Dicembre 2014

SINDROME ARGENTINA

 

 

SOMMARIO:

 

1) IN SINTESI : Il punto della situazione

2) MERCATI : Sindrome Argentina (l”Italia sprofonda?)

3) FUNDAMENTALS E DINTORNI : Anschluss (l’Annessione) un libro di V.Giacchè

4) APPROFONDIMENTI : Crisi del Petrolio ? Follow the Money !

5) INFORMALIA: (Tra serio e faceto): A proposito del noto principio OPM…

 

1) IN SINTESI :

Il punto della situazione

L’economia mondiale sembra attraversare un banco di nebbia autunnale. Svariati conflitti bellici, economici, geopolitici e ideologici ne pregiudicano la salute e non é chiaro se subito dopo la foschia di stagione arriverà una bella giornata di sole o invece un acquazzone. Dopo l’intenso “doping” monetario operato dalle banche centrali di (quasi) tutto il mondo (tranne l’Unione Europea, appunto) a sollievo della ripresa dalla crisi finanziaria, il paziente (l’economia occidentale) sembra risvegliarsi gradualmente e un po’ intontito. L’importante è che le principali variabili macroeconomiche risultino moderatamente positive, sebbene mai come questa volta le statistiche siano lontanissime dalla realtà dei fatti.

Un esempio per tutti lo si è avuto qualche giorno fa nel regno del benessere economico e della ripresa oramai consolidata: quest’anno le vendite USA di alimentari per il pranzo del Giorno del Ringraziamento sono crollate dell’11% ! Alla faccia di un prodotto interno lordo che dovrebbe chiudere il 2014 con un +3,5% ! E se questo accade oltreoceano, possiamo affermare la stessa cosa per l’Europa, per il Giappone e per la maggior parte dei BRICS, i quali sono ben lontani dall’euforia assaporata fino al 2008, con l’unica eccezione forse della vicina confederazione elvetica, il cui andamento è notoriamente anticiclico, anche perché è considerata da tutti i ricchi del mondo il “buen retiro” dove trovare approdo quando altrove arrivano i problemi.

Qualcuno chiama questa situazione “crisi del modello capitalistico”, qualcun altro invoca cicli economici di lunghissimo periodo (che oggigiorno avremmo sperato di saltare a piè pari), ma quel che è certo è che non è proprio più possibile continuare ad osservare l’andamento dell’economia mondiale soltanto misurandone il livello lordo dei consumi. Sarebbe come dire che se un essere umano ingrassa allora sta meglio. Altri temi divengono oggi pressanti, quali la salvaguardia dell’ambiente, il livello delle infrastrutture, il sistema di welfare, la salvaguardia dal crimine e dalle guerre, eccetera eccetera.

In questo contesto di limbo ogni ipotesi di scenario per il 2015 potrebbe essere corretta. Certo le Borse potranno salire ancora un po’ (magari in modo più selettivo) sulla scia delle ancora invocate (e necessarie) facilitazioni monetarie, ma non ci si può certo attendere che tornino a crescere vorticosamente, dati i livelli di valutazione delle aziende che esse implicitamente esprimono.

Quanto alla nostra Italia il paragrafo che segue è tutto dedicato al suo andamento, ma la morale è sin troppo scontata: deve imboccare un cambiamento che è ancora ben lontano dal verificarsi!

 

(In dettaglio)

2) MERCATI FINANZIARI

Sindrome Argentina (l’Italia sprofonda?)

 

 

Il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri in una cosa ha ragione da vendere: le crisi non durano per sempre. Neanche quella attuale, che sembra aver minato alla base i sistemi economici occidentali (o averne messo allo scoperto le debolezze) durerà per sempre.

È tuttavia proprio su questo assunto che si sono mossi sino ad oggi Renzi e i suoi predecessori, sbagliando evidentemente sin dall’inizio la diagnosi e poi la prognosi che il Governo del nostro Paese avrebbe dovuto adottare per tirarsi fuori dalle secche del pericolosissimo pantano politico-sociale cui siamo incappati, capace di riportare le piazze italiane a ferro e fuoco per sopraggiunta asfissia dei propri cittadini.

