Il 2017 si apre all’insegna dell’ottimismo
Edizione Dicembre 2016
INDICE:
- In sintesi
- Il “New Deal” di Donald Trump: Wall Street vuole crederci
- La bolla speculativa di Wall Street non fa così paura
- Monte Dei Paschi: la punta dell’Iceberg
- Ci vorrebbe una nuova Yalta
- La BCE va avanti, l’Italia può attendere…
- Trump ora trova consenso anche nella Federal Reserve
- L’ombra lunga della Yellen sui conti pubblici italiani
- Il compromesso innanzitutto
- Il governo di Gentiloni potrebbe riuscire dove ha fallito Renzi
- Milano nemesi storica di Starbucks
- Korea
1) IN SINTESI
L’economia mondiale torna ancora una volta a correre (e le borse ancor di più). La notizia, di per sé positiva, disturba un po’ i nostri sonni al pensiero che l’Italia invece ha sempre qualche nuovo problema a impedirle di tenere il passo con il resto del mondo avanzato.
Oramai ci stiamo facendo il callo, sebbene non tutto sia necessariamente perduto per il nostro ingarbugliato Paese. La caduta del Governo Renzi infatti, per quanto dolorosa, potrebbe risultare non così negativa se il suo successore saprà muoversi tempestivamente in una logica di continuità, soprattutto sul fronte più caldo che abbiamo dopo l’urgenza della ricostruzione delle città colpite dal sisma: quello della sopravvivenza delle banche nazionali.
Il nostro nume tutelare degli ultimi anni tuttavia, il SuperMario della Banca Centrale Europea, ha appena recuperato altro tempo a disposizione per il sostegno ai titoli pubblici e ottenuto ulteriore spazio di manovra per manovrare discrezionalmente a salvaguardia del sistema finanziario periferico dell’Unione, dunque fino a prova contraria anche di quello italiano.
Se le prospettive generali sono buone sarà anche meno difficile anche per le nostre aziende perseguire una crescita e una miglior capitalizzazione, soprattutto se i nostri rapporti con l’Unione Europea miglioreranno (e l’ex ministro degli Esteri Gentiloni sa bene come riuscirvi).
Il relativo ottimismo di fondo che si respira nelle pagine che seguono però non deve necessariamente farci ritenere che le borse continueranno indiscriminatamente a gonfiarsi come hanno fatto fino ad oggi anzi, quella americana è sempre più a rischio.
Il Dollaro forte però crea inevitabilmente una convenienza a investire altrove e in particolare nei Paesi Emergenti e in quelle borse che -a parità di altri fattori- hanno corso meno delle altre.
Anche la prospettiva di un rialzo dei tassi di interesse sottrae risorse al mercato del reddito fisso per alimentare i listini azionari, i fondi di venture capital e quelli di private equity.
Questa tendenza può far bene all’economia globale, liberando risorse per l’innovazione tecnologica, la razionalizzazione dei processi produttivi e il miglioramento della produttività del fattore lavoro.
Non lamentiamoci troppo dunque. Potrebbe anche andare peggio!
2) IL “NEW DEAL” DI DONALD TRUMP: WALL STREET VUOL CREDERCI
WALL STREET BRINDA AL “NEW DEAL” MA TRUMP POTREBBE VEDERSI ROVINATA LA FESTA DI INSEDIAMENTO
Cosa succede a New York? La borsa delle borse continua a inanellare record storici delle sue quotazioni ed il merito sembra proprio essere di Donald Trump, il quale sta formando una squadra di governo di prim’ordine e ha delineato in modo chiaro il suo programma economico, comunicando entusiasmo a tutti e mantenendo la sua promessa elettorale di fare di nuovo grande l’America.
Certo la borsa anticipa sempre i movimenti dell’economia (ultimamente anzi li moltiplica) ma, con il Dow Jones arrivato quasi a quota 20.000, c’è da attendersi più di una presa di beneficio da parte degli investitori, quantomeno nell’immediato.
Dunque man mano che l’indice lievita è sempre più difficile attendersi un 2017 scoppiettante come il 2016 a Wall Street, mentre è proprio a Gennaio che Trump diverrà ufficialmente il 45.mo presidente degli Stati Uniti.
Però le motivazioni dei rialzi azionari sembrano avere una base razionale nelle politiche economiche promesse dal presidente eletto nonché nella credibilità che i suoi uomini di governo dei Dipartimenti sembrano esprimere: la ricetta di meno tasse e meno burocrazia (deregulation) può davvero spingere gli investimenti produttivi, a tutto vantaggio della produttività del lavoro che in U.S.A. è rimasta quasi piatta per l’intero periodo di presidenza democratica, accompagnandosi anzi ad una progressiva riduzione della percentuale di Americani che costituiscono la forza lavoro.
STEVEN MNUCHIN
Ma soprattutto gli affari potranno prosperare e il Paese migliorare se il nuovo clima di fiducia sarà accompagnato da una spesa mista pubblico-privata in infrastrutture che sembra possa raggiungere i 1000 miliardi di dollari, come promette Trump!
