Sette domande senza risposte per i mercati finanziari

SOMMARIO:

  1. SETTE DOMANDE SENZA RISPOSTE PER I MERCATI FINANZIARI
  2. LA SOSTENIBILE DISCESA DEI PROFITTI D’IMPRESA
  3. LE VARIABILI FONDAMENTALI PERCHE’ L’EUROPA TORNI A CRESCERE
  4. L’ALTALENA DEI MERCATI E LA RICERCA DI NUOVI EQUILIBRI GLOBALI
  5. ALLA TROIKA NON PIACCIONO LE BAD BANK ALL’ITALIANA
  6. DOVE VA L’ITALIA DI RENZI
  7. QUELL’INAFFIDABILITÀ DELLE PREVISIONI…

1.. SETTE DOMANDE SENZA RISPOSTE PER I MERCATI FINANZIARI

Ecco a Voi – in ambito economico/finanziario- una serie di questioni per le quali nessuno puo’ avere oggi una facile risposta.

Domande che tuttavia lasciano molto riflettere -indipendentemente da come ciascuno pensa di voler rispondere- a causa del fatto che il mondo sembra essere giunto sulla soglia di una nuova era: quella della “congestione dei risparmi” e dei tassi negativi, della caduta delle banche e dei loro banchieri centrali, del trionfo del mercato dei capitali e della rivincita dell’Occidente…

1. Se fino a ieri avevamo ipotizzato un Dollaro in salita fino e oltre la parita’ con l’Euro, e abbiamo poi osservato a un’inasprimento dei tassi negativi della BCE mentre l’Euro, invece di scendere, saliva: qual e’ il messaggio che l’Euro ha fornito agli investitori? Aspetta forse solo che i banchieri centrali inizino a fare sul serio?

2. I tassi di interesse in Europa sono negativi: ma quanto potranno continuare nella loro discesa? Piu’ di un osservatore dice che siamo solo all’aperitivo, che potrebbe significare dunque Euro piu’ debole e Borse europee piu’ forti.

3. E cosa potra’ succedere ai tassi americani dopo il rialzo lungamente promesso dalla FED? Continueranno ad andare su’? In questo caso la cosa ovvia sarebbe dire di si. Ma chi guarda all’andamento deludente dell’economia globale e all’enorme massa del debito pubblico USA inizia invece a pensare l’esatto opposto: potremmo cioe’ assistere a una decisa inversione della curva dei tassi?

4. Lo Yuan cinese e’ diventato una divisa di conto presso il Fondo Monetario Internazionale. E’ il primo passo verso la supremazia del suo miliardo e mezzo di cittadini e potra’ un giorno scalzare il Dollaro nelle transazioni internazionali? Personalmente non lo credo e vedo qualche problema all’orizzonte finanziario della Cina, ma chi puo’ predirne davvero l’evoluzione.

5. Le borse occidentali non hanno perso quasi nulla nelle loro quotazioni record nonostante l’accresciuta volatilita’ e le sempre maggiori tensioni internazionali: esse ci stanno forse fornendo un’indicazione? Siamo forse entrati nell’era dell’investimento azionario?

6. Se la ripresa continua e l’inflazione non sale, se il petrolio continua a scendere e il clima globale diviene l’assillo del momento, quale settore (o comparto) delle Borse potra’ fornire le migliori prospettive ? E’ stato ovvio prevedere sin qui l’arrivo della nuova ondata di investimenti verso aziende della “new economy” ma riusciranno domani le start-up tecnologiche a continuare la loro folle corsa senza fornire certezze di grandi risultati?

7. Se i tassi sono negativi e le borse sono ai massimi, se il Dollaro e’ in crescita ma si e’ anche gia’ rivalutato tanto, se i mercati azionari dei Paesi Emergenti resteranno sotto schiaffo sintantoche’ i capitali non avranno finito di fuggirne, se l’Oro restera’ debole sino a quando resteranno vivi i timori di deflazione globale, dove investiranno i risparmiatori e i fondi pensione senza doversi trasformare in puri speculatori?

Perche’ affermo che non ci sono risposte a queste domande? Perche’ quando gli eventi si approssimano a una svolta ci vorrebbero fiumi di parole a commento di ciascuna di esse, rischiando di finire con il non trovarle ugualmente.

Invece la presa di coscienza dell’essere arrivati oggi a un punto di svolta della storia economica, sebbene non ci fornisca facili risposte alle suddette domande, puo’ aiutare a capire qualcosa di piu’.

Viviamo in un mondo che accelera, che si surriscalda, che si sovrappopola e vede evolvere la propria scienza piu’ velocemente di quanto riusciamo a comprenderla e a utilizzarla.

Ma soprattutto non ci sono risposte all’ultima delle domande sopra riportate:
“dove investire senza cambiare pelle e rischiare l’osso del collo”?
Anche perche’ il periodo attuale ci sta insegnando che nessun ritorno sul capitale e’ oramai garantito, ne’ arriva senza sforzo o rischi.

Benvenuti percio’ nella nuova era, quella che in piu’ di un’occasione mi sono permesso di chiamare la “terra di mezzo”, quel territorio sconosciuto tanto caro allo scrittore J.R.R. Tolkien, autore di romanzi di fantasia che narrano di differenti ere che si sono succedute nella storia della Terra.

