Ottobre 2014

LA RIPRESA AMERICANA SI CONSOLIDA

 

 

 

SOMMARIO:

1) IN SINTESI : 1a) La ripresa si ferma oltreoceano?

2) MERCATI FINANZIARI:
2a) Il Successo del Quantitative Easing;
2b) Uno spiraglio di luce in fondo al tunnel.

3) FUNDAMENTALS E DINTORNI:
3a) Per gli Italiani più incertezza e denaro contante.Come previsto da W.Bagehot;
3b) Lo scontro sul TFR.

4) APPROFONDIMENTI :
4a) Dopo la quotazione miliardaria di ALIBABA anche in Italia una piattaforma internet per esportare in Cina;
4b) Investire in Italia oggi nelle aziende quotate all’A.I.M.
4c) Le PMI che battono la crisi

5) INFORMALIA: (Tra serio e faceto): 5a) Il DEF di Renzie

 

1) IN SINTESI:


1a) LA RIPRESA SI FERMA OLTREOCEANO?

Con la fine di Settembre si può finalmente affermare che la ripresa a stelle e strisce è divenuta una realtà.

La disoccupazione negli USA ha finalmente fatto un deciso passo indietro (sotto il 6%) e i numeri pubblicati qualche giorno fa dagli istituti di statistica mostrano un incremento trimestrale di un quarto di milione di posti di lavoro (come dire un milione di posti di lavoro in un anno). La ripresa dunque, dopo il risveglio nel 2013, poi una brusca ricaduta e infine una crescita vorticosa, adesso si consolida e si stima che nel terzo trimestre il P.I.L. americano sia cresciuto di oltre il 4%.

 

 

Ma mentre i mercati applaudono oltre oceano, in Europa persino la Germania mostra segni di incertezza economica e l’Italia conferma che chiuderà anche il 2014 in piena recessione, rinviando sine die la ripresa di consumi e investimenti. La differenza tra le due sponde dell’oceano Atlantico non è mai stata così netta e sembra risiedere tutta nel possente stimolo monetario che da noi è mancato. Il vecchio continente è inoltre spaccato tra nord e sud e ciò genera timori per la continuità della guida della BCE come pure per la Divisa Unica. Insomma: proprio adesso che il barometro internazionale volge al bello, l’Europa si spacca e si contrae, anche a causa di sanzioni economiche imposte dagli americani nei confronti della Federazione Russa e taluni altri Paesi, sanzioni delle quali però fanno le spese gli esportatori europei, che sono anche consumatori di gas e petrolio divenuti più cari.

Ciò si somma ad antichi problemi nostrani di rigidità strutturale della spesa pubblica e del mercato del lavoro, oltre che alla scarsezza di incentivi e capitali per l’innovazione. Il Governo propone riforme e cambiamenti ma più che bugiardo esso sembra impotente, davanti a veti incrociati e conflitti di interesse dell’intera Casta politica nazionale.

Ma siamo sicuri che il nuvolone nero della Disunione Europea prevarrà sul vento di rinnovamento che sta riportando il sereno in tutto il resto del mondo? No. Non ne siamo sicuri. L’auspicio che si può leggere nelle pagine che seguono è che riteniamo che alla fine, a meno di imprevedibili evoluzioni nell’instabilità politica mediorientale e dell’est-Europa, sempre possibili ma relativamente improbabili, anche l’Europa troverà il suo equilibrio.

L’economia globale sembra oggi orientata ad una crescita vigorosa. Trainata dall’estremo Oriente e dall’America, dall’avanzata costante dei BRICS, e rassicurata da una relativa stabilità politica, la crescita economica globale sembra favorire l’interscambio. E mentre l’Euro si avvia a una probabile vorticosa svalutazione che potrà permetterci di esportare e produrre di più senza subire troppo la stagnazione dei consumi interni, se arriverà anche lo stimolo monetario europeo potremo persino godere di una relativa monetizzazione del debito, in un contesto che ancora vede -insieme alla deflazione strisciante- la progressiva discesa del costo dei principali fattori di produzione.
Tutto ciò non basterà a favorire una sana ripartenza dell’industria europea? Io penso di si.

 

(In dettaglio)

2) MERCATI FINANZIARI:

2A) IL SUCCESSO DEL “QUANTITATIVE EASING”


Alla faccia di tutte le cornacchie che presagivano conseguenze catastrofiche alla mossa -ardita ma azzeccata- di USA e Giappone di dare all’economia un possente stimolo monetario, la manovra di può finalmente affermare che ha avuto successo.

Gli stessi stimoli monetari sono stati adottati anche dalla banca centrale britannica e persino dalla banca centrale cinese, mentre in Europa le idee di Draghi in favore di un intervento più deciso sarebbero state già chiarissime, salvo il fatto che un pesante conflitto di interessi tra due blocchi degli Stati membri (nord-Europei contro quelli del sud, Irlanda e Francia comprese) ne impedisce a tutt’oggi il pieno dispiego.