In Italia convivono infatti troppi elementi di squilibrio che necessitano tutti di una risposta forte e contraria, di politici capaci non solo di contrastarli, ma soprattutto di trovare credibilità agli occhi della gente comune, dei lavoratori, degli imprenditori e dei commentatori. Vediamo quali:

• Uno smisurato comparto pubblico dell’economia italiana (giunto ad eccessi che nemmeno i Paesi Scandinavi hanno mai sperimentato) che spiazza pericolosamente l’economia privata, imponendole troppe tasse, facendole concorrenza sleale, ritardandole i pagamenti, e -visto che è sempre in deficit- azzerando i propri investimenti produttivi;

• Un sistema finanziario incentrato tutto sul comparto bancario al quale i regolatori di Bruxelles e Francoforte hanno progressivamente imposto una sempre maggior capitalizzazione e che ha risposto a tale necessità restringendo il credito erogato e, con esso, il moltiplicatore della massa monetaria del Paese. L’ipertrofia del sistema bancario ha inoltre strozzato in Italia la sua fisiologica alternativa: il mercato dei capitali, con il risultato di ridurre decisamente le risorse cui le imprese potrebbero attingere per trovare nuova energia;

• Un sistema industriale in costante arretramento, il quale ha subìto invece che cavalcato l’ondata di globalizzazione che ha attraversato il pianeta a causa dei costi connessi alla moneta più sopravvalutata del mondo e alla stagnazione suprema del mercato interno, dettata dalla più profonda crisi dei consumi nazionali dall’ultima guerra mondiale. Un sistema industriale che ha perciò dovuto rispondere prioritariamente all’innegabile imperativo del “si salvi chi può” emigrando verso paesi a più bassi costi;

• Un sistema di norme, controlli e di uniformità dettate dall’Agenda europea che hanno contribuito fortemente ad imporre lacci di ogni genere alle imprese italiane di tutte le taglie, al quale non è conseguito un sistema finanziario, di politica industriale e di supporto della funzione pubblica della stessa matrice comunitaria, creando di conseguenza un pesante svantaggio al nostro Paese cui nessun politico è sin’ora riuscito a contrapporsi;

• Un sistema di relazioni industriali basato troppo sui giochi politici e troppo poco sul l’interesse del Paese, in cui hanno prevalso i vincoli e le salvaguardie richieste dal sindacato,le relazioni incestuose con i politici di questo o quel governo (i quali restano pur sempre al sedile di comando di una macchina pubblica che macina per più di metà del prodotto interno lordo) e infine punzecchiato dalla devianza e l’inefficienza della magistratura, incapace di incutere timore ai debitori che non pagano, agli operatori economici che non rispettano le regole, ai lavoratori che di assentano, ai funzionari pubblici che non operano correttamente. Un sistema di relazioni industriali che ha contribuito non poco a far fuggire dall’Italia imprese e imprenditori.

Ora qualsiasi governo coscienzioso avrebbe dovuto prendere atto del fatto che con la situazione sopra descritta nessuna nazione può incentivare con piccole iniziative la crescita della propria economia, far trovare un posto di lavoro ai giovani e ai lavoratori che lo hanno perduto, stimolare innovazione e idee vincenti per competere con successo sull’arena globale.
Quando la situazione si incancrenisce ci vogliono invece tagli effettivi e ribaltamenti epocali delle rendite di posizione per restaurare la fiducia degli investitori e dei consumatori, ci vogliono: l’entusiasmo degli innovatori, l’interesse degli stranieri, il Rating del Paese e l’efficienza dei servizi pubblici.
Pur convenendo sull’ovvia considerazione che tutto ciò in Italia è quasi impossibile, un minimo di buon senso dovrebbe far osservare a tutti che, se la medicina è amara, la malattia puó essere anche peggiore!

 

 

E invece no: tutti i recenti governi di “solidarietà nazionale” hanno avviato qualche lieve riforma di facciata e attivato molti sussidi pubblici (che aggravano solo il debito) senza agire affatto a salvaguardia delle fondamenta del nostro sistema economico e soprattutto senza tagliare le dimensioni del bilancio dello Stato, arrivate vicino agli €800 miliardi su un PIL di circa €1600 miliardi (50%) !

Hanno tutti sperato che presto e miracolosamente il pendolo dell’economia tornasse autonomamente a oscillare in senso contrario e che l’Unione Europea (soprattutto il suo baricentro tedesco) avrebbe alla fine collaborato nel varare grandi misure di allentamento monetario e cooperazione, finalizzate a tirare l’Italia fuori dalle secche. Cosa forse ragionevole in un altro contesto, ma non in quello attuale in cui il sospetto (fondato, come si vede dai numeri sotto riportati) degli altri membri dell’Unione è quello che l’Italia continuerà nelle sue follie di spesa pubblica è che dunque un aiutino servirebbe soltanto a lasciare il quadro invariato.