Nessuno puo’ dire se la terra di mezzo risultera’ la terra promessa, cioe’ uno stabile punto di arrivo, ovvero solo una tappa nel disordinato succedersi delle ere economiche. Quello che invece e’ facile pronosticare e’ che un cambiamento epocale e’ comunque in atto, e indietro non si torna!

2. LA SOSTENIBILE DISCESA DEI PROFITTI D’IMPRESA

Negli ultimi trent’anni le maggiori imprese multinazionali hanno potuto godere in termini economici di un contesto decisamente favorevole, che potrebbe essere destinato a non ripetersi a causa dei numerosi cambiamenti epocali in corso. Questa l’analisi condotta dall’autorevole McKinsey Global Institute a proposito dell’andamento futuro degli utili aziendali (ecco il link:
http://www.mckinsey.com/~/media/McKinsey/dotcom/Insights/Corporate%20Finance/The%20new
%20global%20competition%20for%20corporate%20profits/MGI%20Global%20Competition_Full%
20Report_Sep%202015.ashx
).
È uno scenario possibile, ma la mia tesi è che il medesimo potrebbe risultare tutt’altro che negativo per l’andamento economico.

Le circostanze che hanno determinato infatti la più consistente crescita dei profitti industriali nella storia del capitalismo sono state moltissime e hanno coinciso con la prolungata pacificazione globale, con l’espansione industriale e tecnologica senza precedenti delle imprese del Nord-America e dell’Europa continentale, con un’epoca di globalizzazione ed espansione del commercio internazionale che ha premiato le imprese (per lo piu’ anglosassoni) che hanno saputo espandersi geograficamente e cavalcare la concentrazione crescente dei loro settori economici man mano che si avvicinavano verso la maturità dei prodotti e mercati.

Tra le ulteriori cause della recente bonanza di profitti e creazione di ricchezza annoveriamo l’ammodernamento delle infrastrutture che hanno facilitato i trasporti, le telecomunicazioni, lo sviluppo di tecnologie, l’automazione industriale, la deregolamentazione, le privatizzazioni di molte “utilities” e, negli ultimi anni, anche la riduzione dell’imposizione fiscale, i ridotti costi di finanziamento e la maggior facilità di reperimento dei capitali di rischio e di ventura. Un contesto che, visto con gli occhi di oggi, non poteva essere più favorevole.

Il quadro si completa tenendo conto della straordinaria stagione di acquisizioni e fusioni conseguite alla concentrazione di ciascun mercato ancora oggi in corso, che ha visto protagonisti soprattutto i giganti multinazionali quotati in Borsa, i quali hanno spesso ottenuto da quelle aggregazioni ulteriori grandi benefici economici, contribuendo alla finanziarizzazione dell’economia reale e alla polarizzazione della ricchezza.
Le compravendite aziendali hanno infatti permesso alle imprese maggiori di consolidare la loro posizione strategica e migliorare l’efficienza economica complessiva, riflettendosi da un lato in maggiori profitti e generazione di cassa, e dall’altro lato nel generare per chi vende grandi plusvalenze che hanno alimentato l’espansione a dismisura del mercato dei capitali, poiche’ i numerosi imprenditori che hanno ceduto la loro attività o la hanno conferita hanno poi riversato sui mercati finanziari montagne di denaro, contribuendo a quel fenomeno moderno di ” savings glut ” (congestione dei risparmi) che ha favorito l’attuale stagione di tassi di interesse negativi.

Nel complesso i Profitti Globali Netti dal 1980 al 2013 sono cresciuti globalmente del 50% più in fretta del Prodotto Lordo, ma la loro proporzione cambia decisamente in funzione della dimensione aziendale e, per questo motivo, nello stesso periodo il valore dell’ “economia di carta” è cresciuto in Occidente molto ma molto di più.
Tutto quanto sopra spiega, almeno parzialmente, la costante crescita dei valori dei titoli azionari quotati alle principali Borse Valori, ulteriormente favorita dalla creazione di nuova moneta recentemente pompata nei mercati dalle Banche Centrali, nonché dalla riduzione generalizzata dei saggi di interesse.

Il forte calo dei tassi di interesse e il pericolo di deflazione e stagnazione secolare a sua volta ha generato una ripetuta (ed eccessiva) attenzione al comparto delle nuove tecnologie, attirando il mercato dei capitali a investire negli elevatissimi costi di sviluppo delle start-up tecnologiche (per fare un esempio: si pensi all’enorme successo e alla folle capitalizzazione di Borsa delle Industrie Tesla, dopo molti anni dall’avvio ancor oggi in forte perdita economica). Difficile dire quanta razionalita’ risieda in quelle attenzioni ma sicuramente il grande successo del “capitalismo d’azzardo” americano resta alla base del grande sviluppo delle tecnologie basato in U.S.A. Dunque c’e’ forse anche della razionalita’ nella follia di quelle quotazioni.

Ma se tutti questi fattori sono all’opera per migliorare ulteriormente le performances aziendali del futuro con l’ausilio delle nuove tecnologie, cosa sta cambiando allora, perche’ il citato studio del McKinsey Institute possa giungere a pensare che la “bonanza” non continuerà?