Se infatti una lezione si può trarre dall’esperienza dell’intervento a gamba tesa dei banchieri centrali dopo la crisi della finanza allegra degli anni 2002-2007, essa riguarda certamente l’intensità e la durata del medesimo: quel che oramai pare evidente è che i risultati arrivano solo somministrando a lungo una dose da cavallo di Quantitative Easing. E soltanto lasciando ai banchieri centrali un compito ben più ampio che non quello di sorvegliare l’inflazione (senza il quale la Yellen sarebbe già stata costretta a rialzare i tassi, soffocando sul nascere la ripresa). In assenza di mani forti, tanta perseveranza e molto sangue freddo lo stimolo monetario si è visto chiaramente che non riesce a cambiare il corso degli eventi e tutti gli operatori economici (mercati valutari compresi) -mentre esso viene somministrato- ne attendono con scetticismo i risultati.

 

 

Si può discutere che l’economia americana sia molto più sana e reattiva di quella nostrana a causa della grande elasticità del mercato del lavoro, dei vincoli burocratici e dell’importanza della ricerca tecnologica (che stimola la creazione di tante nuove imprese). Si può discutere del fatto che un mercato dei capitali sano e pervasivo in USA ha letteralmente soppiantato gli istituti di credito nel fornire carburante alla ripresa. Certo sono fattori importanti. Ma non si può negare che nonostante i medesimi anche l’America di era ammalata di eccesso di debito pubblico, di pessimismo e disoccupazione, di deflazione e caduta degl’investimenti, di calo dei consumi e perdita di fiducia. E adesso si è inequivocabilmente ripresa!

Non credo che la notizia sposterà di molto le opinioni di Tedeschi, Finlandesi e altri nord-Europei, non perché siano ciechi, ma perché sotto certe forzature ideologiche esistono interessi pratici che le vicende oltreoceano non modificano granché. Eppure, dopo una prova schiacciante del fatto che l’interventismo può giovare, dopo che la patria del liberismo ha mostrato di sapersi dotarsi anche di grande pragmatismo e ce l’ha fatta, lo scenario oggi è cambiato. I mercati finanziari hanno dimostrato che contano, eccome. Sono stati (con)causa del disastro del 2008 ma sono stati anche il motore della ripresa del 2014. Sette maledetti lunghi anni, nei quali nessuno poteva affermare con certezza di aver capito cosa succedeva all’Occidente. Però qualcuno ha avuto il coraggio di avventurarsi su terreni inesplorati. E ha vinto.

Ai conservatori del nord-Europa non rimane che prenderne atto. E uscire allo scoperto con la lista della spesa dei loro interessi sinora celati dietro i virtuosismi del bilancio nazionale. A tutti gli altri Europei potrebbe convenire pagarne loro il prezzo, tanto nel caso che esso riguardi una accondiscendenza condizionata alle richieste (ad esempio un taglio più deciso della spesa pubblica), quanto nel caso che quel prezzo consista nella rottura definitiva dell’Euro. E mentre il Dollaro continua la sua cavalcata verso la parità con la moneta unica e a noi mediterranei non resta di attendere che qualche effetto arrivi anche da queste parti, l’Euro non può che svalutarsi e quegli stessi Tedeschi da sempre amanti della moneta forte dovrebbero rifletterci: nessun Paese può vincere a discapito dei propri alleati!

Che almeno essi non continuino più a pontificare a proposito del rispetto dei patti di stabilità. Nessuna stabilità potrà mai basarsi su una rovinosa e persistente recessione!

 

2B) DOPO SETTE ANNI UNO SPIRAGLIO DI LUCE IN FONDO AL TUNNEL

È curioso dover notare che proprio adesso che tanta gente è arrivata a prendere atto della crisi del nostro Paese e del degrado conseguito alla lunga recessione, a decenni di corruttela, illegalità diffusa ed eccesso di burocrazia, si inizia a vedere una speranza di ripresa.

Proprio perché siamo precipitati così a lungo, oggi si giustifica qualche cauto ottimismo, auspicando che abbiamo finito di ruzzolare e abbiamo toccato il fondo del fossato. Ma ciò non sarebbe stato logico se le principali economie del mondo non vedessero oggi consolidare una ripresa che può alla fine lambire anche le nostre terre.

Beninteso: noi Italiani dovremo continuare a soffrire ancora per un bel po’. Perché i consumi non riprenderanno presto vigore, le pensioni pubbliche saranno sempre più esigue come pure i servizi sanitari. Perché la corruzione, gli sprechi e il malcostume sono ancora presenti. Ma alla fine ce la faremo e riprenderemo il cammino interrotto sette-otto anni prima.

