Newsletter di Settembre 2013
UN NUOVO CICLO ECONOMICO O UN’ILLUSIONE?
IN PILLOLE:
La recessione sembra finita in Europa, ma la ripresa non ancora arrivata.
Siamo all’inizio di un nuovo ciclo o è un’illusione pre-elettorale?
Finora hanno tenuto banco l’austerity, la restrizione del credito e quella della massa monetaria che hanno generato anni di stagnazione e lasciato ovunque un bel cumulo di macerie.Oggi qual’è -se finalmente l’Occidente sembra aver voltato pagina- il vero volto del nuovo ordine mondiale?
L’analisi parte dal contributo positivo delle politiche monetarie espansive, adottate prima e di più dai Paesi che oggi sono usciti dalla recessione, nonché da quello, altrettanto positivo, del valore che sarà creato dalle nuove tecnologie, di cui si parla e si scrive troppo poco, per concludere con la previsione che gli eventi in corso genereranno soltanto un ulteriore vantaggio a favore delle economie che già stanno meglio delle altre.
L’Europa è sempre più costretta a fare delle scelte: in direzione di un vero compattamento (con tutto ciò che questo potrà comportare) o verso una rapida disgregazione, viste le forze centrifughe in atto. L’Italia invece, al pari di molti Paesi limitrofi, non riuscirà che marginalmente a beneficiare del rimbalzo che sta succedendo alla più profonda delle recessioni dell’Occidente post-bellico.
A meno che l’Europa (a partire da noi Italiani) non abbia un sussulto di orgoglio e uno slancio di coraggio nel procedere a grandi passi verso l’unificazione.
Dal punto di vista delle speranze di ripresa dunque la locomotiva americana per le imprese italiane funzionerà a singhiozzo, vista l’attesa di llimitata ripresa dei consumi e di prosieguo di elevati tassi di disoccupazione, mentre quel che rimane dell’export verso India, Asia e Medio Oriente (dopo che le imprese tedesche l’avranno fatta da padrone) potrà fornire ancora qualche soddisfazione.
IN DETTAGLIO:
USA, GERMANIA E GIAPPONE SI RIPRENDONO LA LEADERSHIP
L’America del Nord è uscita da tempo dalla recessione, aiutata dalla demografia e dalle risorse naturali, seppure con un debito pubblico ingigantito a livelli mai visti prima, mentre l’Europa appare malridotta nelle sue periferie (dove siamo anche noi) e lacerata proprio dall’Unione Monetaria.
Sembra paradossale ma non lo è: negli Stati Uniti non si fa che discutere di droga monetaria ed exit strategy dalla stampa di nuova moneta, con conseguenti ruzzoloni della borsa e innalzamento dei tassi d’interesse (nonostante evidentemente la cura monetaria abbia funzionato e sia tutt’ora fondamentale per aiutare l’emissione di nuovi titoli del tesoro) mentre nell’Europa che ancora arranca e la cui moneta unica rimane artificialmente sopravvalutata, il Quantitative Easing è quasi un tabù perché la Germania ha imboccato la ripresa e attende le sue elezioni politiche imponendo agli altri stati, considerati propri vassalli, di limitare le richieste di liquidità a ciò che serve per rifinanziare i debiti pubblici ed evitarne il default, e non lasciando alcunché per finanziare la ripresa degl’investimenti!
Non a caso la “ripresina” auspicata si prevede ovunque che non genererà una riduzione della disoccupazione continentale.
Le querelle macroeconomica non mi vede d’accordo sui pericoli indotti dalle politiche monetarie espansive (il ritorno alla crescita di USA e Giappone dimostrano che le iniezioni di liquidità, almeno nel breve periodo, “funzionano”!) ma sta offuscando la percezione dei veri mutamenti strutturali, come il primato dell’informazione sulla produzione e la spinta delle tecnologie a generare nuova ricchezza, sfruttando meglio le risorse del pianeta. Andrew Haldane economista della Bank Of England afferma: «siamo al culmine di una grande rivoluzione industriale, sospinta dalle nuove tecnologie dal lato dell’offerta e frenata dalla crisi finanziaria dal lato della domanda».
E le tecnologie (con i loro risvolti in termini di supremazia militare) sono fortemente dominate dall’America che esce vincitrice dalla rivoluzione citata: il mutamento che ne consegue negli equilibri economici e geopolitici va a scapito dei BRICS (Brasile, India, Cina, Sud Africa), dei Paesi Emergenti e del Medio oriente, per premiare gli USA, la Germania, il Giappone e tutto il Commonwealth britannico.