Innanzitutto per il fatto che sara’ difficile replicare anche in futuro una sequela di tutte quelle circostanze così favorevoli. Ma la crescita degli utili aziendali potrebbe essere giunta al capolinea anche a causa di nuovi diversi fattori:
• la demografia innanzitutto, non piu’ destinata a mantenere il ritmo di crescita che abbiamo conosciuto sino ad oggi;
• la digitalizzazione del pianeta, in secondo luogo, favorisce la frammentazione verticale di taluni comparti industriali e con essa la concorrenza ai grandi oligopolisti internazionali che ne riduce parzialmente i profitti;
• lo scontato rallentamento della crescita globale inoltre, man mano che l’era industriale in corso raggiunge la sua maturità, puo’ limitare le prospettive di sviluppo;
• la crescente concorrenza sui prezzi proveniente da imprese dei Paesi Emergenti che possono contare su limitatissimi costi del lavoro e su un diverso modello di business, riduce i margini su tutte le produzioni “commoditizzate”;
• la tendenza costante infine all’accrescimento della spesa pubblica per l’assistenza e la previdenza sociale (del “welfare”), che ha gonfiato i debiti pubblici nazionali, i quali non potranno non provocare una maggiore tassazione degli utili aziendali lordi e dunque una riduzione di quelli netti.

Questi fattori non sembrano neanche gli unici destinati a comprimere le attese di ulteriori incrementi dei profitti che hanno sinora alimentato il benessere e le valutazioni aziendali viste sino ad oggi in questo straordinario scorcio di secolo che abbiamo appena vissuto.
Ovviamente il calo degli utili attesi potrebbe a sua volta provocare una tendenza alla discesa dei corsi dei titoli azionari scambiati nelle Borse Valori in funzione della riduzione delle attese economiche e queste ultime ridurre l’appetito degli investitori nei confronti dell’innovazione tecnologica e delle concentrazioni settoriali, che tanta parte hanno avuto in quella crescita sino ad oggi registrata.

Ma soprattutto quello che ci si aspetta che possa cambiare è il ritratto del consumatore medio: sempre più appartenente a qualcuno dei Paesi Emergenti, sempre meno orientato al consumo cospicuo o a pagare un extracosto per prodotti eccessivamente performanti e “status symbol”, questi consumatori sono in crescita numerica ma potrebbero iniziare a preferire prodotti “etici” e a “chilometri zero”, dando impulso allo sviluppo di nuove piccole imprese destrutturate e basate sulle relazioni a rete che possono svilupparsi tramite Internet, alcune delle quali potrebbero rivelarsi in futuro delle innovative e agguerrite concorrenti delle grandi corporation, spingendone i profitti al ribasso.

Con l’avvento della discesa strutturale dei prezzi di commodities, materie prime e servizi “commoditizzati”, anche il modello di business di molte imprese sta cambiando.
Infatti il crollo dei prezzi ha spesso provocato una riduzione anche dei prezzi di vendita di molti prodotti e servizi (dunque una spinta deflattiva) lasciando maggiori margini sui prezzi finali soltanto agli operatori piu’ forti sul mercato finale (prodotti brandizzati o con leadership tecnologica).
In media comunque la spinta verso una riduzione dei prezzi finali tocca alla fine tutti gli operatori perche’ quantomeno crea un effetto sostitutivo di una parte delle vendite a favore dei produttori a piu’ basso costo. L’effetto sui margini e’ pertanto probabilmente negativo.

La progressiva frammentazione verticale di molti settori economici è inoltre favorita dalle reti di impresa basate sulla comunicazione a mezzo Internet e permette ai nuovi concorrenti di limitare le barriere all’entrata e di potersi permettere un più basso livello di capitalizzazione, intaccando piu’ facilmente la posizione dei leaders di mercato a causa dell’accresciuta concorrenza, con un qualche riflesso probabile sulle performances di questi ultimi.

Molte delle pratiche di transfer price delle multinazionali, basate sulla selezione dei Paesi a più bassa fiscalità e sulla fornitura di manifattura a buon mercato proveniente dal terzo mondo, sono oggi destinate a ridurre la loro valenza man mano che il mondo si evolve.

Un aspetto non trascurabile e’ relativo al modello distribuitivo che e’ venuto affermandosi negli ultimi anni: operatori della GDO (come Walmart ad es.) creano efficienza comprimendo pero’ i margini industriali rispetto a quelli che era possibile ottenere passando della rete di vendita monomarca o tramite grossisti.
La forza dei grandi distributori organizzati permette alle imprese ottime prospettive relativamente ai volumi di vendita e alla certezza dei termini di pagamento ma ha anche un costo in termini di minori margini: gli effetti finali sui profitti aziendali non sono mai ovvi ma sono probabilmente negativi.

In definitiva il progressivo venir meno della fortunata serie di circostanze che hanno determinato l’attuale momento di supervalutazioni aziendali potrebbe contribuire alla riduzione dei profitti futuri, ma non necessariamente alla compressione delle relative supervalutazioni.

In sintesi abbiamo detto che:
• il mondo occidentale sta perdendo la sua supremazia;
• le imprese multinazionali rischiano di ridurre il loro potere di mercato;
• i paesi emergenti possono introdurre maggior concorrenza;
• l’utilizzo di internet puo’ contribuire a diffondere le tecnologie e a creare nuove reti d’impresa, senza piu’ bisogno della continuita’ territoriale;
• la crescita della GDO e del commercio elettronico favoriscono una riduzione dei profitti aziendali, anche se non necessariamente una riduzione della capitalizzazione borsistica.