È possibile infatti che mercato del lavoro cambi da solo, per la necessità della gente di lavorare “ugualmente” e senza la collaborazione di un sindacato che combatte una battaglia di retroguardia (la maggioranza degl’iscritti che sono pensionati). E ad attrarre capitali dall’estero ci sta pensando la deflazione. I prezzi di ogni fattore di produzione, dal lavoro agli immobili, dal valore delle aziende a quello delle concessioni, i prezzi sono tutti in ribasso. I capitali stranieri ne saranno favoriti. Una mano santa perché con il calo dei redditi e dell’occupazione pochi connazionali pagheranno ancora le tasse. Man mano la crisi sta inoltre imponendo sfoltimenti burocratici e la riduzione delle imposte sul lavoro, così che una parte dell’economia sommersa sarà spinta a emergere. Senza poter quasi più ricorrere alla cassa integrazione, l’industria manifatturiera si adatterà a ritrovare competitività vera. E la globalizzazione renderà sempre più transnazionali le piccole e piccolissime imprese, che nel nostro Paese si renderanno visibili soltanto a condizione di essere aiutate e rispettate.

Un’illusione? Forse una forma nuova di rassegnazione, o inguaribile ottimismo? Nient’affatto.

 

 

L’osservazione dell’evoluzione delle principali variabili macroeconomiche (e il parallelo tra quelle variabili e l’incerta ma non negativa situazione geo-politica) che in passato ci ha fatto presagire una crisi profonda, oggi ci fa ritenere di scorgere un orizzonte di ripresa, seppur lenta e non uniforme.

Da un lato infatti la misura è colma delle tante assurdità italiane, del malcostume dilagante e della pochezza del denaro in circolazione. Una serie di ingiustizie e vessazioni perpetrate nei confronti degli operatori economici, dei risparmiatori, di tutti noi usufruttori dei numerosissimi disservizi pubblici, presto “dovranno” terminare, perché la gente è pronta a scendere in piazza (come ha mostrato il fenomeno dei grillini) anche nei confronti di chi faceva finta di difendere le classi più deboli mentre non voleva altro che mantenere lo status quo ante.

Dall’altro lato esistono numerosi motivi che potrebbero farci rivedere il segno positivo: il sempre più basso costo del lavoro potrebbe far riaffiorare forzosamente la produttività; la molla dell’innovazione di prodotto potrebbe scattare in più di un caso anche in Europa, quantunque ciò possa accadere più per la necessità che aguzza l’ingegno che per merito delle Università (spesso carrozzoni di sperpero) o dei numerosi Enti di Stato (che fingono di condurre ricerche di base)! La deflazione e la ridottissima circolazione di moneta deprimono i consumi ma potranno aiutare a ridurre il costo dei fattori di produzione, aiutando chiunque conduca un’attività economica a cercare nuove efficienze e nuove iniziative. E infine non è nell’interesse dell’intero Occidente il lasciarci precipitare verso livelli africani di povertà e permettere così che le nostre coste divengano covi permanenti di trafficanti e terroristi, che userebbero l’Italia come piattaforma per il resto d’Europa.

Il mercato internazionale dei capitali è notoriamente florido e attento alle opportunità di guadagno che possono presentarsi, anche quelle basate sul nostro territorio. Perciò esso potrebbe anche riuscire nell’impresa sino ad oggi impossibile di sostituire le banche nel finanziare le imprese italiane per gli investimenti che generano occupazione, così com’è accaduto già trent’anni fa in America e come sta succedendo da qualche tempo in Germania! E se le imprese nostrane troveranno nuove fonti di finanziamento allora forse riusciranno anche a inventare il modo di rinnovarsi.

Insomma, come già sta accadendo in Spagna e in Grecia, forse anche noi Italiani ci risolleveremo, sebbene condannati a pagare ancora a lungo il fio delle nostre colpe e di quelle dei nostri padri, con scarso reddito disponibile e deflazione a lungo permanente. Così come gli altri Paesi che hanno subìto l’annosa presenza di governi-canaglia.


3) “FUNDAMENTALS” & DINTORNI

3A) NEGLI ULTIMI SETTE ANNI PER GLI ITALIANI TANTA INCERTEZZA E PIÙ DENARO CONTANTE, COME DEL RESTO PREVISTO DALLA TEORIA CLASSICA DELL’ECONOMIA DI THORNTON E BAGEHOT


 

Con il futuro più incerto dai tempi del dopoguerra, gli Italiani che risparmiano oggi preferiscono la liquidità. Con un italiano su tre che é povero o teme di diventarlo a breve, la cautela ha preso il sopravvento.

Secondo il Censis Il valore di contanti e depositi bancari è aumentato di 234 miliardi di euro negli ultimi 7 anni e le consistenze liquide sono passate in totale dai 975 miliardi di euro del 2007 a 1.209 miliardi nel 2014, con un incremento del 9,2% in termini reali e costituiscono il 30% del portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie mentre era solo il 25% nel 2007.

Negli ultimi sette anni sono aumentati anche gli accantonamenti in assicurazioni e fondi pensione: +125 miliardi di euro (+7,2%). Le polizze vita sono tornate ad essere un “salvadanaio”: i premi raccolti sono aumentati da 63,4 miliardi di euro nel 2007 a 86,8 miliardi nel 2013 (+21,3% in termini reali).