Eccoci dunque arrivati al capolinea, alla “sindrome argentina”, con un mercato interno dei consumi ridotto al lumicino, una restrizione monetaria accentuata da quella creditizia che non quasi ha pari nel secolo precedente, un deficit fuori controllo e nessuna volontà di collaborare da parte dei nostri alleati-rivali europei, almeno sintantoché essi non avranno ottenuto un’unione europea fiscale e politica che rassomigli a una una sostanziale annessione (si veda al riguardo la lunga recensione del libro “ANSCHLUSS” per cogliere la portata epocale della manovra in atto)!
Perché dunque viene da parlare di “sindrome argentina”? Per stigmatizzare quel coacervo di impoverimento collettivo, fuga dei cervelli, corruttela statale, restrizione delle libertà democratiche e profonda alienazione della fiducia degli investitori che da qualche decennio a questa parte hanno devastato uno dei Paesi una volta più floridi del continente sud-americano.
A quel modello siamo destinati? Oppure siamo destinati ad una integrazione europea forzosa e spiacevole con il debito che i nostri (pochi) neonati e i nostri (sempre più numerosi) immigrati saranno costretti a soddisfare con pratiche poco ortodosse sul reddito da essi prodotto quali: prelievi forzosi, tasse patrimoniali, riduzioni del welfare ed altre amenità del genere? Difficile rispondere ma oramai la fine del binario è vicina e possiamo presumere che la risposta a questa domanda non tarderà ad arrivare.

Quel che capita oggi è che l’America e la Gran Bretagna (con il proprio immenso Commonwealth) hanno ripreso da tempo la strada della crescita, mentre in Europa persino la Germania e la Francia (responsabili di buona parte degli squilibri attuali) hanno iniziato ad arrancare, senza mai convincersi della necessità di unire davvero le forze (e non solo le normative) con quelle dei loro vicini di casa. L’America non è più la locomotiva del mondo come i BRICS non sono più i protagonisti assoluti della crescita economica. Il mondo s’interroga sulla possibilità di proseguire sulla strada del progresso economico ma ai suoi vertici non riesce a concertare quasi nulla: dal controllo delle emissioni dannose alla repressione dei focolai di guerra localizzati.

L’Italia nello stesso momento in cui dovrebbe concentrare gli sforzi per uscire da una dannosissima recessione economica sta invece attraversando un incosciente sconvolgimento del proprio quadro politico e istituzionale: il Presidente della Repubblica sta per dimettersi e il Presidente del Consiglio viene attaccato da maggioranza e opposizione parlamentare, con il risultato che l’agenda delle riforme urgenti facilmente slitterà ancora e che saranno in molti a cedere alla tentazione di soffiare sulle piazze infuocate, cavalcando il sentimento popolare di delusione per le promesse che non potranno essere mantenute.
È un gioco al massacro che impedisce al Paese di riprendere fiato!

Il paragone di questa situazione con quella delle numerose crisi argentine della storia recente viene perciò quasi ovvio. Soprattutto un inquietante fattore comune: l’errore di aver sperato di cambiare le cose ancorando la propria economia ad una valuta forte: il dollaro americano per l’Argentina, l’Euro germanocentrico per l’Italia.

 

Arriverà dunque la ripresa? Si e No.
Si per le statistiche e forse per la produzione. Perché l’export italiano traina almeno una parte dell’industria nazionale, ed è possibile che benefici anche di qualche effetto positivo dalla discesa del cambio, dall’inclusione nel prodotto interno lordo delle attività illecite, dalla discesa del costo delle materie prime e del lavoro. Il programma di investimento infrastrutturale europeo potrà anch’esso dare qualche frutto. Dopo cinque anni di arretramento è possibile che per qualche frazione di punto percentuale l’economia si riprenda.
No per i consumi, il reddito disponibile, i valori immobiliari. Almeno sintantoché l’imposizione fiscale resterà così elevata, le prospettive di benessere così magre e la previdenza pubblica così incerta; sintantoché gl’imprenditori resteranno così propensi a trasferire all’estero le proprie risorse finanziarie e la disoccupazione resterà così diffusa tra i giovani e i lavoratori dell’intelletto.
La crisi insomma, come dimostrano i tristi precedenti argentini, non passa da sola, né per merito dei nostri alleati/rivali europei.

