostra storia plurimillenaria di arte e artigianato, dalla convivenza con le bellezze artistiche e architettoniche che decorano l’Italia.

Molte grandi imprese attive nel Lusso e nel Design ricercano e assumono italiani, inviano da noi i loro manager e fanno accordi con PMI italiane, sebbene l’assenza di scuole di livello e i soliti “bastoni fra le ruote” posti dalla burocrazia spingano le nostre nuove leve a varcare i confini nazionali, riducendo quel potenziale che l’Italia potrebbe cavalcare per ritrovare la competitività economica. La “fertilizzazione incrociata” derivante alle nostre imprese dal risiedere in virtuosi distretti del “Made in Italy” può aiutarne la creatività ma non aiuta a superare la frammentazione del tessuto imprenditoriale, il cui successo è sempre più legato al saper raggiungere la clientela internazionale.

Il primo handicap: essere troppo spesso una PMI

La piccola dimensione delle imprese italiane è fenomeno a lungo studiato, talvolta lodato ma spesso è un grave problema, a causa dell’impossibilità per i piccoli imprenditori di accedere a nuovi strumenti gestionali e canali distributivi che possano decretarne il successo. Con la globalizzazione dei consumi e dei grandi brand, molte nostre creazioni di oggetti d’arredo, moda, design, lusso e accessori sono divenute prodotti di nicchia, anche a causa della piccola scala di produzione e della poca capacità finanziaria di chi dovrebbe promuoverne l’espansione commerciale internazionale e la notorietà!

Cambia il commercio e crescono le dimensioni delle piattaforme distributive

Ciò che ha poi decretato l’insostenibilità del modello “italiano” di PMI (a lungo erroneamente incensato dalla classe politica) è stata la transizione profonda del commercio al dettaglio, iniziata nei Paesi occidentali a partire dal dopoguerra e giunta al completamento solo negli ultimi anni.
I nuovi concetti di “esperienza di shopping”, i nuovi formati di vendita basati sui centri commerciali o sulla specializzazione di prodotto, l’esigenza di raggiungere livelli elevati di efficienza distributiva e la barriera dei forti investimenti che pochi produttori possono permettersi per disporre di una propria rete globale di negozi monomarca oppure di una rete di medie e grandi superfici a marchio proprio, sono tutti fattori che impediscono a molte imprese di piccola e media dimensione (e quelle italiane sono quasi tutte PMI) l’accesso al consumatore finale.
Senza contare che il sostenere la diffusione capillare nel mondo del proprio prodotto si affianca sempre a cospicui budget per la promozione sul punto vendita e la pubblicità sui “media”, altro onere elevatissimo che non tutti possono permettersi.
Inoltre la transizione del commercio appena evidenziata ha contribuito inevitabilmente alla crisi dei due canali distributivi tradizionali privilegiati dai piccoli operatori: l’ingrosso e i negozi multimarca cittadini.

Cambiano anche i gusti e le tendenze.

Piace oggi un abbigliamento meno ricercato e formale, un arredo minimalista, sempre più una linea di prodotti “globale” che tende ad estendersi anche a tutta la gamma degli accessori. I monomarca dei grandi brand globali propongono e pubblicizzano un intero “stile di vita” sotto la loro marca e oggetti coerenti con quello stile, mentre e le catene commerciali che rimpiazzano il dettaglio tradizionale propongono sempre più la loro marca privata. Da Ikea a Prada, da Armani a Mercedes, tutti estendono i loro brand globali sino a profumi e cioccolatini e raramente favoriscono i marchi di terzi.

È una deriva inevitabile anche essa perché essa abbassa i costi distributivi e li collega più decisamente alla comunicazione sui “media”. Tuttavia essa pone alcune condizioni inevitabili: per raggiungere l’efficienza la dimensione di produttori e distributori non può essere piccola e locale! Nemmeno per il commercio on-line: Amazon oramai vende anche le caramelle!