Come reagire a una simile tendenza?
Probabilmente cavalcando la tigre della frammentazione industriale e dell’efficienza ottenibile tramite la riduzione delle dimensioni aziendali, con il suddetto trapasso da un modello ideale di business “multinazionale” a uno di “multilocalita’ ” e di maggior numero di “Reti d’Impresa” .

Tra le piccole imprese nascenti si nascondono percio’ numerosi campioni del prossimo futuro e una strada da seguire e’ forse proprio quella della progressiva dematerializzazione delle strutture aziendali fisiche, della riduzione del numero di persone regolarmente assunte, dell’attenzione spasmodica alle sinapsi aziendali e alle nascenti sinergie tra diverse tecnologie e diversi mercati (si pensi ad esempio all’I.O.T. : l’internet delle cose), ma soprattutto la strada maestra per le imprese del domani sembra essere quella dell’attenzione alle ultime mutazioni nel comportamento dei consumatori, il vero motore del cambiamento in atto.

È certo possibile che il numero delle imprese che riusciranno a cavalcare la tigre risulti assai inferiore a quello delle aziende destinate a ridimensionarsi o a soccombere.

Tuttavia la notizia che poteva risultare piu’ importante discorrendo di elementi che potranno determinare il calo dei profitti futuri, la possibile notizia della correlata tendenza alla riduzione dei valori aziendali, alla riduzione della capitalitazzazione di Borsa delle società quotate, non solo non e’ ancora mai stata scritta, ma non e’ nemmeno certo che potra’ mai arrivare!

Associata ad una qualche riduzione dei profitti futuri ci sara’ piu’ economia reale insomma, ma anche forte evoluzione digitale delle imprese appartenenti all’economia reale e, probabilmente, nessuna discesa dei valori di mercato delle medesime.

La vera novita’ e’ che il mercato finanziario è divenuto il settore economico più importante del mondo: oramai giustifica sè stesso e se in futuro i profitti industriali saranno meno cospicui potrà rifarsi in molti altri modi, primo fra i quali con la possibilità che il baratto tra la minor eccedenza di profitti e la stabilizzazione complessiva del sistema economico possa addirittura sospingere ulteriormente le quotazioni.

C’è ovviamente la possibilità che il mondo vada invece nella direzione esattamente opposta, ma sono profondamente convinto che in tal caso le ragioni di tale svolta risiederebbero tutte in questioni di precisi interessi geo-politici e militari!

3. LE VARIABILI FONDAMENTALI PERCHE’ L’EUROPA TORNI A CRESCERE

Nel corso del 2015 la ripresa economica, seppur limitata nel suo manifestarsi, é divenuta una realtà per i Paesi dell’U.E.

Dal momento però che il contesto geo-politico attuale non risulta certo dei più favorevoli per il consolidarsi della crescita, tutti si chiedono come renderla sostenibile anche nei prossimi anni.
Le ultime manovre della BCE hanno mostrato che gli stimoli monetari sono probabilmente già arrivati al loro limite naturale, e poco altro possono fare per sospingere le due variabili fondamentali dello sviluppo economico: la produttività del lavoro e la demografia.

L’Europa invero sta subendo due importanti flussi migratori dalle zone del Magreb e del Medio Oriente ma, poiché per motivi di scarso ricambio demografico la forza lavoro dei suoi 28 paesi membri è previsto che si contragga di almeno 1 milione di persone l’anno, non è detto che l’immigrazione sopra menzionata possa bastarle a compensare tale deflusso.

Se vogliamo tener conto del fatto che buona parte delle persone in arrivo forzoso nel Vecchio Continente risulta priva di ogni genere di formazione professionale e che nessuno degli immigranti ha mai versato un centesimo alla previdenza sociale delle casse europee, è chiaro che la questione demografica del continente non solo non si risolve con l’immigrazione, ma anzi rischia di venire affiancata dalla crisi della Scuola Pubblica e della Previdenza Sociale, che può derivare dall’impatto di un eccesso di flussi migratori.

È un dato di fatto che la qualità delle risorse umane nelle imprese del domani da un lato risulta fondamentale per il successo di queste ultime, ma dall’altro lato è direttamente collegata al successo delle scuole, delle università e degli istituti di ricerca scientifico-tecnologica nel contribuire allo sviluppo di know-how e innovazioni tecnologiche tali da migliorare la competitività delle imprese.

È pur vero che -grazie a Internet- le innovazioni scientifiche oggi dì si diffondono all’intera umanità a prescindere dalla loro origine geografica, ma è altrettanto vero che le medesime capacità di innovazione ed efficientamento attirano inequivocabilmente i capitali per gli investimenti laddove si trovano i cervelli che le sviluppano e le imprese che con quei cervelli collaborano. Dunque il fattore territoriale resta importante.

Una parte significativa del problema fondamentale afferente le prospettive di crescita economica di ciascuna regione del mondo infatti, risiede non solo nella qualità della sua forza lavoro, ma è data anche dalla capacità delle imprese che lì pagano le tasse di assumere persone e attrarre capitali per far decollare gli investimenti, senza i quali non ci sarà incremento della produttività del lavoro né miglioramento del benessere individuale.