 

3) FUNDAMENTALS & DINTORNI

CRISI DEL PETROLIO? FOLLOW THE MONEY!

 

Chiunque avesse provato a prevedere solo pochi giorni fa quale sarebbe stato l’esito del vertice OPEC a Vienna, avrebbe sicuramente scritto che il taglio alla produzione era cosa certa e addirittura ne avrebbe stimato con buona approssimazione i volumi.

Questo per molti motivi: ci sono Paesi produttori che poggiano gran parte del budget statale sull’export di materie energetiche, ci sono Paesi che affrontano costi di raffinazione non compatibili con le conseguenze dei 60 Dollari per barile (per esempio il Venezuela), la minaccia delle estrazioni americane con la nuova tecnologia non è ancora così forte in termini di volumi (che a questi prezzino va interamente in bancarotta con i costi di estrazione che essa sopporta) e infine ci sono sanzioni in corso nei confronti di taluni Paesi produttori che per questa ragione già esportano molto meno di quanto potrebbero.

E invece è andata esattamente nell’altro verso. Qualcuno scrive che sono stati i Sauditi che con punto fermo hanno preteso questo finale (anche perché sono i meno danneggiati, sebbene nemmeno loro possano permettersi davvero una guerra dei prezzi) e che in realtà la manovra sia stata organizzata raffinatamente a tavolino per portare a casa i lauti frutti di una formidabile speculazione finanziaria sui mercati, la cui maggioranza degli operatori scommetteva sull’esatto opposto.

Se così fosse l’attuale ribasso non durerebbe a lungo. E ciò è infatti quello che ancora oggi scommettono i mercati, sebbene al momento sia andata esattamente all’opposto. Cosa che lascia presumere che l’operazione “giù i prezzi” durerà poco ma non pochissimo. Esiste allora una mano forte e apparentemente invisibile sui mercati? Probabilmente sì: le dimensioni globali dei mercati finanziari sono tali da non lasciar diradare in fretta le nebbie che li avvolgono, soprattutto in estremo oriente.

Certo ci sono conflitti all’interno del cartello dei Paesi esportatori di petrolio e in Iran hanno appena scoperto un giacimento da 14 miliardi di barili, facilmente estraibili. Inoltre nuove tecnologie sono in arrivo nel campo dell’estrazione e della raffinazione e dunque il panorama a venire risulta quantomai dubbio, soprattutto in termini di tempistica. Inoltre il prezzo del petrolio è legato a doppio filo a quello del gas e c’è l’intera Federazione Russa (con i suoi Paesi satelliti) che a questi livelli è in ginocchio, lasciando perciò presumere che chi ha lavorato a questo risultato ha ottenuto grandi risultati anche dal punto di vista geopolitico.

L’operazione finanziaria appena realizzata dai ribassisti potrebbe risultare in una delle maggiori rapine del secolo nella storia del petrolio, ma oramai ha avuto luogo. E non è affatto detto che si riassorbirà in un istante con operazioni uguali e contrarie, anche perché i grandi consumatori di materia energifora sono soprattutto i grandi Paesi emergenti come la Cina, i quali devono trovare ogni strada possibile per prolungare la crescita economica siano al raggiungimento del livello di sussistenza per le fasce più povere della popolazione. E non potranno che beneficiare da quanto accade se si riduce uno dei costi maggiori del loro sviluppo industriale.

Certo è che ne vedremo ancora delle belle, mentre l’intero Occidente prende da questa manovra una bella boccata di ossigeno (infatti gli investigatori dicono sempre: per capire cosa succede: “follow the money”) mentre i suoi paesi (ricchi e baciati da questa fortuna) continuano nel frattempo a lavorare sullo sviluppo delle tecnologie verdi, che prescindono talvolta dal livello di prezzo delle commodities, quantomeno da quello del petrolio…

 

4) APPROFONDIMENTI:

” ANSCHLUSS (l’Annessione) “.  Recensione del libro di Vladimiro Giacchè

 

Giacché sembra scrivere un saggio di storia contemporanea a proposito della riunificazione tedesca conclusasi nel 1990, per giungere invece a porsi domande di ordine macroeconomico e filosofico: è possibile infatti tracciare un parallelo tra l’unificazione europea in corso -sotto i riflettori della crisi economica che stiamo vivendo- e quella della Repubblica Federale Tedesca (RfT) con la Repubblica Democratica Tedesca (RdT)? E se sì, allora per definire entrambe è lecito usare un termine così inquietante, che ricorda a tutti la più famosa annessione dell’Austria da parte della Germania nazista nel 1938, poco prima della seconda guerra mondiale?