Da metà 2012 si registra un’inversione di tendenza nella riduzione dei risparmi, che hanno ripreso a crescere e dal 2014 la propensione al risparmio e’ salita dal 7,8% al 10%, a fronte di una riduzione del reddito disponibile.
Tra le motivazioni degli Italiani 44% risparmia per far fronte ai rischi sociali, di salute o di lavoro, il 36% perché è il solo modo per sentirsi sicuro, il 28% per garantirsi una vecchiaia serena.

Dunque i consumi si stanno oggi riducendo più che proporzionalmente a causa dell’incertezza relativa a lavoro, pensioni, sanità, sicurezza e istruzione. Che sarebbero guarda caso le principali voci di spesa dello Stato!

Oggi infatti non solo il 33% degli italiani teme di diventare povero: ma soprattutto solo il 30% sente di avere le spalle coperte per sanità e pensioni, mentre la stessa percentuale sale al 58% in Spagna, 61% nel Regno Unito, 73% in Germania e 74% in Francia.

Tutto scontato, si direbbe. Se non fosse che delle statistiche così importanti che denunciano il degrado della funzione pubblica in Italia, passano in sordina sui media nazionali, mentre si indignano per Schettino o per un parente di Alfano mandato a gestire i centri d’accoglienza a Lampedusa.

 

      

 

In verità quello la caccia alla liquidità è un fenomeno descritto addirittura dalla prima Teoria Generale dell’Economia, cui hanno contribuito due grandi intellettuali inglesi del 1800: Henry Thornton (unanimemente definito come il fondatore dell’economia monetaria) e Walter Bagehot (il primo direttore dell’autorevole rivista “The Economist”). Entrambi erano particolarmente interessati a individuare le cause di improvvisa riduzione della moneta in circolazione a seguito di una crisi poiché, ben prima di John Maynard Keynes, essi intuivano che l’ondata di deflazione che poteva derivare da uno dei tanti scossoni dei mercati finanziari (all’epoca più frequenti che oggi) avrebbe potuto essere sufficiente a frenare stabilmente l’economia reale. La grande depressione del 1929-38 ne fu prova, come pure ai giorni nostri, in cui abbiamo di nuovo sperimentato lo spettro della deflazione.

Secondo la “teoria classica” se i prezzi dei fattori di produzione non si riallineano rapidamente a livelli più bassi che permettono un nuovo livello di equilibrio, la produzione industriale si riduce, innescando una spirale recessiva di riduzione di investimenti e posti di lavoro che si autoalimenta. Per contrastarla bisogna immettere in circolo abbastanza denaro quanto se ne volatilizza con il (de)moltiplicatore del credito e con le aspettative negative degli operatori. Thornton e Bagehot già quasi due secoli fa affermavano con decisione che soltanto un soggetto poteva efficacemente prevenirne i disastri: il “prestatore di denaro di ultima istanza”: la Banca Centrale.

E cosa è successo negli U.S.A. che non poteva invece avvenire nell’U.E.? Che la Federal Reserve è pesantemente e prontamente intervenuta pompando denaro, mentre l’analoga istituzione in Europa -la BCE- non ha potuto farlo, a causa dei veti incrociati dei Paesi del Nord, ossessionati dal rigore fiscale e dal timore di farle comperare titoli di Stato-spazzatura.

In particolare fu Walter Bagehot già direttore dell’Economist da un decennio e autore del secondo più importante contributo alla “Teoria Classica”, nel suo libro “Lombard Street” del 1873, a supportare a le tesi del fondatore Thornton, specificando e enfatizzando ben oltre quanto affermato da quest’ultimo la necessità di dosi massicce di credito agli operatori economici “whenever the security is good” (che la loro garanzia collaterale risulti valida o meno). Nulla di nuovo sotto il sole.

 

3B) A PROPOSITO DELLO SCONTRO SUL TFR

Il Governo e il suo ministro Poletti auspicano che le aziende, anziché accantonarlo per la cosiddetta “liquidazione” quando un dipendente va in pensione, lo pagassero subito in busta paga, magari a rate, magari finanziandolo con appositi prestiti bancari (ovviamente più cari perché assimilabili al capitale di rischio).

 

Ma gli imprenditori si oppongono. E anche a ragione.

La storia del TFR è che fu istituito con la Carta del Lavoro nel 1927; le aziende da allora accantonano ogni anno una mensilità il cui totale rivalutato viene consegnato al dipendente all’atto del pensionamento, o licenziamento, o dimissioni (in questi ultimi due casi, però, dopo almeno otto anni lavorativi). Quel gruzzolo è sempre stato usato dalle imprese come capitale proprio o quantomeno come finanziamento a lungo termine. Non è mai stato richiesto alle aziende di accantonare un’apposita posta dell’attivo di bilancio a tutela dei dipendenti. Nel 1982 si costituisce poi anche il Fondo di Garanzia Nazionale, presso l’Inps per ridurre il rischio di perdere i soldi accantonati per conto dei dipendenti in caso di fallimento dell’azienda. Nel 2005 venne infine istituita la “previdenza complementare”: i lavoratori possono oggi scegliere se far confluire il denaro del loro TFR in appositi Fondi Integrativi di Pensione e dal 2007 le aziende con più di 50 dipendenti sono state obbligate a versare il TFR in un apposito Fondo gestito dall’Inps, dunque di nuovo allo Stato, che non lo ha saggiamente investito, bensì lo ha aggiunto agli altri suoi debiti che nessuno rimborserà.