La produttività in Europa è cresciuta in maniera significativa soltanto fino all’inizio degli anni ’80, dopodiché è cresciuta di un misero 1% fino all’inizio del nuovo millennio e oggi in media cresce di circa lo 0,5% annuo a parità di perimetro. Ciò accade probabilmente a causa del fatto che molte imprese europee sono attive soprattutto in settori tradizionali, a causa della sempre maggiore età media, della miglior qualità della vita e delle politiche di tutela del lavoratore.
Quest’ultimo fattore inoltre probabilmente limita i consumi, incrementando la quota risparmiata del reddito disponibile totale, facendo il paio con le esigenze di sottoscrizione dei debiti pubblici.

Ci vorrebbe un deciso sforzo verso la formazione “digitale” della popolazione, utile alla nascita di una nuova generazione di innovatori e a far decollare quelle nuove attività d’impresa che possono rilanciare consumi e investimenti, ma certo l’attuale progressiva sostituzione della forza lavoro nativa con quella importata da Africa e Medio Oriente non aiuta in questo processo.

È ipotizzabile che tra i fattori che potrebbero consentire di arrivare a rilanciare investimenti e consumi nell’Europa continentale siano annoverati:
• la caduta totale e definitiva delle barriere tra Stato e Stato, e
• lo sviluppo di nuove importanti infrastrutture di telecomunicazione e trasporto.

Certo è quantomeno ottimistico ritenere che anche senza adottare iniziative e politiche economiche non solo di espansione monetaria, bensì integrate con ogni altra misura volta a rilanciare lo sviluppo e perciò assai coraggiose nel loro complesso (che tengano cioè conto dei problemi “fondamentali” della crescita) l’economia del vecchio continente” possa recuperare vigore autonomamente.

Senza quel coraggio oggi perduto per riportare alla luce del dibattito politico le dinamiche più fondamentali sopra citate, quello europeo resta destinato altrimenti a diventare sempre più un “continente vecchio”!

4. L’ALTALENA DEI MERCATI E LA RICERCA DI NUOVI EQUILIBRI GLOBALI

Nonostante l’elevatissima volatilità del Dollaro, molti gestori del risparmio e analisti economici sono preoccupati: la forza della divisa a stelle e strisce sembra trabordante e rischia di danneggiare ancor più la difficile situazione di molti Paesi Emergenti che sono soprattutto produttori ed esportatori di petrolio, gas e delle principali materie prime, le quali scendono proporzionalmente di prezzo e diventano fonte di ulteriore instabilità dei mercati.

Perché temono il caro-Dollaro? Per il suo effetto deflattivo, innanzitutto. Di fatti se i Paesi Emergenti esportano gas, petrolio, carbone o grano, e la loro valuta nazionale si svaluta contro Dollaro, quel che ne consegue è che ottengono meno Dollari in cambio delle loro esportazioni e, in termini di Dollari, il loro Prodotto Nazionale Lordo scende.

Inoltre ciò equivale ad una ulteriore discesa del prezzo (in Dollari) delle materie prime, cioè a uno sgonfiamento (deflation) del loro prezzo, che provoca quello di numerose altre merci. Se nel mondo c’è più offerta che domanda di quelle esportazioni, l’economia ristagna. La deflazione ingenera a sua volta aspettative di ulteriori cali dei prezzi e dunque frena gli entusiasmi di chi investe, provocando la recessione.

Non solo: se un investitore istituzionale ha puntato su un Paese Emergente e la divisa di quest’ultimo è previsto che si svaluti, cercherà di disinvestire da quel Paese riportando i capitali in patria a rendimenti sempre più bassi, ma soprattutto così facendo egli determina un flusso in uscita di capitali, contribuendo a ingenerare aspettative negative per quel Paese ma anche per il resto del mondo, dal momento che se i Paesi Emergenti consumano e investono meno, tutto il resto del pianeta potrebbe rimetterci, con il rischio di provocare una recessione globale.

Per fortuna la geografia economica diverge molto da quella demografica e politica. Viviamo in un mondo nel quale la ricchezza -nel bene o nel male- è concentrata in poche mani e in un numero ancora minore di chilometri quadrati. E’ il motivo per cui anche le politiche monetarie oggi divergono: le economie dei Paesi occidentali (che ancora conta per buona parte del totale di quella globale) mantengo un ritmo sostanzialmente positivo perché i consumi in quei Paesi sono in crescita, mentre il calo dei costi di molte materie prime permette alle loro imprese di realizzare margini più generosi.

Però il difficile equilibrio tra un Occidente che macina innovazione tecnologica e ricchezza e il resto del mondo che se la vede con prospettive non proprio favorevoli è a rischio: quando è anche una parte dell’Occidente a rimetterci in funzione dell’eccessiva forza del Dollaro, ecco che l’equilibrio si può spezzare. I mercati fiutano questo rischio, e rimangono perciò volatili e nervosi.

Cosa sta per succedere infatti? Dopo diversi anni di grande coordinamento tra le Banche Centrali (che ha tra l’altro permesso di superare una delle più grandi crisi finanziarie della storia) è in arrivo un’importante (ma forse solo apparente) divergenza: la Federal Reserve of America sta per alzare i tassi di un’economia che corre, creando appunto qualche mal di testa per i Paesi Emergenti, mentre la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone vorrebbero lanciare nuovamente politiche monetarie espansive (un programma di acquisto titoli sul mercato aperto equivale ad abbassare i tassi ma è tuttavia preferibile dal momento che i loro saggi di interesse sono già sotto zero).

