Newsletter Marzo 2014

LA FESTA È FINITA?

 

 

                                

                                                                   

Sommario :

       0) La Festa è Finita?
       1) Il Valore degli Investimenti: il paradosso di Russell e il pragmatismo di Warren Buffett
       2) Frozenomics e Ripresa: segnali di disgelo?
       3) La Corporate Accountability: sostituire il credito con la credibilità
       4) L’economista (tra il serio e il faceto)


In Sintesi:


È questa la domanda che sui mercati finanziari si stanno ponendo in tanti: l’orgia della liquidità, delle Borse roboanti, delle valute che oscillano e danzano intorno ad un costo del denaro virtualmente pari a zero sta chiudendo il sipario? Ovviamente, nessuno può dirlo, ma i segnali che provengono dall’aumentata volatilità dei corsi, da quella particolare ripresa economica mondiale che il mondo occidentale ha vissuto (fuori dai confini del nostro disastrato Paese) in modo molto “glaciale” e quasi senza accorgersene anche perché accompagnata da pochi slanci nei consumi e poca voglia di fare investimenti, con la disoccupazione sempre ai massimi storici e una crescente disparità tra i ricchi e i poveri del mondo, fanno pensare che restino pochi spazi per altri, veri, apprezzamenti delle quotazioni borsistiche.

Anche la grande massa di liquidità che in tutto il 2013 ha invaso i mercati finanziari, è stata di fatto goduta da pochi grandi attori bancari e da pochissime grandi aziende quotate in Borsa. Tutti gli altri (privati e imprese di piccole e medie dimensioni) hanno visto invece addirittura ridursi la massa monetaria disponibile, anche a causa di una ridotta velocità della sua circolazione (fenomeno peraltro tipico delle fasi recessive, non di quelle espansive).

Nel nostro Paese questa “ripresa fredda” è stata ancora più fredda: da una parte l’ulteriore calo di consumi e occupazione tra una popolazione allo stremo delle forze per oltre un terzo del suo totale e dall’altra parte borse e mercati finanziari invece frizzanti e crescenti, spaventate -ma non troppo- soltanto dal crescente debito pubblico nazionale. Ad accompagnare questo fenomeno ci si sono messi gli investitori di tutto il mondo, che per il momento non credono più al pericolo di rottura dell’Euro e per questo motivo hanno fatto calare notevolmente lo spread tra i rendimenti dei titoli di stato tedeschi e quelli italiani o spagnoli, facendo cantare troppo presto vittoria ai nostri governanti!

Il panorama internazionale è sicuramente ancora volto alla crescita (o quantomeno alla fine della decrescita) ma è anche segnato da numerosi possibili focolai di guerra, incastonati in quella che oramai appare chiaramente come una nuova stagione di instabilità politica globale. Dunque il mondo è in apprensione e la cosa agita i mercati finanziari che, notoriamente, preferiscono le certezze.

Le borse perciò per il “consensus” internazionale degli analisti finanziari non saliranno più o saliranno poco, al netto delle sempre maggiori oscillazioni che invece stanno avendo in concomitanza con la maggiore incertezza generale. Si prevede peraltro che le stesse Borse non scenderanno o scenderanno poco perché, se quest’incertezza dovesse montare, forse i tassi di interesse ne risentirebbero al rialzo (creando perdite sui mercati obbligazionari) mentre ad oggi si può ancora scommettere sulla capacità delle principali banche centrali nel tenere le redini della “forward guidance” che hanno intrapreso con decisione, per tenere i tassi più bassi possibile in attesa che i grandi debiti pubblici del pianeta vengano sgonfiati o ristrutturati.  Questo fenomeno (tassi bassi e pericolo di rialzo) unitamente ad una montagna di liquidità in (lenta) circolazione, provvederà ancora per un po’  a mantenere gli investitori di tutto il mondo più attenti ai titoli azionari che non al reddito fisso.
 