La prima risposta che viene da scrivere è che la configurazione attuale dell’Unione europea sarebbe ovviamente impensabile senza l’unificazione delle due Germanie, fatto che ha permesso loro di riconquistare centralità geopolitica in Europa, alterandone gli equilibri.
La seconda è che non di unificazione bensì di vera e propria annessione dei territori dell’est da parte delle élites dell’Ovest si trattò.

Oggi notiamo quello squilibrio quando pensiamo al vincolo monetario che la Germania ci impone, ma se lo valutiamo bene esso è anche un vincolo politico, derivante dalla salvaguardia per gli Stati più virtuosi dell’Unione che è stata imposta dal trattato di Maastricht, sebbene le dolorose misure di politica economica cui noi Italiani ci sottoponiamo non dipendano soltanto dai vincoli del trattato, bensì anche dall’eccesso di spesa pubblica del nostro Paese che nessun politico vuole davvero limitare.
Quel vincolo monetario che sta stritolando i membri più deboli dell’Unione prima o poi verrà allentato, ma ciò non succederà gratis. La Germania in cambio chiederà ai suoi alleati-rivali europei un prezzo politico, come la posizione comunitaria nei confronti dell’Ucraìna oppure la presidenza della BCE.

La riunificazione tedesca avvenne sotto l’insegna di una promessa di arricchimento per tutti, esattamente come la futura amalgama politica e fiscale dell’Unione europea viene proposta ai suoi cittadini come un’opportunità di rafforzamento del debito dei singoli deboli stati che la compongono. Giacché scrive testualmente: “nelle modalità di gestione della crisi del debito di questi ultimi anni, e addirittura in alcuni degli strumenti di cui si è suggerita l’adozione, l’unificazione tedesca è tornata a essere proposta come modello per l’Europa”. Giacchè perciò prova a tracciare un vistoso parallelo tra quella riunificazione e l’unificazione europea in corso, di cui si cominciano a vedere i frutti velenosi proprio in questi anni di crisi conclamata del sistema economico occidentale.

La visione tedesca dell’Europa è chiara: essa oggi deve rimanere unita per impedire la svalutazione del capitale investito nel suo perimetro. Da lì, trent’anni dopo l’unificazione monetaria delle due Germanie, nasce il vincolo monetario che oggi si vuole indissolubile. Domani invece si vedrà, in funzione dell’abilità tedesca di guadagnare preponderanza ad ogni mossa successiva sullo scacchiere d’Europa.

La verità è che sulla fine del blocco sovietico e degli stati satellite come la RdT ne sappiamo ancora poco: quasi nulla è stato scritto.
La tesi documentata da Giacché è che la situazione della Germania dell’Est non fosse quella di un’economia disastrata con cui nulla poteva esser fatto se non ripartire da zero.

All’epoca infatti la RDT costituiva nel blocco sovietico un polo avanzato dal punto di vista industriale e scientifico, tanto da vantare ingenti esportazioni non solo verso i Paesi del Patto di Varsavia. La Germania occidentale l’ha fagocitata invece quasi gratuitamente e per mezzo di pratiche assai poco ortodosse, con l’aiuto di ciò che rimaneva dell’URSS, che voleva sì liberarsi della patata bollente, ma che soprattutto aveva bisogno di sostegno economico.

L’economista a Giorgio Gattei parla dell’incidente di Chernobyl come della goccia che fece traboccare il vaso nella crisi della Russia socialista. Con le colture contaminate e impossibilitati a pagare i debiti con l’estero contratti con l’acquisto obbligato di grano non contaminato dal Canada, i sovietici si accartocciano definitivamente. La soluzione immediatamente percorribile fu quella di fare una transazione multilaterale: vendere la RdT alla Repubblica Federale Tedesca in modo che l’URSS uscisse dalla crisi economica ripagando i propri debiti tramite la RfT.

Ma in cosa consistette l’annessione? In primo luogo, gli uomini mandati dall’Ovest a gestire la transizione si preoccuparono solo di privatizzare in fretta e furia tutto l’apparato produttivo dell’ex RDT, con prezzi e modalità tutto fuorché trasparenti. La privatizzazione a bassissimo costo delle imprese della RdT è consistita dunque in una gigantesca distruzione di valore.