L’importanza di avere marchio e assistenza globali

Persino nei beni strumentali e di consumo durevole non basta proporre il prodotto più innovativo e bello del mondo: chi compra oggi si domanda di quale servizio post-vendita riuscirà a godere e quanto sarà efficiente quell’oggetto nel tempo: senza una rete globale di assistenza la qualità percepita per i prodotti durevoli rischia di cadere molto in basso!

La necessità di dominare la catena distributiva e quella di assistenza condiziona non poco anche i campioni del “Made in Italy” spesso descritti entusiasticamente in letteratura economica per aver profondamente innovato prodotti e processi, varcato i confini del Bel Paese e creato un mito o uno stile globale. Tra l’altro essa comporta rilevantissimi investimenti e se i produttori che vogliono diventare dei “global players” non mostrano in bilancio elevati profitti non riusciranno a reperire sufficienti risorse finanziarie o non potranno aprire il capitale a soci terzi o alla Borsa. Dunque raggiungere il successo del proprio prodotto oggi non basta: bisogna parallelamente percorrere anche il difficile sentiero del marketing globale e trovare le risorse finanziarie che consentiranno di “sfondare” anche dal punto di vista della comunicazione e della distribuzione.

Essere sui banchi della grande distribuzione può risultare a volte più importante che non avere un buon prodotto, che non l’aver avviato una campagna-immagine attraverso i media. La GDO punta infatti al largo consumo, quello che si realizza soltanto attraverso le grandi catene e permette a molte imprese di crescere dimensionalmente.
Il commercio al dettaglio è divenuto invece un mestiere sempre più difficile, nel quale è fondamentale offrire continuamente novità ed effettuare differenziazioni molto forti rispetto alla concorrenza e rispetto alla GDO (grande distribuzione organizzata) o alle catene di negozi monomarca o infine ai grandi portali del commercio elettronico, i quali hanno dalla loro i vantaggi dell’efficienza di costo.

Ciò che tutti sottovalutano: l’analisi della domanda e le strategie distributive conseguenti

La segmentazione del mercato potenziale e delle preferenze del consumatore permette di imbroccare il prezzo giusto per il prodotto giusto e, soprattutto, il canale più idoneo di vendita, interpretando in anticipo le tendenze del consumo e le minacce della concorrenza.

Un test normalmente molto valido è quello della “ricettività” dei buyer della GDO: quando essi decidono di inserire un prodotto sui loro banchi è perché esistono discrete possibilità di successo, loro stessi infatti conducono continuamente test di mercato per selezionare gli articoli che hanno le maggiori probabilità di mantenere alta l’attenzione del consumatore.
La GDO tuttavia è idonea per determinate categorie di prezzo e di prodotto ma può anche distruggere la credibilità e il fascino che un articolo di design o di qualità può esprimere, non consentendogli un adeguato prezzo di vendita nè l’enfasi che sarebbe opportuna. Quasi mai la GDO è il canale migliore per gli articoli di lusso, moda e accessori, dei quali è pieno il “Made in Italy”!

Dove possono rivolgersi allora i produttori per reperire le informazioni che consentono di focalizzare la migliore strategia distributiva? Quali canali alternativi alla GDO assicurano ugualmente un volume di vendite idoneo a sostenere gli sforzi pubblicitari e comunicazione? In tempi di crisi gli “altri canali commerciali” hanno subìto un deciso calo delle vendite, soprattutto nel nostro Paese e l’analisi della domanda globale ha il massimo della sua economicità sugli articoli a più larga diffusione e su territori relativamente omogenei, mentre è impresa titanica per la PMI convinta di aver imbroccato un ottimo prodotto nei settori tipici del Made in Italy! Come affrontare allora la sfida della distribuzione globale senza perdere di vista il realismo?

I canali commerciali “verticali” o “trasversali”

Come si è notato a proposito dei buyer della GDO, anche sul fronte degli altri canali distributivi esistono organizzazioni in grado di spingere le vendite di articoli “cool” e suggerire nuove esperienze di shopping che tendono al successo raggruppando prodotti di qualità e con caratteristiche simili, proponendo ad un pubblico allargato di scegliere tra un’ampia gamma. Si pensi per esempio al successo di Eataly!