In Dettaglio:

1) IL VALORE DEGLI INVESTIMENTI

IL PARADOSSO DI RUSSELL E IL PRAGMATISMO DI WARREN BUFFET

 

Il paradosso di Russell, formulato dal filosofo e logico britannico Bertrand Russell tra il 1901 e il 1902 è una delle antinomie più importanti della storia della filosofia e della logica: una proposizione che risulta autocontraddittoria sia nel caso che sia vera, sia nel caso che sia falsa. Alla lettera un paradosso è soltanto una conclusione logica che si scontra con il nostro modo abituale di vedere le cose, ma quando una conclusione logica si scontra con un’altra conclusione logica, ecco che il paradosso diventa un’antinomia.

Il paradosso di Russell si basa sul principio generale che numerosi risultati di teorie, calcoli e enunciazioni matematiche -sebbene correttamente verificati- non possono essere dimostrati univocamente con la logica (un ragionamento analogo a quello che porta al paradosso dell’eterologicità di Grelling-Nelson). Tanto la logica quanto altre discipline scientifiche perciò possono portare a risultati assai contraddittori tra di loro, esattamente come le teorie economiche.

Il Paradosso di Russell ebbe un ruolo fondamentale nella crisi dei fondamenti della matematica, la quale a sua volta ebbe un peso notevole nella più ampia crisi che interessò le certezze fondamentali della fisica e della filosofia all’inizio del XX secolo, crisi che spesso è associata al crollo delle dottrine filosofiche di stampo positivista. Quel che succede oggi sui mercati non è molto diverso: accade proprio tutto e il contrario di tutto. È finita la grande festa dei mercati borsistici? Le valutazioni d’azienda sono troppo elevate? Ora sì e ora no, esattamente come il funzionamento della lampadina della freccia della gazzella dei Carabinieri…

Dobbiamo abituarci a seguire le ondate al rialzo e poi al ribasso senza cercare più alcun fondamento logico nei postulati generali che si susseguono nei mercati finanziari? La domanda è d’obbligo, ma la risposta è francamente impossibile.

Al relativismo più totale con il quale siamo obbligati ad osservare gli strani eventi macroeconomici che si susseguono in questo gelo di fine inverno si contrappongono le ferree logiche e le semplici ed intuitive certezze di Warren Buffett, investitore professionale non solo assolutamente controcorrente ma anche molto autorevole dal momento che risulta il più grande e più ricco di tutti i tempi!

Il “mago di Omaha”,  ha inoltrato a fine dello scorso anno una lettera agli azionisti della Berkshire Hathaway nella quale rievoca i grandi insegnamenti che ha ricevuto da Ben Graham e i due semplici investimenti immobiliari effettuati in ossequio a quegli insegnamenti oramai più di trent’anni fa: il buon senso che li aveva ispirati non è a tutt’oggi passato di moda e, soprattutto, le valutazioni a cui sono stati effettuati, subito dopo lo scoppio di altrettante bolle speculative, e il potenziale inespresso di reddito dei medesimi sono tutti fattori che ne hanno fatto delle scelte eccellenti a prescindere dagli alti e bassi di mercato e poterli mantenere a lungo nel tempo. Buffett detta una sorta di “testamento spirituale” nell’invocare un ritorno ai valori fondamentali e un’assoluta indifferenza agli alti e bassi di mercato, spiegando come quei due investimenti immobiliari, se fossero stati meno ragionati e più movimentati nel tempo difficilmente avrebbero prodotto un risultato migliore, al netto degli ingenti costi di transazione che si sarebbero accumulati! Buffett conclude con un vecchio adagio: “price is what you pay, value is what you get”. Come dire: se trovi davvero del valore nei tuoi investimenti non devi movimentarlo ogni giorno!

 
2) “FROZENOMICS” E RIPRESA

SEGNALI DI DISGELO?

Sarà colpa di quel freddo polare che negli ultimi tempi ha avvolto gli americani, sarà a causa del fatto che al di là di fattori temporanei di rallentamento della crescita esistevano ragioni di fondo più persistenti, ma quella che è stata chiamata “gelida ripresa” negli Stati Uniti d’America ha fornito l’ennesima prova che non basta agire sulla leva monetaria per guarire un sistema economico che non funziona e far innestare la quarta a consumi e investimenti.

