ALLA RICERCA DEL CREDITO PERDUTO

Con l’arrivo della crisi le aziende che hanno potuto hanno giocoforza rinviato gl’investimenti (con evidente grave danno per l’occupazione e lo sviluppo del Paese). Per la recessione, il deteriorarsi della qualità del credito, per i mancati rimborsi di quello concesso in passato e per molti altri motivi, le banche hanno chiuso i rubinetti e molte aziende non hanno potuto fare altro che aspettare tempi migliori per ottenere nuovi finanziamenti, gestendo -come possibile- il rimborso delle rate che nel frattempo andavano in scadenza.

 Confindustria e Governo non se ne sono stati con le mani in mano: la moratoria convenuta con l’ABI (Avviso Comune) ha consentito alle banche di non contabilizzare maggiori sofferenze in attesa di tempi migliori (che nel frattempo non stanno ancora arrivando), oltre che di ricevere significativi sgravi fiscali a fronte della concessione di prolungamenti dei mutui e finanziamenti in essere.

Il nodo però sembra oggi essere giunto al pettine perché -giunti oramai a ridosso del 2014- quei finanziamenti che sono stati in passato oggetto di moratoria, dovrebbero riprendere il loro normale ritmo, fatto di rimborsi delle rate di capitale e di nuove erogazioni bancarie in parziale sostituzione delle linee di credito in scadenza.
Tuttavia in questo periodo le aziende italiane hanno generato ben poca nuova liquidità per onorare le loro rate (quando non sono proprio finite in rovina!) e le banche italiane (quelle straniere sono quasi tutte sparite) non hanno perciò ottenuto i rimborsi che permetterebbero loro di erogare nuovi finanziamenti.

I vari strumenti di rifinanziamento delle banche centrali (tra le quali la BCE) puntano tutti a creare nuova liquidità da introdurre nel sistema in sostituzione di quella non più disponibile a causa della recessione in corso, ma nel caso delle banche italiane questi sono stati appena sufficienti alla sottoscrizione da parte delle banche stesse delle ingenti masse di titoli pubblici che scadono, dietro forte “moral suasion” della banca centrale.
Restano pochi spiccioli a favore dell’economia reale.
Dunque non sarà questo sistema bancario (stretto anche da problemi di capitalizzazione delle perdite su crediti) a finanziare l’eventuale ripresa del 2014, nè tantomeno a finanziare la necessaria espansione internazionale delle imprese italiane!

È un cane che si morde la coda poichè, mentre ne soffrono gli investimenti e, con essi: le innovazioni, l’occupazione, il reddito disponibile, anche la qualità del credito in essere decade con le ristrettezze finanziarie che ne derivano alle aziende.

Oggi non si fa che parlare dei Mini Bond quale nuova panacea per i suddetti problemi, ma non ci si rende conto a sufficienza del fatto che per molte aziende emetterli non sarà affatto facile quanto lo è stato qualche anno fa ottenere un mutuo in banca!
In quanto sottoscritti dai privati, i Mini Bond sono uno strumento che appartiene di diritto al mercato dei capitali, mercato che ha le sue regole e le sue preferenze.

Innanzitutto il volume dei Mini Bond che si stima verranno sottoscritti nel corso del prossimo anno non corrisponderà che a qualche goccia di pioggia nel deserto del credit crunch: i nuovi requisiti di capitalizzazione dovuti a “Basilea III” e i crescenti problemi di incaglio delle posizioni creditizie del passato si stima che faranno flettere i prestiti bancari erogati a famiglie e imprese nel corso del prossimo anno di almeno €100miliardi!
Un’enormità, a fronte della quale non basterà il più roseo successo di nuovi strumenti come il Minibond per porre riparo.
Si stima infatti che -qualora dovessero diffondersi- gli investitori (necessariamente non privati) su questi strumenti non sottoscriveranno più di €50 miliardi di erogazioni nel corso del 2014.
Dunque i Mini Bond non saranno mai sufficienti a coprire il “buco” finanziario che trattiene l’industria nazionale dal ritrovare la strada della crescita.

In secondo luogo, se i Mini Bond sono uno strumento che viene sottoscritto dal mercato dei capitali, bisogna chiedersi quali aziende potranno davvero accedere a tale mercato, e con quali procedure, perché esso in Italia è un segmento molto ristretto del mercato finanziario, tanto a causa della storia recente che ha visto prevalere gli istituti bancari su tutti gli altri intermediari, quanto per la costante fuga di capitali che caratterizza la nostra economia: in recessione da anni e saccheggiata dal fisco più vorace del pianeta.