“BRICS” E RESTO DEL MONDO:
La Cina cresce ma stenta a entrare nell’“era dell’armonia” promessa da Hu Jintao. Si afferma come nuova superpotenza mondiale, e purtuttavia oggi non rappresenta un pericolo per nessuno, poichè buona parte delle risorse generate sono impiegate nella stabilizzazione dei consumi interni, nella costruzione del welfare, nella riforma delle banche, nella riduzione del divario tra le regioni dell’interno e quelle costiere (più ricche) e nella necessità infine di profondere molti denari in nuova spesa militare.
Del resto oggi parlare dei BRICS non ha più senso: l’India resta una potenza mancata (e affetta dalla necessità di spendere le risorse generate dalla crescita nella stessa lotta della Cina alla povertà interna) e il Brasile rimane un’eterna -instabile- promessa, mentre la Russia è troppo impegnata nel consolidare regime e macchina militare di Putin (anche se quest’ultimo sembra più saggio di quel che in Occidente ci fanno credere) e la propria industria resta ancora fortemente dipendente dallo sfruttamento e l’esportazione delle risorse naturali, per poter promettere più degli altri Paesi “non allineati”.
È proprio l’instabilità politica in questo scorcio del 2013 ciò che caratterizza buona parte delle economie “non anglosassoni” ma sviluppate del pianeta: dal Brasile al Sud Africa, all’Estremo Oriente di Indonesia Vietnam e Corea, passando per l’intera Africa e gli Stati periferici Europei come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, fino all’agitatissimo Medio Oriente che ancora una volta promette di essere la polveriera del mondo!
L’EUROPA:
In U.E. la moneta unica non ha unificato i mercati. Le divisioni tra paesi in surplus e quelli in deficit sono aumentate; senza che venissero adottati meccanismi di compensazione. È inevitabile allora che gli imprenditori prosperino là dove c’è maggiore efficienza ma l’austerità -imposta dagli stati forti dell’Unione- non risolve i problemi strutturali.
Svezia, Paesi Bassi e Finlandia hanno tratto qualche vantaggio dal grande recupero tedesco rispettando i crismi della ortodossia della Pubblica Amministrazione, ma non è bastato.
La Francia (che dipende molto dalla Germania) ha ottenuto sin’ora dai mercati finanziari un trattamento privilegiato ma presto i suoi contribuenti cominceranno a pagare per il forte disavanzo generato dalle politiche sociali che sta facendo aumentare il debito pubblico senza rilanciare l’economia. Questo può più che controbilanciare sui suoi punti di forza: grandi banche e imprese di stato.
La Germania è ovviamente il Paese che sta andando meglio, più equilibrata nelle sue
infrastrutture, capace di attrarre capitali e cervelli, più orientata di ogni altro Paese occidentale alle esportazioni e alla produzione industriale di elevata qualità.
Tuttavia è il Paese che ha più beneficiato dell’avvento dell’Euro e del contemporaneo irrigidimento delle economie degli altri Stati Europei, e quello dove alle prossime elezioni potremmo assistere ad un riverbero di nazionalismo e conservatorismo, lo stesso che spirito che ha contribuito ad affossare la nostra economia impedendo alla BCE di adottare quelle politiche monetarie espansive che sinora hanno funzionato in USA e Giappone.
L’ITALIA:
pur avendo visto incrementare negli ultimi anni le capacità di esportazione delle proprie piccole e medie imprese, soffre tuttavia più degli altri Paesi Europei.
L’anno in corso vedrà un nuovo calo del P.I.L. intorno al 2%, dato che tra l’altro incorpora attese di discesa dei consumi interni molto più marcate: dal 3% al 4% su base annua, mentre il deficit dei conti di Stato dovrebbe chiudere l’anno con un “dignitoso” 3%.
Le grandi imprese nazionali si stanno estinguendo o ulteriormente frazionando mentre la prosecuzione della delocalizzazione degli stabilimenti contribuisce alla loro progressiva sparizione.
Il problema italiano è però che, con circa €75 mld di interessi sul debito e con un deficit di (almeno) €45 mld l’Italia dovrebbe trovare ogni anno (almeno) €120 mld aggiuntivi alle esigenze di spesa pubblica, solo per mantenere ai livelli attuali il Debito di Stato. Cosa ovviamente oggi non alla portata, perciò il debito cresce… e il Rating scende.