L’elemento di quel 1990 che più evoca le vicende contemporanee del Vecchio Continente è stato però quello dell’adozione in tempi rapidissimi di un cambio monetario uno a uno, completamente al di fuori dalla realtà economica che vedeva i Marchi “democratici” cambiati a 4,4 volte il valore di quelli “federali”, con la conseguenza di un’incremento dei prezzi del 440% e la totale perdita di competitività delle imprese dell’est.
Si è perpetrato quindi un processo di deindustrializzazione su vasta scala, tutto a vantaggio degli acquirenti occidentali, come non si era mai visto in Europa, se non in tempo di guerra.

Viene da chiedersi come sia stato possibile che i tedeschi orientali, potendo prevedere le conseguenze politiche dell’annessione, non abbiano provato a difendere le loro conquiste tecnologiche e sociali, a contrastare l’ondata di privatizzazioni, la disoccupazione crescente, la de-industrializzazione dei propri Länder.
Ma di fronte ai giganteschi interessi in gioco, la risposta può solo risiedere nella corruzione dei vertici.
Per questo motivo si può tentare di affermare che l’operazione di unificazione è stata essenzialmente economica e si è trattato di fatto di espropriazione che ha rafforzato soprattutto le imprese tedesche occidentali che hanno partecipato alle privatizzazioni delle aziende (dopo averne caricato i debiti sulle spalle del vecchio Stato) e ha permesso alla nomenclatura che guida la Germania odierna un vistoso incremento di peso politico, di cui oggi stiamo pagando le conseguenze tutti noi, altri cittadini dell’Unione.

C’è dunque un mito da sfatare intorno alla Germania e al suo relativo benessere: quello che ci fa parlare dei lavoratori tedeschi come di una sorta di aristocrazia operaia. In Germania, attualmente, i lavoratori a basso salario sono il 24,1% del totale. Ci sono in particolare quasi sette milioni e mezzo di lavoratori che lavorano con i cosiddetti minijobs, ovvero dei lavori a tempo parziale pagati 4/500 Euro al mese. Alla fine del 2012 c’erano in Germania 822mila lavoratori in affitto (numero che è salito a circa un milione due anni dopo). In espansione anche i contratti per prestazione d’opera: contratti di lavoro precario con cui vengono progressivamente ricoperte posizioni professionali tipiche del lavoro dipendente. Questo tipo di contratti si applica oggi al 75%di chi lavora in un mattatoio e al 20% di chi lavora negli zuccherifici e nei cantieri.

La precarietà del lavoro senza dubbio aiuta l’impresa privata e in tal modo contribuisce alla crescita dell’economia, ma anche a quella della povertà.
La percentuale di tedeschi a rischio povertà è in crescita e nel 2013 ha superato il 20% della popolazione.
Ciò contemporaneamente alla polarizzazione della ricchezza nel mondo documentata da Thomas Piketty (nel libro: Le Capital au XXIe siècle) lascia spazio a una domanda filosofica più che economica: è mai possibile che il prezzo dello sviluppo economico non si riesca a non farlo pagare a chi sta peggio?

 

5) TRA SERIO E FACETO:

A PROPOSITO DEL NOTO PRINCIPIO “OPM” (*)


“Ci sono quattro modi per spendere i soldi.
Possiamo spendere i nostri soldi per noi stessi: quando lo facciamo allora stiamo davvero attenti a cosa facciamo e cerchiamo di avere la massima resa per la nostra spesa.
Oppure possiamo spendere i nostri soldi per qualcun altro: per esempio, io ho comprato un regalo di compleanno per una persona; ora, io non ho poi grande interesse per il contenuto del dono, ma sono stato molto attento al costo.
Altra possibilità, possiamo spendere i soldi di qualcun altro per noi stessi: e allora se possiamo spendere i soldi di qualcun altro saremo sicuri che ci scapperà una bella mangiata al ristorante!
Infine l’ultima modalità: possiamo spendere i soldi di qualcun altro per un’altra persona ancora; e se io starò a spendere i soldi di uno per un altro, non sarò più preoccupato di quanti siano, né sarò preoccupato di come li spendo.
Questo è quel che fa il Governo. Ed è circa il 40% del Prodotto Interno Lordo (**).”

(Autore: Milton Friedman)
(*) : other people’s money
(**) : in Italia è più del 50%

 

Con simpatia e fiducia

Stefano L. di Tommaso