Tra l’altro con l’occasione gli economisti hanno avuto un’ulteriore conferma di quanto gli eventi climatici possano determinare non soltanto un danno economico immediato nelle settimane in cui si è avuto un picco della temperatura, bensì più in generale anche un impatto economico di lungo termine derivante dai cambiamenti climatici indotti dal buco nell’ozono delle calotte polari, dall’aumento della concentrazione di anidride carbonica e dalla progressiva tropicalizzazione degli eventi atmosferici derivante dal riscaldamento globale e dalle sue conseguenze, sebbene sia oggettivamente difficile calcolarne e misurarne i numeri nell’economia.

Esistono teorie che affermano che una lieve crescita nelle temperature medie del globo quale quella cui stiamo assistendo potrebbe determinare una nuova glaciazione, principalmente a causa della riduzione degli effetti benefici delle grandi correnti oceaniche. Dunque non si tratterebbe solo di maggior caldo generalizzato, bensì di una maggiore instabilità generale del clima,con picchi di freddo nei Paesi e nelle stagioni più fredde e di caldo nei paesi più caldi.  L’Economist riporta uno studio dei ricercatori Melissa Dell dell’Harvard University, di Benjamin Jones della Northwestern University e di Benjamin Olken of the Massachusetts Institute of Technology che rivela che nei paesi tropicali la crescita di un grado centigrado della temperatura media può abbassare nel medio termine il loro prodotto interno lordo anche dell’8,5%.

Quello del freddo glaciale sofferto nei primi mesi del 2014 in America è divenuto pietra di paragone con la strana situazione di ripresa economica che viene misurata nel mondo occidentale senza che la gente comune possa avvertirne tangibilmente gli effetti.

È avvenuto negli USA e sta avvenendo anche a casa nostra. La strada da compiere è così lunga prima di tornare alle condizioni di relativo benessere nelle quali ci trovavamo sino a metà dello scorso decennio (anche in termini di welfare, occupazione e costo dei servizi) che ci vorrebbero molti anni sotto il segno positivo, ma non basta: una crescita del 2% del PIL se accompagnata ad una pari crescita della popolazione residente, rischia di non manifestare alcun beneficio. Anzi: qualora la crescita si accompagni ad una seppur lieve maggior concentrazione della ricchezza disponibile, l’effetto netto potrebbe risultare negativo! È più o meno quel che è accaduto negli Stati Uniti d’America.

L’euforia dei mercati si è in generale propagata assai poco all’economia reale e ha progressivamente lasciato posto a notevoli alti e bassi senza continuare a mettere a segno degli effettivi progressi nelle valutazioni d’azienda implicite ai corsi attuali.  Cosa ancor più importante, quella descritta sembra una tendenza destinata a durare, una “ripresa fredda” alla quale seguiranno ben pochi progressi del benessere collettivo.
 

3) “CORPORATE ACCOUNTABILITY:

SOSTITUIRE IL CREDITO CON LA CREDIBILITÀ

 

Negli ultimi tempi si è molto parlato di “credit crunch”, di Minibond, di Rating e di AIM. Si è addirittura salutato con fervore l’avvento dello Shadow Banking e del Crowdfunding, e lo hanno fatto dei dirigenti della nostra Banca Centrale come pure alcuni Ministri degli ultimi due Governi del Presidente (Monti e Letta).

Si è parlato di ogni possibile fonte alternativa per reperire quei finanziamenti che oggi le aziende non ottengono più dalle Banche, convenendo sull’ovvietà del fatto che nelle economie moderne la disponibilità di credito non può dissolversi come neve al sole senza mettere in ginocchio le imprese di Paese come il nostro, che è sicuramente in crisi sistemica ma che resta tutt’ora dotato di un prevalente ed avanzatissimo sistema industriale!

Eppure nel nostro Paese la Banca Centrale ha inspiegabilmente e di fatto avallato quegli eventi che hanno portato oggi alla deriva del credito disponibile.  Dapprima invocando forti misure restrittive alla creazione di nuovi istituti di credito, poi sostanzialmente scoraggiando la nascita di nuovi Istituti di Credito, poi ancora nuovamente appellandosi a normative europee e internazionali concernenti le esigenze di capitalizzazione delle Banche e frequentissimi controlli formali riguardanti le procedure di gestione e spesso azzerando di fatto quelle poche residue pressioni competitive tra gli attori dell’industria del credito.

Come risultato di tutto quanto sopra non possiamo fare a meno di notare che negli ultimi anni si è riscontrata l’assenza di qualsiasi incentivo all’erogazione di nuovo credito al mondo produttivo!