(S)vendere le principali Partecipazioni Statali per racimolare 60-70mld di Euro dalle privatizzazioni (Carlo Stagnaro ufficio studi IBL, stima che possano valere tutte insieme €130mld, per cui ipotizzare di incassarne al massimo la metà è cosa assai ragionevole) non eliminerebbe affatto il problema del debito italiano (pari a circa 2.100mld di Euro), anzi: la vendita di assets multinazionali ancora partecipati dallo Stato ci farebbe perdere un’importante base imponibile nel medio termine, a causa della immediata riorganizzazione delle stesse aziende da parte degli acquirenti, drenando tasse, occupazione di livello e know-how dalla nazione venditrice a quella dove l’acquirente ha la sede (come dimostra il caso Parmalat).
Peraltro con i governi che si sono succeduti, da Berlusconi a Monti e a Letta, durissima è stata la stretta fiscale mentre nulla di significativo si è fatto sui tagli alla spesa pubblica. Di conseguenza il peso fiscale complessivo della P.A. , giunto al 70% del P.I.L. (il più alto del mondo) soffoca la competitività del Paese che risente degli elevati costi finanziari, sociali, energetici e burocratici: i consumi scendono e i capitali fuggono.
Per non parlare dell’instabilità politica: la volontà inequivocabile di polemica da parte di entrambi i partiti di maggioranza (e di riportarci entro pochi mesi alle urne elettorali) preoccupa le Agenzie di Rating e i principali Paesi nostri partner commerciali, rischiando di affossare definitivamente il sostegno europeo al nostro debito pubblico e di gettarci in una trappola di tipo greco.
IPOTESI E PREVISIONI:
L’Euro:
Dopo aver passato quasi tutto il 2012 e metà del 2013 inchiodato al livello di 1,3 Dollari, negli ultimi mesi si è ulteriormente e innaturalmente rafforzato. Ciò crea problemi all’export e tiene alti i consumi. La cosa perdura ma non è sostenibile nel medio termine ed è facile prevedere che, non appena si saranno consumate le elezioni politiche tedesche, si riduca il divario non solo con Dollaro e Yen, ma forse anche con le altre valute. Più difficile prevedere cosa succederà al Renminbi, lo Yuan cinese.
Reddito Fisso:
Nella parte meridionale dell’eurozona i costi della manodopera scendono troppo lentamente e gli strumenti armonizzare la governance non sono efficaci, portando ad andamenti fortemente divergenti con i Paesi “core”. È probabile che presto nuove tensioni finanziarie per Grecia e Portogallo, e forse anche per Spagna, Italia e Francia, costringeranno gli euro-burocrati a fare scelte più nette: Eurobond (almeno per le infrastrutture) e Fiscal Compact oppure disgregazione della Divisa Comune (che a sua volta potrebbe generare la prossima crisi sistemica mondiale). La cosa non può che alimentare aspettative di discesa dei titoli a reddito fisso e, conseguentemente, di rialzo dei tassi a medio-lungo termine.
Le Borse:
Sino ad Agosto drogate dalla liquidità in eccesso, si sono già ridimensionate, ma probabilmente non abbastanza. Sarà l’incremento di volatilità dell’ennesimo autunno “caldo” a fare il resto: non sono più molto ottimista in proposito a causa dell’andamento compresso dei consumi in tutto il mondo occidentale. Le imprese non possono prosperare senza vendere di più mentre Estremo Oriente e Terzo Mondo sembrano ridurre la propria capacità di assorbire i beni esportati.
Come sempre sarà Wall Street a dare il “tono” e non sembra che sarà un acuto!
Il corso delle Borse è anche legato all’andamento dei tassi di interesse: è probabile che questi risalgano per tenere conto di qualche (ingiustificata) attesa di inflazione, generando un contesto sfavorevole per incrementare gl’investimenti azionari non legati a nuove aziende, nuove tecnologie, nuove grandi aggregazioni planetarie.
Ne dovrebbero genericamente risentire perciò le “Utilities”, ancora una volta i titoli finanziari e forse anche produttori di Materie Prime e operatori del Largo Consumo.
Lo Spread:
A proposito di attese di tassi crescenti, lo spread dei Paesi periferici come il nostro normalmente dovrebbe riflettere il differenziale di rendimento tra i titoli tedeschi e quelli italiani, a sua volta espressione della diversa rischiosità (Rating) espressa dai medesimi: oggi niente è più falso!
Qual’è il Rating della Germania? Ottimo e stabile. E qual’è quello dell’Italia? Basso e alla vigilia dell’ennesimo downgrading. C’è un abisso in termini di solidità e prospettiva tra i due Paesi, eppure “soltanto” 260 punti base separano i due rendimenti. Non dura.