La divergenza tuttavia potrebbe risultare solo apparente. Perché?

Oggi sembra essere nell’interesse di tutti il fatto che Euro e Yen si svalutino contro Dollaro e permettano di incrementare le esportazioni dei loro rispettivi Paesi nel continente americano, mentre quel che può essere interpretato come politica monetaria restrittiva (la Fed che alza i tassi) può venire compensato da ulteriori immissioni di liquidità da parte delle altre Banche Centrali, contribuendo al riequilibrio dei mercati finanziari che altrimenti rischiano di restare a secco.

Il grande debito pubblico americano (largamente eccedente la normalità) può in tal modo venir sottoscritto (a tassi bassi) dai numerosi investitori desiderosi di portare i loro capitali in area Dollaro mentre gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi Europei e del Giappone restano sostenuti dalle rispettive Banche Centrali.

Tutto bene allora? Non proprio. L’ipotetico equilibrio sopra descritto è delicato e dà per scontata la capacità dei consumi e degli investimenti in USA di assorbire esportazioni europee e giapponesi. Molti si chiedono come faranno le imprese americane a mantenere alti i profitti e questo non potrà che generare incertezza, volatilità nelle borse e ancor più nei cambi valute probabilmente ancora per un bel po’…

Non solo, c’è un terzo incomodo: la Cina. Nessuno può prevedere se riuscirà a far decollare i suoi consumi contribuendo alla stabilità economica mondiale ovvero se, dopo anni di crescita, il suo sistema finanziario entrerà in crisi. Un crollo della crescita economica delle economie asiatiche diverrebbe la buccia di banana dell’economia globale!

Ma c’è anche la possibilità di guardare il bicchiere “mezzo pieno”: le imprese americane sono sempre più orientate a innovazioni tecnologiche che, se risultano davvero dirompenti, sono poco condizionate dal rialzo dei loro prezzi in Dollari. I consumi e gli investimenti dei Paesi Occidentali sono sempre più orientati alle tecnologie digitali e, pertanto, “se la cantano e se la suonano” dipendendo sempre meno dai consumi di petrolio, metalli e derrate, man mano che le loro economie si digitalizzano, che estraggono loro stessi petrolio e gas, e che la produttività dei loro campi (o meglio delle loro serre) decuplica. Poi ci sono veri e propri “cigni neri”, come l’India, o la Corea, che mostrano livelli elevati di scolarizzazione e di capacità tecnologica, con ritmi di crescita persino superiori alla Cina.

Perciò non risulta del tutto irrealistico uno scenario in cui la crescita economica mondiale sarà ancora una volta trainata da un Occidente sempre più digitalizzato, che innova e consuma, oltre che da alcuni altri Paesi “eccellenti” nelle loro performances industriali, dove gli investimenti proseguono imperterriti.

Non è ovviamente uno scenario favorevole per gli altri Paesi, quelli meno dinamici o meno agiati -e per le popolazioni che li occupano- ma è difficile prendere questi argomenti sotto il profilo etico: si rischia di perdere di vista i reali meccanismi economici. E poi, come spesso è successo in passato, la cooperazione internazionale potrebbe riattivarsi per spingere le economie di quei Paesi verso nuove forme di produzione, teoricamente con un vantaggio anche dal punto di vista dell’inquinamento globale.

La speranza è dunque quella che stia formandosi un nuovo, diverso, equilibrio economico globale, che il medesimo potrebbe ugualmente consentire progresso e prospettive di ulteriore benessere e persino durare nel tempo, scongiurando l’avverarsi quelle numerose previsioni apocalittiche di chi vede nel prossimo rialzo dei tassi americani l’inizio di ulteriore turbolenza globale.

Ovviamente non ci sono certezze. Ma se così fosse, un piccolo rialzo dei tassi oggi (e un mancato rialzo più consistente domani) darebbe credibilità alla “forward guidance” della Fed e potrebbe segnare l’approdo dell’Occidente in quella mitologica “Terra di Mezzo” per dirla alla John Ronald Reuel Tolkien, un periodo di transizione nel quale può formarsi un nuovo equilibrio, basato su un deciso salto tecnologico e, ancora una volta, trainato dall’Occidente.

Se così fosse anche i mercati finanziari potrebbero restare sostanzialmente stabili sui livelli raggiunti dopo cinque anni di rialzi, sebbene essi potranno rimanere dominati da una crescente volatilità. È il miglior sintomo di quel nervosismo che inevitabilmente prelude alla ricerca di nuovi equilibri, non necessariamente traumatici.

5. ALLA TROIKA NON PIACCIONO LE BAD BANK ALL’ITALIANA

L’alternativa italiana alla cessione dei crediti “non performing” tanto sollecitata dagli operatori esteri avrà forse deluso i mercati e i mercanti, ma a me, da un punto di vista strettamente patriottico, è invece piaciuta!
Non si tratta di politica, ma di buon senso, per una volta: il business dell’acquisto e rivendita sul mercato dei capitali dei “crediti non onorati dalle imprese” fa gola a molti, ma le banche italiane non erano pronte a iscrivere nei conti di fine anno la minusvalenza e, peggio ancora, le imprese italiane in bilico tra il salvataggio e il fallimento, non erano pronte a subire le azioni legali di coloro che si sarebbero precipitati a comprare quei crediti nel tentativo di ottenerne un profitto!