I Governi dell’ultima Legislatura hanno sì sostenuto l’agevolazione fiscale e normativa di nuovi strumenti finanziari come i Minibond (i cui volumi di emissione a tutt’oggi sono però totalmente trascurabili) o le Cambiali Finanziarie (che non sono proprio partite) ma esistono importanti motivi per i quali questi strumenti non risultano al momento in grado di fornire una spinta propulsiva generale all’economia:

     – primo tra questi motivi è il fatto che si tratta di strumenti del mercato dei capitali, non propri del sistema bancario e perciò  mal si adattano ai costumi e alle limitate dimensioni delle PMI italiane;

    – esiste inoltre una limitata piattaforma di scambi borsistici per questi titoli (l’ “Extra Mot”) che non raccoglie il pubblico risparmio ma è riservata agli investitori professionali e pertanto non li rende strumenti facilmente liquidabili;

     – ma soprattutto non viene fornito alcun supporto governativo al rischio di default come invece avviene per i prestiti bancari alle PMI con la garanzia offerta dal Fondo di Garanzia ex Mediocredito Centrale. L’esperienza di altri Paesi mostra che, laddove sono state organizzate Agenzie Governative a supporto dell’erogazione di credito (si vedano le FANNIE MAE o GINNIE MAE negli U.S.A., per esempio) la liquidità di quei titoli finanziari è immediatamente decollata.

 

         

 

Di recente è stata inoltre avanzata l’ipotesi di una “Bad Bank” nazionale (cioè di uno strumento collettivo di raccolta dei crediti bancari in sofferenza) che non potrà che risultare finanziata con i quattrini pubblici. Si tratta di una soluzione utile e necessaria ma non si può al tempo stesso fare a meno di notare che saranno altre risorse di Stato che potevano invece adoperarsi perché il sistema bancario torni consistentemente ad erogare credito alle piccole e medie imprese italiane. La cosa ha degli indubbi vantaggi (migliorare l’appetibilità del capitale degli istituti di credito e individuare nuovi gestori delle “special situation”) ma l’analisi che qui di seguito proponiamo riscontra anche delle criticità e se ne possono ampiamente dimostrare le ragioni.

In primis è facile previsione che l’iniziativa -di per sè positiva- potrebbe essere letta come l’ennesima erogazione di risorse pubbliche (invero sempre più scarse) di fatto a sostegno di una industria nazionale -quella delle Banche- che ha costituito sino ad oggi un oligopolio più o meno legalizzato finalizzato a sostenere i margini e a ridurre progressivamente l’erogazione di nuovo credito al settore privato. Cosa quantomai deleteria in presenza di un contesto generale di recessione e deflazione, poiché non può che agire in forma pro-ciclica, cioè amplificarle!

In secondo luogo l’operazione, volta a facilitare la maggior capitalizzazione del sistema bancario italiano, se avrà luogo senza che al tempo stesso si aggiunga l’opportuna linfa di nuova concorrenza all’interno del sistema bancario stesso, nuovo management e maggiore integrazione globale, non contrasterà la situazione oligopolistica di fatto nella quale le Banche italiane si limitano sempre più nell’erogazione di nuovo credito preferendo godere di quella rendita di posizione basata su misure normative anti evasione e anti riciclaggio che le impongono quale crocevia obbligato per trasferire il pagamento di qualsiasi scambio economico.  Completiamo il quadro segnalando che il sistema creditizio sta oggi prevalentemente utilizzando il proprio capitale disponibile non per finanziare nuove erogazioni, bensì per operare (a rischio) nel trading sui mercati finanziari, attività dalla quale è noto provengono in media più di due terzi dei profitti bancari degli ultimi anni.

Una pericolosa tendenza dunque, che andrebbe contrastata con una generale presa d’atto e provvedimenti concertati tra le istituzioni democratiche e le autorità monetarie di tutta Europa per spingere l’industria del credito ad incrementare le erogazioni monetarie al settore privato.