Quello spread è destinato a crescere e non è già successo solo perché i mercati ancora temono interventi di sostegno di una BCE fortemente targata Mario Draghi, tesi tra l’altro ad evitare la disgregazione dell’Euro.
La Disoccupazione:
È già in crescita, ma le statistiche -si sa- sono manipolate e sincronizzate con gli eventi politici. La sorpresa tuttavia sarà forte: negli ultimi mesi ha accelerato ma non sappiamo esattamente di quanto. La misura attendibile è che il 2013 si chiuda con un dato “ufficiale” del 12,8% e con un ignoto <40% di disoccupazione giovanile (che rappresenta la vera “bomba”!). Ma il vero punto sarebbe misurare la disoccupazione italiana tenendo conto della quota di inoccupati a vario titolo, quali: i pensionati baby, le casalinghe, gli studenti all’estero in attesa di riqualificazione, gli extracomunitari che non vengono censiti, i cassintegrati, eccetera…
Le notizie al riguardo non gioveranno alle attese sui consumi interni e a quelle sui conti pubblici ed è anche il motivo per il quale la migliore opzione per i politici nostrani, di fronte a queste aspettative, è quella di tentare di rimescolare le carte con nuove elezioni per evitare di prendersi la responsabilità di ciò che accade.
La produzione industriale:
E’ la variabile che potrebbe forse presentare -verso fine anno- qualche sorpresa positiva, a causa del combinato disposto di maggiori esportazioni, attese di calo del costo complessivo della manodopera, qualche concentrazione produttiva, e forse qualche incentivo dalla possibile discesa del valore dell’Euro (ad oggi tutt’altro che scontata).
La locomotiva americana inoltre potrebbe trainare verso la ripresa qualche azienda nostrana e la necessità di ripristinare scorte e infrastrutture potrebbe portare un ulteriore slancio a contrastare il calo dei consumi, mentre l’Unione Europea magari arriverà finalmente ad erogare contributi agl’investimenti direttamente al tessuto produttivo.
Per la verità se ne parla da tutto il 2013 ma forse proprio per questo prima o poi la cosa dovrebbe sbloccarsi, generando un minimo di ottimismo.
Da notare che comunque il panorama si divide in due: da una parte le imprese che hanno trovato oltre confine i loro parters commerciali, tecnologici e di capitale (e che stanno già imboccando il rettilineo), dall’altra quelle che, per i motivi più vari, non lo stanno ancora facendo: per queste ultime i vincoli del mercato interno, delle banche e della fiscalità restano una zavorra difficile da rimuovere!
CONCLUSIONI:
il nuovo ciclo prima o poi prenderà corpo anche per l’Italia, sempre che le minacce di default del debito pubblico piuttosto che di disordini di piazza o crollo dei conti delle principali banche del Paese (insomma: il “vincolo finanziario”) non trascini prima al collasso di quel che resta del nostro sistema industriale e commerciale.
È straordinario notare le similitudini della nostra condizione con il precedente della Grecia dove tutti, dalla Germania al Fondo Monetario Internazionale (che non a caso si trova a Washington) hanno ammesso di aver sbagliato a lasciar tracollare l’economia ma nessuno ha neppure fatto a tutt’oggi un accenno a modificare la situazione! L’Italia, insomma, se si dovesse cedere all’idea che esiste qualcuno che dirige le danze, potrebbe essere altrettanto “sotto schiaffo” quanto la Grecia e il Portogallo, e chissà per ancora quanti anni.
In tal caso la ripresa in atto non passerà affatto dalle nostre rumorose ed affollate spiagge, dalle nostre raffinate località turistiche, dai nostri immensi patrimoni artistici e dalle nostre verdi vallate alpine… neppure in ritardo. Le cicale italiane non stanno consumando redditi percepiti, bensì le loro riserve “tecniche”!
La sensazione insomma è che, nonostante le condizioni per un “rimbalzo” siano probabilmente maturate, alle imprese nostrane e ai Paesi Mediterranei manchi il terreno sotto i piedi: una base solida da cui ripartire a costruire.
Concludo perciò affermando che se alla fine prevarrà la volontà politica di accelerare sul fronte del coordinamento europeista, allora le possibilità di una vera ripresa (tanto industriale quanto finanziaria) ci sarebbero, eccome!
Ma la cosa -perché accada- dovrebbe prima essere compresa e condivisa dagli altri cittadini Europei non meno che da quelli Italiani che eleggeranno i propri politici della prossima tornata. Succederà mai?
Stefano L.di Tommaso
http://lacompagnia.it/analisi-e-studi/