Eppure quella del mercato dei capitali sarà sempre più la strada maestra per dare risposta alle esigenze finanziarie delle imprese.
Esattamente come le emissioni azionarie, anche le emissioni obbligazionarie sono normalmente sottoscritte da investitori istituzionali, da grandi gestori del risparmio, fondi pensione e organismi di investimento collettivo.  Perciò seguono le stesse logiche del capitale di rischio.
Dunque gli stessi investitori che potranno sottoscrivere i Mini Bond sono normalmente avvezzi a valutare di entrare nella compagine azionaria delle imprese, anzi: i capitali di rischio sono gli unici che permettono alle imprese di solidificarsi, crescere ed essere monitorate dagli analisti finanziari affinché esse creino davvero valore (e, se vi riescono, ciò non vale soltanto per gli azionisti).

Ma per accedere al mercato dei capitali le imprese devono fornire elementi informativi completi, come il piano industriale e la certificazione di bilancio, che costituiscono la norma su quel mercato, tanto quanto per la Borsa Valori. 
Molte imprese non sono attrezzate per l’opportuna informativa e molte altre sono troppo legate a logiche strettamente familiari, per poter risultare davvero appetibili al mercato dei capitali!

È il dramma delle aziende italiane, oramai rimaste a secco di liquidità autogenerata e dunque alle prese con il pressante vento della globalizzazione, ma non ancora pronte a dispiegare nuove vele per navigare intorno al globo e trarne profitto.

Accedere ai ricchi “forzieri” del mercato dei capitali non è complicato ma neanche scontato!
La “chiave” sta nella capacità delle imprese di mostrare di avere un vantaggio competitivo, buone capacità di pianificazione e controllo dei rischi, nonché redditività e generazione di cassa.
Fattori che insieme permettono di crescere e generare valore per azionisti, obbligazionisti e lavoratori!

Molto spesso perciò è la pianificazione strategica e finanziaria la risposta “organica” da fornire alle richieste degli investitori per ottemperare alla necessità di ottenere da questi ultimi le risorse finanziarie, mostrando di generare ricchezza attraverso l’uso intelligente delle risorse medesime.
Fare ciò tuttavia significa andare contro il diffuso andazzo che indica nell’esprimere in bilancio un’adeguata redditività, un problema per la riduzione del carico fiscale e nell’accollo delle spese personali sul bilancio aziendale la via maestra per minimizzare il reddito personale imponibile.

Fornire risposte alle richieste informative degl’investitori significa inoltre “certificare” il bilancio e investire nella struttura amministrativa, nel controllo di gestione e nella pianificazione strategica,  risorse economiche che potrebbero essere invece destinate alla produzione.

È in parte un tema di diversa mentalità rispetto al passato, che contempla tra l’altro la separazione della proprietà dalla gestione aziendale e di questa dalle direzioni operative, mentre in altra parte è un problema dimensionale per le imprese: quelle più piccole hanno maggiori costi nel soddisfare le esigenze informative del mercato dei capitali.
Eppure le imprese che ci sono riuscite mostrano performances ben superiori alle altre! E trovano le risorse per gli opportuni investimenti, capitale di rischio compreso, che difficilmente potrà essere solo appannaggio delle famiglie degl’imprenditori.

In passato era una questione di scelte: molte aziende sceglievano di restare “famigliari” per massimizzare gli interessi del nucleo imprenditoriale. Poi è arrivato il vento della globalizzazione, dell’apertura dei mercati, della competizione internazionale, ivi compresa la competizione per accaparrarsi le risorse finanziarie che il mercato dei capitali può mettere a disposizione delle imprese migliori.
E contemporaneamente il sistema nazionale del credito è collassato, incapace oggi di erogare abbastanza liquidità per tutte le esigenze delle imprese.
Dunque oggi è divenuto giocoforza confrontarsi con il mercato dei capitali, per cercare l’alternativa. Per le imprese di questo decennio non è più una scelta di vita, bensì piuttosto di vita o di morte: senza risorse le imprese muoiono, oppure si fondono tra loro, o si riducono fortemente in termini dimensionali (pregiudicando molto spesso in questo modo la capacità di sopportare i necessari investimenti e il costo dei canali distributivi di cui avrebbero bisogno).

C’è da aspettarsi insomma che molte più imprese -nel corso dei prossimi anni- si affacceranno al mercato dei capitali. Ma se la previsione circa la domanda di capitali appare chiara, non altrettanto possiamo dire sul fronte dell’offerta dei medesimi!
Da dove arriveranno questi nuovi capitali? Il sistema-Paese dovrebbe porgersi in modo organico questa domanda per evitare che, in mancanza dei medesimi, le imprese nazionali emigrino per poterli reperire altrove !

Il tema peraltro ha forti risvolti politici: un fisco troppo severo, una burocrazia non efficiente e un sistema giudiziario normalmente lento e poco amichevole nei confronti di chi investe non invogliano i detentori di capitali ad investire nelle imprese italiane, le quali se non potranno investire non assumeranno lavoratori, anche a causa delle rigidità normative!
Se il tema è “politico” conseguenze sono tuttavia molto pratiche: se non cambia qualcosa, chi placherà la fame di finanza dell’industria italiana?
                             

      

Stefano L.di Tommaso