Bisogna altresì segnalare che il problema però è principalmente italiano, perché è a casa nostra che esiste la maggior parte di aziende produttive di piccole e piccolissime dimensioni, le quali riscontrano oggettive difficoltà ad accedere a quel mercato dei capitali da cui possono provenire quasi tutte le risorse finanziarie alternative al credito tradizionale. Sorge allora un’ovvia questione: perché in Italia le imprese sono di dimensioni mediamente minori che altrove? E perché esse fanno fatica ad accreditarsi sul del mercato dei capitali?

La questione, sempre stata centrale ad ogni possibile dibattito sulle politiche di sviluppo industriale della nostra penisola, è oggi divenuta cruciale con l’avanzare del CREDIT CRUNCH!

 

 

 

In passato l’accesso al credito era considerato dai più una sorta di estensione finanziaria delle relazioni politico-istituzionali. L’accesso al credito aveva un riscontro politico nella proprietà prevalentemente pubblica di gran parte degli Istituti di Credito oltre ad essere basato, più che sulla capacità di rimborso o sulla credibilità del richiedente, sulle garanzie reali fornite in cambio alle Banche e a quegli Istituti ancillari, partecipati dalle medesime e dal Tesoro Italiano, denominati Mediocrediti Regionali, che oggi sono quasi scomparsi.

Il sistema generale del credito -durato in Italia oltre cinquant’anni- ha avuto anche i suoi pregi, poiché ha indubbiamente favorito la creazione di cospicui e diffusi profitti (e dunque capacità di reddito e gettito fiscale) in un Paese che ancora negli anni cinquanta e sessanta poggiava su una prevalente base agricola. Il sistema bancario nazionale inoltre -in assenza di metodi centralizzati di “credit scoring” e dell’utilizzo diffuso di internet, prevedeva una specializzazione funzionale per i finanziamenti a supporto degl’investimenti ai Mediocrediti Regionali e una forte delega ai dirigenti locali degli Istituti di Credito, i quali incontravano e conoscevano personalmente gran parte della propria clientela, cui concedevano e chiedevano favori allo stesso tempo, mentre praticavano il credito. In presenza di un duraturo e costante sviluppo economico sino a tutti gli anni 2000, esso è rimasto in equilibrio.

Poi numerosi nuovi fattori come i nuovi standard internazionali di valutazione del credito e la rinnovata normativa, i nuovi principi contabili, l’apertura progressiva alla globalizzazione nonché un accelerato processo di concentrazione e di forzata crescita dimensionale delle aziende di credito, hanno tutti insieme sferzato un vento gelido nei confronti di molte di quelle micro-imprese che costituivano il cuore pulsante del comparto manifatturiero italiano.

L’esigenza di concentrazione dei principali settori industriali è subito apparsa chiara, ma si è scontrata con la struttura prevalentemente famigliare delle imprese private nonché con la possibilità per le stesse imprese di limitare le importanti normative burocratiche e le forti istanze sindacali, limitazioni che rimanevano valide soltanto qualora esse si classificavano al di sotto di certe soglie dimensionali. Possiamo dunque affermare che vi è stato un incentivo normativo alla piccola dimensione!

Alcune imprese nazionali con l’avvento della globalizzazione hanno ugualmente intrapreso il sentiero della crescita dimensionale ma molte di esse lo hanno fatto senza dotarsi di adeguati strumenti manageriali, quali ad esempio:

       – l’analisi del mercato e del contesto competitivo,
       – il controllo di gestione,
       – i sistemi di incentivazione e delega,
       – la pianificazione strategica e quella finanziaria.

La soluzione della crescita dimensionale “tout-court” pertanto in molti casi è stata peggiore del problema: un’accresciuta dimensione delle imprese basata su scarsa capitalizzazione e sistemi e processi di gestione e controllo carenti, tipici del loro retaggio di piccole imprese famigliari. Ciò ha favorito numerosi tracrolli, i quali hanno indubbiamente contribuito a loro volta a frenare la nuova erogazione del credito.

Oggi un molti casi le imprese devono confrontarsi con una ridotta capacità di erogare credito da parte delle banche presenti sul territorio italiano. Ma soprattutto le imprese superstiti alla grande transizione in corso devono fare i conti anche con con una loro diminuita capacità intrinseca di ottenere credito, se opportunamente ricalcolata alla luce dei nuovi parametri di merito di Basilea. I nuovi criteri di erogazione del credito e di calcolo della capacità di rimborso adottati dalle banche tendono peraltro ad uniformarsi sempre più a quelli da tempo adottati sul mercato dei capitali, perché quest’ultimo si rivolge ad imprese maggiori, ma anche perché i due mercati tendono inesorabilmente a convergere verso un’unica grande piattaforma finanziaria.