Per molti dipendenti delle aziende private sarebbe certo preferibile incassare di volta in volta la propria quota del TFR. Depositarla in appositi fondi pensione oppure farne l’uso che crede. E al Governo che cerca col lumicino fonti finanziarie per alimentare la ripresa dei consumi, “converrebbe” (in ottica demagogica) che il TFR venisse erogato subito in contanti affinché la gente ne spenda (o investa) almeno una parte, aumentando gli ordinativi manifatturieri.

Ma alle aziende con meno di 50 dipendenti, ciò spesso non è possibile, nell’attuale momento di generale ristrettezza finanziaria. Per erogare direttamente al dipendente i soldi del TFR esse sarebbero costrette ad indebitarsi ulteriormente con le banche in una situazione di già limitata capitalizzazione e ancor più limitati flussi di cassa, a causa della deflazione e della ridottissima velocità di circolazione del denaro. Nasce perciò un confronto sul lavoro tra demagoghi e (piccoli) imprenditori che non ha nulla di sano.

Io sarei anche d’accordo con il Governo circa la necessità di mettere in circolo più denaro a qualsiasi costo, ma guardando al futuro, non al passato. Le fabbriche di oggi sono come l’agricoltura di ieri: se esse non producono nessuno mangia!

Gli occupati italiani nel comparto manifatturiero sono poco più del 7%. Tutti gli altri sono pagati dalla pubblica amministrazione, o fanno commercio e servizi. Più della metà del PIL è denaro speso per pensionati, scolari, militari e poliziotti, giudici, medici politici, spazzini. Quella metà deve tornare ad essere al massimo un terzo del totale (e già non è affatto poco) come ad esempio in Germania, poiché oggigiorno se si cerca la qualità nelle scuole, nella sanità, nell’ambiente, nella sicurezza, nella giustizia (quella civile: gli arbitrati) non resta che pagare quei servizi ai privati. Quelli della Pubblica Amministrazione sono di quart’ordine.

La strada maestra per rilanciare l’economia perciò non è sperare che una società civile già sufficientemente disastrata spenda in consumi di beni principalmente stranieri anche il suo TFR: bensì auspicare che tutti coloro che possono (Unione Europea, Governo, Regioni, Imprenditori italiani e stranieri, Investitori, Consorzi e Cooperative…) effettuino nel complesso adeguati investimenti -infrastrutturali e produttivi, ma anche turistici, commerciali, e culturali- per costruire un futuro vero per l’Italia. Per investimenti che aiuteranno ad assorbire i posti di lavoro perduti dalla P.A. e dalle fabbriche decotte, per realizzare un nuovo alveo di soggetti che producono, inventano, innovano e fanno design, per riuscire a mostrare il nostro Paese al resto del mondo per quella che è sempre stata la vocazione collettiva di arguti innovatori, produttori di eleganza, intelligenza e “buon vivere”!

Però, affinché tutti si mettano a investire bisogna attrarre capitali, favorirne fiscalmente i redditi, creare semplificazioni e facilitazioni, contribuire con le infrastrutture e con adeguata normativa, limitare le restrizioni al mercato del lavoro, le burocrazie e le pastoie della politica, sino a pavimentare la strada da cui passeranno le carovane degli investitori e imprenditori (italiani ed esteri), senza i quali nessuno assumerà nessuno, nessuno avrà denaro da spendere, nessuno vorrà restare in un Paese senza futuro.

È chiaro perciò che sono gli investimenti, non i consumi, quelli che potrebbero pavimentare la strada per una ripresa “sana” e non “momentanea”. E in un Paese molto indebitato come il nostro essi non possono arrivare dalla Pubblica Amministrazione, bensì da imprese e imprenditori, a condizione che se ne creino le condizioni.

Ma ciò richiederebbe ai politici di oggi tanto coraggio e ben poca demagogia. Se questo Governo sarà capace di mostrarne, allora le cose potranno andare molto meglio e molto in fretta. Se invece darà retta ai dinosauri di una politica e di un sindacato che non esistono più nella vita reale, dovremo prima o poi fare tutti le valigie. Tornare a emigrare come un secolo fa, anche per trovare scampo dagli africani che ci invadono.

 

4) APPROFONDIMENTI:

4A) DOPO LA QUOTAZIONE MILIARDARIA DI ALIBABA ARRIVA IN ITALIA CCIGMALL: LA PIATTAFORMA ELETTRONICA PER ESPORTARE IN CINA

 

Con CCIG Mall “abbiamo voluto creare una piattaforma regolare, etica, trasparente”. Con queste parole Madam Guo Hong, presidente di Century International Group, ha aperto a Milano la conferenza stampa di presentazione di CCIG Mall, piattaforma globale di e-commerce che vuol portare le aziende italiane alla conquista del mercato cinese.