Secondo la mia modesta opinione il gioco della Troika era poi fin troppo palese. Per inciso quel termine (che in lingua russa significa terzetto, come a briscola), nell’Unione Europea rappresenta l’insieme dei creditori ufficiali durante le negoziazioni con i paesi fortemente debitori.
La Troika è costituita dai rappresentanti di: Commissione europea, Banca centrale Europea e Fondo monetario internazionale, quest’ultimo governato da una signora francese (ma chissà perchè ogni volta che la scrivo il correttore automatico mi toglie la K? Forse ne conosce le maternità?)

Volendo malignare infatti il gioco era: costringere le banche italiane a iscriversi la perdita in nome dell’ostacolo che quei crediti deteriorati costituiscono per tornare a erogare nuova finanza alle imprese ma, un istante dopo, prendere atto della loro ridotta dotazione di mezzi propri e invocarne la ricapitalizzazione. Cogliendo probabilmente così due piccioni con una fava: forzare l’ingresso di nuovi soci (stranieri) nel capitale di quelle banche e rinviare sine die l’erogazione di credito aggiuntivo al sistema industriale. Se fosse successo la ripresa economica dell’Italia sarebbe rimasta nell’angolo ancora per almeno un annetto. Quanto sarebbe bastato per richiederne il commissariamento europeo!

L’intervento della Cassa Depositi e Prestiti a sostegno di tante singole bad bank quante sono quelle strapiene di credito deteriorato invece, può determinare per ciascuna di quelle banche un salvataggio bello e buono, con la possibilità di un immediato ritorno all’erogazione di nuova finanza alle imprese, argomento che resta un nodo giugulare per l’economia nazionale, senza costringere le banche italiane a un’immediata ricapitalizzazione.
Le banche nazionali sono per ora al sicuro dall’arrivo degli squali di oltr’alpe, e l’acume toscano di chi ci governa ha probabilmente giovato a individuare la mossa vincente. Ma resta il fatto che il gioco non puo’ durare per sempre, e che i capitali italiani devono tornare a essere incentivati a sostenere l’economia reale nazionale, altrimenti sarà solo questione di tempo prima che l’Unione faccia la voce grossa.

Mi sono percio’ rallegrato di questa manovra da un punto di vista strettamente patriottico, ma non dal punto di vista complessivo: l’Unione Europea mostra ancora una volta di essere sostanzialmente e burocraticamente al servizio di due o tre dei suoi membri più centrali. Mantenendo a lungo in frigorifero le economie dei Paesi periferici, essa alla fine ne ha fatto le spese tutta insieme.
Ancora oggi per motivi inesplicabili l’Eurozona resta al palo della deflazione e della sostanziale stagnazione registrando ancora numeri record di giovani disoccupati e sottoimpiegati, senza che nessuna drastica iniziativa venga presa dalla Banca Centrale o dalla Commissione Europea, mentre l’economia Americana invece corre e la disoccupazione -cola’- tende quasi a zero…

6. DOVE VA L’ITALIA DI RENZI

Il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld ha dichiarato a metà Novembre che l’economia italiana ha visto soffocata la propria domanda interna così a lungo che il prossimo anno sarà quest’ultima a sospingere la ripresa produttiva, a prescindere dai problemi congiunturali dei Paesi Emergenti.

Ora, il peggioramento del commercio internazionale e’ oramai cosa certa, ed e’ attestato dalla caduta dell’indice dei costi per il trasporto navale delle principali commodities il c.d.”Baltic Dry”, che ha raggiunto il suo minimo storico: in riduzione di oltre il 62% rispetto a un anno fa e riflette soprattutto i minori acquisti di materie prime da parte dei cinesi. La caduta degli scambi internazionali e’ a sua volta un segnale del possibile rallentamento dell’economia globale e del rischio di caduta dell’export manifatturiero italiano.

Secondo il consigliere economico di Renzi invece (Gutgeld è un brillante matematico trasferitosi da Israele nel 1989), il rallentamento dell’economia mondiale potrà anche frenare le nostre esportazioni, ma la limitata esposizione del nostro Paese al commercio con la Cina (meno del 3%) e gli incentivi fiscali concessi alle famiglie dovrebbero assicurarci soprattutto uno sviluppo trainato dalla ripresa dei consumi italiani.

Ovviamente il governo pone l’accento sui benefici che ancora devono materializzarsi in seguito alle riforme recentemente varate. Ma gia’ nell’anno in corso la ricrescita di quasi l’1% del Prodotto Interno Lordo e’ una cosa che non si vedeva da 7 anni. Il nostro Paese e’ ancora la terza economia europea e l’ottava nel mondo, ma essa è riuscita a stagnare nel complesso da piu’ di 15 anni (il PIL e’ oggi allo stesso livello lordo del 2000, anno in cui siamo entrati nell’Euro).

Gli effetti pratici della ripresa per la gente comune secondo Renzi si sentiranno perciò soprattutto nei prossimi mesi, quando l’ulteriore discesa della disoccupazione e del corso dell’Euro contro Dollaro potrebbero finalmente inaugurare per il Paese una stagione di rinnovate speranze.