E questa nuova piattaforma ha le sue regole, i suoi strumenti di dialogo, i suoi metodi di valutazione della credibilità delle imprese, dei quali oggi si deve imprescindibilmente tener conto. Vediamo quali:

        – innanzitutto la credibilità aziendale: quella reputazionale dell’imprenditore, ma anche quella di un sistema  di  management affidabile e indipendente, capace di pianificare il proprio futuro tenendo conto dello scenario competitivo globale ma anche di saperlo comunicare, virtù spesso sottovalutate al di quá delle Alpi;

        – poi la credibilità dei dati di bilancio, del management stesso, delle proprie partnership strategiche, dei propri prodotti e della tecnologia, che sono tutte sfaccettature di quella credibilità generale spesso riassunta nel valore del proprio “Brand Name”;

         – infine la credibilità dei programmi, quelli sulla base dei quali un’impresa può chiedere e ottenere finanza dal mercato dei capitali, quelli sui quali un investitore/finanziatore terzo reputa che valga o non valga la pena di scommettere, indipendentemente dalle dimensioni aziendali odierne.

Così è possibile osservare situazioni apparentemente contraddittorie, come alcuni grandi operazioni di raccolta di capitali per imprese interessantissime ma ancora in fase di “start-up” ovvero disastrose e inconcludenti richieste di fondi per imprese affermate, che hanno superato da tempo la piccola dimensione, ma che per qualcuno dei motivi suddetti non esprimono grande credibilità!

Al di là del concetto italiano di “Credibilità” esiste dunque un concetto più allargato che gli anglosassoni definiscono di  “Accountability”, vale a dire quella capacità delle imprese di essere ritenute solide, credibili, autorevoli interlocutori, affidabili nel tempo. Un argomento che in ultima istanza risulta cugino stretto della “Leadership” (autorevolezza): quella tecnologica, di mercato o anche solo del Brand Name. E a guardar meglio le definizioni appena citate sono tutte sfumature del nuovo significato che ha raggiunto la definizione moderna di  “capacità di credito”, legata sempre più a criteri dinamici di creazione del valore, di aspettative di crescita dei profitti e quantomeno della generazione di cassa.

È sulla propria capacità di risultare migliori secondo i suddetti criteri che le imprese devono oggi combattere la loro battaglia quotidiana per l’ottenimento di nuove risorse finanziarie da un mercato che ha affilato sempre più i propri sistemi di valutazione. È sulla capacità di costruire solidamente la propria credibilità finanziaria che le imprese potranno affrontare quegli strumenti alternativi al mercato tradizionale del credito ed ottenere dai medesimi le risorse finanziarie che si sono altrove rarefatte. È sulla loro “Accountability” che le imprese potranno fondare di conseguenza la propria capacità di sopravvivenza.

Vero è che il “Deleveraging” generalizzato ha imposto criteri più rigidi di capitalizzazione delle imprese e molto spesso anche la sostituzione degli strumenti creditizi bancari con quelli forniti dal mercato dei capitali. Ma cadrebbe in errore chi ne deduce necessariamente un grigio futuro in cui non ci sarà più molto spazio economico e finanziario per le piccole imprese: si può invece tranquillamente ritenere che il mercato finanziario del prossimo futuro riserverà sempre maggiore attenzione a quelle piccole imprese che mostrano di voler e poter crescere!

 

4) L’ECONOMISTA:  (TRA IL SERIO E IL FACETO)

 

 

 

Due ingegneri fanno un giro in mongolfiera, ma dopo un’ora si mettono a discutere tra di loro e si perdono tra le nuvole.
Allora decidono di scendere, avvistano un uomo si abbassano e gli chiedono: ci scusi, sa dirci dove siamo?
Certo, fa l’ometto: siete su una mongolfiera. I due si guardano e un dice all’altro: deve essere un economista, la risposta è esatta ma non ci serve a niente!

Stefano L. di Tommaso