Aver creato un prodotto di successo equipara l’imprenditore in erba a un pittore giovane ma di talento ai tempi di Monet o Chagall: egli deve necessariamente trovare un gallerista che creda in lui, che possieda gli strumenti per promuoverne la notorietà, pronto a scommetterci sopra! Non a caso il nostro grandissimo Antonio Ligabue ha avuto successo soltanto postumo: nessuno gli ha mai organizzato un’esposizione a Parigi. Non si era proposto con insistenza agli occhi di chi poteva renderlo famoso, sebbene la sua arte fosse indubbiamente eccelsa! E chi sarebbe oggi Renoir senza quell’esposizione organizzata insieme a molti suoi “colleghi” nel lontano 1874 dal famoso fotografo Nadar?

Ecco che sul fronte del design avanzato, del lusso e del bello salta fuori una variabile rilevante: i canali distributivi non sono quelli della GDO: si frastagliano e per orientarvisi occorre trovare uno sponsor, una “killer application” che riesca a decretare il successo di una nuova linea di prodotti o di un marchio nascente. Un veicolo di notorietà che sappia lavorare sui “media” e sugli specializzati per raggiungere la capillarità distributiva, o un posto al sole sugli scaffali che contano. Quegli Harrods, Sachs o Lafayette dove tutti vorrebbero essere presenti ma dove pochi arrivano! Vetrine del lusso e del successo che sono poi spesso replicate nell’assortimento dalle altre catene, di minore dimensione e notorietà.

Esistono inoltre gruppi d’acquisto, club specializzati, portali verticali su internet e associazioni di consumatori esigenti (per i sigari o per il vino, ad esempio). Ognuno di questi lavora su un proprio segmento di clientela specializzato, spesso esprimendo al produttore preziose indicazioni sulla domanda, che quest’ultimo deve saper cogliere.

Il “nirvana” da raggiungere: la catena di negozi monomarca

Se hai avuto successo nell’abbigliamento e fortuna vuole che la tua azienda si chiami Dolce & Gabbana (non a caso italiani) allora la strada migliore da percorrere è solo una: inaugurare più velocemente possibile una catena globale di propri grandi negozi monomarca, nelle principali vie dei centri città o nei più esclusivi shopping malls, per massimizzare l’impatto della comunicazione sulle vendite e per controllare il mercato.

Ma pochi al mondo sono i mostri sacri come Zegna, Loro Piana, Hermès, Gucci, Nike o Cartier. Anzi, persino tra i winner si rilevano importanti differenze nelle variabili del loro geomarketing quali il formato, il posizionamento o la localizzazione dei punti vendita. Non esiste una ricetta pronta, nè è pensabile consigliare a chiunque voglia avere successo nel design di aprire in un sol colpo la propria rete di negozi monomarca in tutto il mondo! I negozi sono a loro volta aziende che devono vivere e prosperare, pagare i costi e marginare, rinnovarsi ed essere fornite delle migliori risorse umane. Non è così facile, anche perché a differenza delle altre aziende esse sono difficilmente delocalizzabili.

È inoltre dimostrato che persino le più sofisticate analisi di mercato possono sbagliare, vanificando importanti investimenti nell’apertura di punti vendita “cospicui”, se questi non riescono a raggiungere determinati incassi. È tuttavia sempre più chiaro che i monomarca non possono essere troppo piccoli (per non andare in “rottura di stock” e per non avere un’incidenza troppo alta del costo dei commessi) nè possono essere localizzati in luoghi errati. E la capacità per ciascuno di essi di superare il break-even dei costi variabili dipende moltissimo dalla comunicazione e promozione.
Ma non basta al produttore di successo il poter investire nella distribuzione e nel marketing. Pochi grandi professionisti al mondo riescono lavorare sulla comunicazione di un marchio sconosciuto e ad aprire sontuosi negozi di successo senza che prima il prodotto che si vuole veicolare non sia già divenuto autonomamente famoso.