Tuttavia, sebbene l’aumento del reddito disponibile e la detassazione degli investimenti aziendali potranno contribuire a sospingere la domanda interna, i loro benefici rischiano di rimanere “spiazzati” dalle crescenti esigenze della spesa pubblica e dall’allargamento del debito pubblico (giunto al 133% del PIL), fattori che potrebbero generare una crisi di fiducia di stampo greco se non opportunamente tamponati.

Da questo punto di vista la necessita’ di tenere viva la crescita nel 2016 e’ cruciale per rispettare l’obiettivo di riduzione di quel debito al 131% del PIL. Senza quella crescita si porra’ un problema che puo’ scatenare una bufera a livello europeo. Secondo Wolfgang Münchau essa infatti non e’ cosi’ scontata perche’:

• il Paese resta zavorrato nel suo complesso dal Meridione e da altre questioni strutturali che ne limitano la dinamicità;

• il sistema bancario non e’ stato alleggerito dei crediti incagliati e pertanto l’offerta di nuovi prestiti resta ridotta e forse inadeguata a sostenere quella crescita, soprattutto con l’arrivo della norma europea che impedira’ al governo nuovi salvataggi senza che prima siano i depositanti a perdere quattrini;

• le scelte politiche di Renzi sono fino ad oggi state improntate a scelte populiste invece che a sciogliere i nodi interni della giustizia e della burocrazia che mantengono un forte divario tra l’Italia e i Paesi piu evoluti dell’U.E.

Questi fattori rendono cruciale per l’Italia il consolidarsi della ripresa e l’assenza di nuovi terremoti tra le banche, al fine di rintuzzare ogni minaccia di una nuova crisi di fiducia nel sistema-paese, a sua volta essenziale affinche’ continui l’afflusso di capitali dall’estero. Un elemento che resta fondamentale per sostenere gli investimenti e i consumi nazionali nel 2016.

7. QUELL’INAFFIDABILITÀ DELLE PREVISIONI…

Mai prendere troppo sul serio le previsioni basate su modelli macro-economici. Sembra un vecchio adagio ma è quel che salta fuori dalla disamina di buona parte delle sentenze che si sono succedute negli ultimi anni da parte dei principali istituti di ricerca: quasi mai hanno colto nel segno.

Una vecchia battuta recita così: ” cosa ci rende consapevoli del fatto che gli economisti sono sempre dotati di grande umorismo? Dal fatto che quando danno i numeri essi aggiungono i decimali ! ”

Uno degli esempi più evidenti del fatto che l’economia non è oggi una scienza esatta riguarda il limitato numero di previsioni negative che gli istituti hanno avuto Sino ad oggi il coraggio di emettere. Parliamo peraltro di colossi come il Fondo Monetario Internazionale, piuttosto che la Commissione Europea!

Spesso alla base di quelle previsioni “ufficiali” ci sono ragioni politiche, ragioni di stato o anche solo idee preconcette, puntualmente smentite dai fatti ma che rispondono alla logica di non generare allarme o non ampliare le crisi in atto. Rispettabilissime, ma pur sempre errate.

Fino a qualche decennio fa le banche centrali usavano non dichiarare pubblicamente le loro previsioni, con il beneficio di mantenere integra almeno la loro faccia. Poi è prevalsa l’opinione che rendere palesi i loro obiettivi avrebbe potuto aiutare chi doveva prendere decisioni importanti, ma nessuno si è preoccupato di far notare che nessuna di esse possiede una sfera di cristallo funzionante! Anzi: quel che più ha tradito le aspettative degli operatori di mercato negli ultimi anni è stata proprio l’affidabilità degli obiettivi che le Banche Centrali si pongono! Configurano una ripresa o un buon andamento prospettico molto più spesso delle volte in cui sono costrette ad ammettere che ci si trova sulla china di una recessione.

Sarà che in molti casi anche le banche centrali sono vittime della ragion di stato, certo è che in mancanza di altri fari che squarcino le nebbie dell’incerto futuro, gli investitori professionali così come le iniziative pubbliche non possono che affidarsi a quegli obiettivi di ripresa e di “moderata inflazione” anche di fronte all’evidenza di accentuata deflazione ed erratico andamento del P.I.L.

È successo soprattutto con le aspettative di ripresa nei paesi periferici dell’Unione Europea e per buona parte degli Emergenti, ma è capitato anche per il consolidamento della ripresa economica degli U.S.A. : nessuna previsione ha colto l’altalena di risultati congiunturali che si è verificata all’indomani di una delle maggiori crisi finanziarie di sempre, con motivazioni che di volta in volta sono state chiamate ex-post “frozenomics” oppure “secular stagnation”.

Come pure è stato forte l’imbarazzo di fronte alle recenti, vistose e totalmente impreviste oscillazioni di Dollaro e Petrolio: non ci sono sistemi predittivi che possono anticiparle davvero, nemmeno a livello dei più potenti sistemi di rilevazione e calcolo della Federal Reserve of America: quelle che gli economisti sono davvero capaci di emettere sono spesso bugie consolidate in statistiche ufficiali, dalle quali si traggono conclusioni solo ovvie, tardive e pronte ad essere smentite, sebbene pur sempre molto dettagliate…!

Stefano di Tommaso