“Il desiderio è quello di fare in modo che i prodotti di alta qualità italiana arrivino in Cina”. “CCIG Mall”, ha proseguito, “è stata creata perché, dopo l’ingresso della Cina nel Wto, con l’Italia e con l’Ue non esiste una bilancia commerciale equilibrata. E questo non perché i prodotti italiani non abbiano appeal in Cina”. E ancora: “L’investimento totale e’ stato di 1 mld euro” ha concluso Guo Hong.

Han Tony, senior vice president, Century Fortunet Limited, ha poi aggiunto che “la piattaforma sarà operativa dal prossimo 27 ottobre, da quella data inizieremo ad accettare e processare gli ordini”. “Sulla piattaforma ci saranno solo prodotti al 100% Made in Italy. Dopo che le imprese saranno caricate sulla piattaforma, il secondo passo sarà quello di raggruppare gli ordini, poi ci sarà un feedback e infine l’archiviazione dei dati. Abbiamo costruito più di 30 filiali per migliorare il nostro servizio”. E ha concluso: “la nostra percentuale dipendera’ dal prodotto”.

L’ambasciatore Li Ruiyu: “un modello di business molto innovativo. Il Made in Italy è molto importante e popolare in Cina”.

CCIG, ha proseguito LI Ruiyu, “ha una grande prospettiva di sviluppo. Noi (cinesi) abbiamo investito (di recente) più di 5,7 mld euro in Italia e questo è un segnale di fiducia nei confronti del vostro paese. CCIG Mall è una nuova strada per il commercio tra l’Italia e la Cina e sono convinto che porterà energia e beneficio alle popolazioni”.

“Massimo supporto da Bank of China a CCIG Mall affinché l’interscambio tra Italia e Cina sia il più prospero possibile”. Lo ha affermato Bian Jidong, general manager della filiale milanese della Bank of China. “Bank of China”, ha ricordato Bian Jidong, “è una grande banca commerciale. Dal 2013 ha una sede anche a Milano, oltre che a Roma. L’Italia è considerata il regno delle pmi e la banca ha cercato di fare il massimo possibile per dare loro dei servizi di qualità. Offre diversi prodotti e aiuta le aziende a condividere le informazioni per poi siglare accordi. Per questo la nostra banca è stata quella più scelta tra le aziende italiane per gestire gli affari in Cina e siamo diventati affidabili nell’accompagnare le aziende cinesi all’estero”.

I protagonisti che hanno realizzato l’iniziativa sono Century Fortunet Limited e Class Editori attraverso la controllata “China Class e Commerce” (CCeC).

Il Gruppo Cremonini è stato il primo a concludere un accordo con Class Editori per entrare nel capitale di CCeC, acquisendo il 5% della società. Esso contribuirà alla gestione della partnership a livello operativo attraverso la controllata Inalca Food&Beverage (IF&B Srl).

 

A regime la piattaforma CCIGMall darà accesso a quasi 3 milioni di negozi (che comprenderanno non solo quelli tradizionali, ma anche alberghi, ristoranti, comunità, club del golf o del tennis e altre attività) e questi si rivolgeranno a 1,4 miliardi di potenziali consumatori cinesi cui offrire i prodotti italiani. L’obiettivo è quello di aumentare contatti e ricavi puntando sulla semplificazione della catena distributiva.

Si stima che al 2020 il volume d’affari sarà di circa 100 miliardi di dollari e di questa fetta l’Italia rappresenterà presumibilmente il 15%, anche grazie al fatto che attraverso CCeC l’Italia è il primo paese, degli otto selezionati, a poter accedere alla piattaforma di e-commerce (già oggi il mercato dell’e-commerce cinese è il primo al mondo per volume di transazioni). Tutto dipenderà naturalmente dalla fiducia che gli imprenditori italiani riporranno in questo nuovo strumento.

Le aziende selezionate non hanno limite dimensionale ma devono proporre prodotti ideati e realizzati in Italia, già in commercio, da vendere in esclusiva per la Cina sul canale e-commerce oppure possono offrire nuovi prodotti studiati appositamente per la piattaforma.

L’iniziativa è sostenuta da Bank of China (la principale istituzione finanziaria internazionale cinese), China Telecom (azienda leader nelle tlc), China Union Pay (il più grande operatore di carte di credito al mondo), China Merchants Bank (la principale banca commerciale cinese) e il China Council for the promotion of International Trade, la società che gestirà anche i quattro padiglioni cinesi presenti all’Expo 2015.


4B) INVESTIRE IN ITALIA OGGI NELLE PMI ITALIANE QUOTATE ALL’A.I.M. :

Il Belpaese è in recessione, ma Piazza Affari corre, il patrimonio dei fondi comuni è a livelli record e gli investitori stranieri iniziano a muoversi (per adesso più sulla carta) con approfondimenti e analisi su titoli italiani e prodotti di investimento sul Bel Paese, con particolare attenzione al settore del lusso.