Per questo motivo molte catene di negozi monomarca nascono con pochi punti vendita e piccolissimi formati che vengono mano mano ampliati in funzione del successo che riscuotono. Per questo spesso le catene di negozi di medio livello vengono inaugurate con formula mista: diretta e in franchising, per poi scegliere in modo definitivo il modello da seguire. Le grandi case automobilistiche ad esempio hanno privilegiato sino ad oggi la formula dei concessionari, che sono pur sempre degli affiliati.

Perdere quattrini nel gioco del commercio al dettaglio è tuttavia davvero probabile e per questo motivo scegliere questa strada normalmente significa poter disporre di importanti capitali ma anche di rilevantissime competenze specifiche. I vantaggi peraltro di una linea distributiva diretta e di qualità sono notevoli: informazioni in tempo reale e di prima mano sulle vendite e sulle richieste del consumatore, assenza di distorsioni derivanti dalle preferenze del distributore terzo, verifica delle politiche di prezzi e scontistica, promozione diretta del proprio marchio, eventuale diversificazione piena della gamma fino a raggiungere concetti arditi quali il “Life-Style”… Il massimo insomma, se ce lo si può permettere.

Alcune valide alternative

Esistono alternative “cheap” alle grandi catene di negozi diretti in Via Frattina o in Via Della Spiga? Assolutamente sì, sebbene l’argomento sia decisamente complesso e ogni alternativa possieda vantaggi e svantaggi. Qualche esempio:
– una rete di corner store nella grande distribuzione;
– una rete di negozi in franchising
– la condivisione tra poche marche delle vetrine di alcuni interessanti negozi cittadini;
– i Temporary Shops;
– la partecipazione sistematica a esposizioni, fiere, mostre e mercatini;
– i negozi on-line;
– le gallerie degli shopping mall;
– le vendite porta a porta e per corrispondenza (si pensi a molti prodotti alimentari).

Ognuna di queste scelte comporta specifiche valutazioni e la necessità di coerenza delle caratteristiche e del posizionamento di prezzo e immagine con il marchio e con i prodotti che esse intendono veicolare. Ciascuna di esse tuttavia, a condizione che ce la si possa permettere, è spesso infinitamente migliore del classico canale “lungo” di una volta: il grossista/distributore geografico e l’agente di vendita.

Conclusioni

La strategia distributiva è di per sé un’arte ed è la quintessenza del fare impresa: non esistono imprese di successo che non abbiano prima vinto la sfida della distribuzione! Troppo spesso nei piani “industriali” mancano o sono striminziti i piani “commerciali”, si tende a fare veri e propri atti di fede in luogo di circostanziate indagini distributive o si è superficialmente ritenuto che la frammentazione verticale di ciascun settore economico potesse aiutare le PMI italiane a “farcela” ugualmente, nonostante le loro limitate forze disponibili.
“Piccolo è bello” se poi però si raggiunge il successo, l’azienda cresce e riesce a controllare le proprie vendite.
Altrimenti è soltanto un luogo comune, e rischia di essere sinonimo di insuccesso!

 
4) LA STORIELLA:

( ECONOMISTI TRA IL SERIO E IL FACETO )

Provare per credere: quando racconti una barzelletta all’operaio della fabbrica questi ride tre volte: la prima quando la ascolta, la seconda quando gliela spieghi e la terza quando la capisce. L’ industriale ride solo due volte: la prima volta quando gliela racconti e la seconda quando gliela spieghi. Difficile che la comprenda davvero e rida la terza. Il sindacalista invece suole ridere una volta soltanto, quando gliela racconti, perché non ti lascia proseguire fino alla spiegazione e non gli interessa comprenderla. L’economista infine, se provi con la stessa storiella ti interrompe subito: “l’ho già sentita, grazie! E ne racconto spesso di peggiori…”
 
 
Stefano L. di Tommaso