Ora, se guardiamo le statistiche economiche, l’Italia è senza dubbio malata. L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha tagliato le stime di crescita a -0,4% nel 2014. Il Belpaese è l’unico in recessione tra le grandi economie del mondo, mentre il Prodotto Lordo Globale quest’anno crescerà oltre il 3%. Come non bastasse la produzione industriale italiana è regredita ai livelli del 1988, gli investimenti in edilizia a quelli del 1967 e la propensione al risparmio non è mai stata così bassa dagli anni precedenti la Seconda guerra mondiale. Molti sembrano ancora i fattori che ostacolano l’uscita dalla crisi.

Se è vero che l’Italia è in recessione, però il calo del numero degli occupati, che proseguiva dalla seconda metà del 2012, si è pressoché arrestato nell’inverno scorso, anche se poi, (per effetto dell’incremento della partecipazione al mercato del lavoro) la disoccupazione sembra ancora in aumento. Negli ultimi mesi la BCE ha adottato misure espansive che dovrebbero favorire il mercato del credito e si sono ridotti gli spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi. Infine oggi il mercato finanziario scommette sulle riforme strutturali di Renzi, purché siano portate a termine in tempi rapidi.

Le notizie positive non mancano infatti nel settore finanziario. La propensione al risparmio delle famiglie si sta comunque risollevando dai minimi recenti e il patrimonio gestito dall’industria dei fondi ha toccato a luglio i 1.480 miliardi di euro, nuovo massimo storico (Assogestioni). L’indice di Borsa FtseMib ha guadagnato non poco anche dall’inizio del 2014, facendo meglio dell’Eurostoxx 50. Borsa italiana è leader in Europa nel segmento degli Etp (Exchange traded product) per contratti conclusi su piattaforma elettronica e a fine giugno gli “asset under management” hanno raggiunto un nuovo record storico attestandosi a quota 29,438 miliardi di euro con un aumento del 41,70% rispetto a giugno 2013 (dati Borsa italiana). Gli investitori stranieri sono insomma tornati massicciamente a puntare sul Belpaese e hanno lanciato nuovi Etf sugli indici italiani. Alcuni fondi specializzati su Piazza Affari hanno chiuso temporaneamente le sottoscrizioni per l’eccesso di aumento delle masse.

Green economy, media e soluzioni digitali sono i settori più rappresentati sull’A.I.M. (52% del totale), il mercato alternativo di Borsa italiana nato il 1 marzo 2012, in cui sono quotate 54 società di piccola e media dimensione e alto potenziale di crescita, per un fatturato complessivo di 2,6 miliardi di euro e una capitalizzazione totale di due miliardi (dati IR Top al 7 agosto 2014). Briciole rispetto all’indice principale di Piazza Affari, ma il paniere è più diversificato e include alcune eccellenze produttive. In media, le società quotate all’A.I.M.hanno un fatturato di 27 milioni, un flottante del 24% e una capitalizzazione di mercato di 36 milioni. I business sono innovativi. 14 aziende, che rappresentano il 28% del totale, operano nel cosiddetto settore dell’economia verde, nella maggior parte dei casi appartengono al segmento delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, ma ci sono anche industrie e distributori di prodotti biologici e società finanziarie green. Il 24% del mercato A.I.M. è invece rappresentato dall’industria digitale e dei media, con realtà fortemente innovative specializzate in settori come il cloud computing, il bartering pubblicitario, il marketing digitale e il web advertising. La finanza rappresenta il 20%, con società di consulenza, specialisti dI situazioni di crisi, piccoli incubatori di start up, investitori in public equity (Pipe), Spac (Special purpose acquisition company), ossia aziende specializzate nella raccolta di capitali per effettuare fusioni o acquisizioni di aziende, e persino compagnie assicurative e operatori immobiliari. Esistono infine una serie di imprese che rientrano nella categoria “prodotti e servizi” e che rappresentano il 13% del totale. Tra queste, alcune sono di intrattenimento e divertimento, altre di moda, cinema, editoria e franchising. Infine, il 9% è costituito da aziende tecnologiche e delle comunicazioni, specializzate in infrastrutture per l’industria, sistemi di certificazione, software semantici per la gestione delle informazioni e Internet mobile.

Dall’analisi dell’Osservatorio IR Top nell’azionariato delle società AIM Italia sono presenti 63 investitori istituzionali (a giugno 2014) con 115 partecipazioni: il 42% delle società presenta almeno 2 investitori nel proprio capitale, mentre il 22% ha oltre 4 istituzionali nella compagine societaria. Tra le società di gestione più attive in questo segmento ci sono Zenit Sgr, con una decina di titoli, Lemanik SA (6) e Nextam Partners. Seguono Anima Sgr, Sella Gestioni Sgr, Arca Sgr e Kairos Partners Sgr con quattro partecipazioni (dati a luglio 2014). Tutte le società negoziate sull’AIM fanno parte dell’indice Ftse AIM Italia, istituito il 1° luglio 2013. Da gennaio ad agosto, le Ipo sono state 18 contro un totale di 15 per l’intero 2013.

 

4C) LE PMI CHE BATTONO LA CRISI

Le Pmi che prosperano di questi tempi sono fortemente rivolte all’estero, alla digitalizzazione dei processi e all’innovazione. Senza tralasciare la qualità. Sono più di 300 le piccole e medie imprese che, in mezzo alla crisi, sono riuscite a crescere a un ritmo tre volte superiore (+10%) rispetto alla media (del 3%), che hanno raddoppiato il reddito operativo negli ultimi cinque anni (+19% medio rispetto al 3% generale) e che hanno migliorato la solidità finanziaria.

 

 

A dirlo è l’Osservatorio Pmi 2014, un’indagine che Global Strategy ha condotto sulle oltre 40mila imprese italiane manifatturiere e di servizi che compongono il tessuto economico e industriale italiano. Di queste, circa otto mila nel 2012 hanno registrato un fatturato tra i 20 e i 250 milioni di euro, ma solo 327 sono state capaci di ampliare il gap di performance rispetto ai principali indicatori finanziari e patrimoniali (rapporto Posizione finanziaria netta/Ebitda: 0,4% contro il 2,6% del resto delle Pmi nel 2012 e un ritorno sugli investimenti nel 2012 pari al 12,1%). Esse realizzano quasi il 40% del loro fatturato all’estero e prevedono di incrementare tale quota nei prossimi tre anni (mediamente del 9%). Hanno la volontà di aggredire nuovi mercati (per il 14%) e di sviluppare nuove iniziative sul prodotto (24%). L’aspetto dimensionale dell’azienda però fa la differenza. Per esempio: le aziende inferiori ai 50 milioni di euro di fatturato faticano di più nell’export e tendono a focalizzarsi su mercati più vicini (quelli europei e mediterranei).

La concentrazione geografica delle Pmi eccellenti è soprattutto nel nord Italia (73%). Il nord-est, così come il Sud, ha livelli di crescita inferiori alla media nazionale (3,8% e 2,7% contro il 4,1%). In controtendenza il centro Italia, che risulta essere l’unica zona che vede un aumento di nuovi inserimenti (5,3%).

Lo sviluppo di piattaforme digitali potrebbe rappresentare un valido supporto per la crescita internazionale. Ne è convinto il 73% degli imprenditori (questa percentuale supera l’80% per le aziende più piccole) perché permetterebbe di tornare a puntare su brand e prodotto, incrementandone la diffusione e semplificando al contempo la struttura commerciale e le prassi manageriali si sono rinnovate. Non più solo attenzione al marchio di fabbrica, ma capacità di previsione e adattamento all’andamento dei mercati. I risultati dell’indagine non a caso mostrano che il 75% delle Pmi eccellenti sono proprio quelle che hanno guardato alla crisi dei mercati in chiave strategica, con un incremento rispetto al periodo pre-crisi di oltre 30 punti percentuali.

Infine il brand non basta più. L’espansione oltre i confini nazionali aumenta la competizione tra prodotti e lavorare solo sull’immagine non è più sufficiente. I canali digitali possono essere la soluzione, nonostante in Italia ci sia ancora un approccio rudimentale. Il 93% delle aziende che crescono ha un sito in almeno due lingue, il 46% è presente su un social media, ma solo il 15% vende online. Non manca la consapevolezza di crescere su questo fronte: quasi tutte le società dichiarano di voler destinare nei prossimi tre anni il 15% del budget allo sviluppo di e-commerce avanzati, di software per la gestione condivisa di dati e per l’ottimizzazione della supply chain.

 

5) TRA SERIO E FACETO:

5A) IL DEF DI RENZIE


 

dal Vhangelo sehondo Matteo:

“Oramai, tranne pohi dettagli he interessano du’ bischeri di ehonomisti, il mi’ DIÈEFFE l’è tuttho hiaro. Per la hopertura delle spese e’ funziona hosì: l’aumento di busta phaga il budgette lo piglia dallo sgravio fiscale, lo sgravio fiscale lo piglia dal CCottarèlli, il Cottarèlli lo piglia dalle privatizzazzioni, le privatizzazioni lo pigliano dalla venditha dell’immobili, l’immobili lo pigliano dalla lihuidazzione dell’enti ‘nuthili, l’enthi inuthili lo pigliano dal taglio delle province, il taglio delle province lo piglia dal taglio delli stipendi de’ dirigènti phubblici, i dirigenti phubblici lo prendano dal prepensionamento dell’anziani, l’anziani lo pigliano da’ giovani he l’anno preso dall’aumentho in busta pagha. Il problema è ‘un èsse l’ultimo a pigliàllo, ma ‘un si pole fa contenthi tutthi, no?”

(autore: Alberto Castelvecchi)


Un caldo Autunno a tutti!

Stefano L. di Tommaso