A breve però un certo numero di nuvole nere rischiano di rovinare la festa, a partire dal fatto che, raggiunto il tetto dei 20.000 punti, l’indice di borsa possa ritracciare abbastanza decisamente in attesa di ulteriori buone notizie (che invece, per la natura delle manovre in corso, non potranno mai arrivare così velocemente).
In secondo luogo c’è l’incognita Janet Yellen, Governatrice della Federal Reserve che, “in lumine mortis” (poco prima di essere fatta fuori dal nuovo presidente), potrebbe finalmente provare a stupire il mondo con una raffica di aumenti programmati dei tassi d’interesse che sino ad oggi lei aveva sempre rimandato, rischiando di passare alla storia come la più grande tra i temporeggiatori.
Gli interessi più alti, giustificati soltanto da un’attesa di inflazione che è ancora tutta da verificare, renderebbero meno conveniente l’ingente impegno finanziario previsto per le infrastrutture ipotizzate ma anche meno a buon mercato la spesa per gli investimenti produttivi, senza contare il maggior onere del debito pubblico per il Tesoro americano.
C’è infine il rischio che la manovra della FED possa continuare ad attirare capitali da oltreoceano e questo non solo possa dare troppa forza al Dollaro, divenendo un fattore penalizzante per i profitti aziendali delle grandi multinazionali americane, limitandone l’export.
JANET YELLEN
Il rischio è inoltre che il fenomeno del super Dollaro vada oltre la fisiologia, risucchiando risorse dalle economie dei Paesi Emergenti che potevano essere destinate colà ad investimenti produttivi. In più con la svalutazione delle loro divise monetarie contro Dollaro, esse vivrebbero di nuovo una riduzione dei ricavi dalle esportazioni di petrolio e materie prime, unitamente alla crescita dell’inflazione indotta.
La Cina per esempio, pur essendo divenuta la seconda economia al mondo, sta vivendo molto male la vicenda perché il drenaggio di capitali attirati dal continente americano toglie risorse finanziarie ad una crescita dei consumi interni considerata essenziale per la transizione della sua economia ad un successivo stadio evolutivo. Il sistema finanziario cinese, con il suo gigantesco sistema bancario-ombra, è peraltro molto instabile ed è stato sino ad oggi la preoccupazione principale del governo centrale.
Infine tra le minacce più potenti a sbarrare la strada al successo del presidente eletto c’è il fronte interno del “suo” partito repubblicano, popolato di molti falchi conservatori che vedono male una crescita, seppur temporanea, del deficit di bilancio. C’è da giurare che saranno ancora una volta i compagni di partito eletti al Congresso i peggiori avversari del nuovo inquilino della Casa Bianca. Cercheranno infatti di limitare non poco l’approvazione in parlamento della raffica di novità provenienti dall’amministrazione Trump.
Qualche ragione quei falchi conservatori potrebbero persino averla davvero, dal momento che dopo lo shock del 2008 l’America ha vissuto un periodo di sette anni di crescita economica, quasi senza precedenti.
Sono in molti a chiedersi quanto durerà ancora il ciclo economico in corso, dal momento che la nazione risulta fortemente indebitata (tanto a livello privato quanto pubblico) e, si sa, dopo un periodo di espansione del debito viene sempre un momento di ritorno al “de-leveraging”, cioè di rientro dell’esposizione debitoria, cosa che inevitabilmente frena la crescita economica.
3) LA BOLLA SPECULATIVA DI WALL STREET NON FA COSÌ PAURA
Il prof. Robert Shiller della Yale University ci fa notare che le azioni dell’indice SP500 della borsa americana vengano valutate in media più di 27 volte i loro profitti medi, cioè circa il 63% al di sopra dei valori medi di lungo termine.
Qualcun altro ricorda che questi livelli di moltiplicatori degli utili aziendali si erano visti amWall Street soltanto poco prima della crisi del 1929!
Se da un lato possiamo felicemente notare che l’ottimismo dei mercati trova fondamento nella coraggiosa iniziativa del presidente eletto di tagliare decisamente la tassazione sugli utili aziendali (favorendo così il “rimpatrio” dei profitti lasciati all’estero dalle imprese americane e la loro emersione dalle politiche fiscali precedenti), non possiamo però fare a meno di osservare che la bolla speculativa di Wall Street che è conseguita alle elezioni presidenziali non ha solo riguardato i titoli con le migliori prospettive, bensì praticamente l’intero listino.
D’altra parte la Federal Reserve ha forse atteso troppo a lungo a rialzare i tassi di interesse e i mercati (che hanno visto un incremento implicito dei rendimenti obbligazionari di almeno mezzo punto) hanno festeggiato con euforia la necessità imprescindibile delle amministrazioni fiscali di tutto il mondo di tenere bassi i tassi a causa dell’enorme fardello di debiti pubblici che altrimenti costerebbero troppo cari.
Certo però dopo otto anni di Quantitative Easing prima e di tassi quasi a zero poi è difficile evitare di mettere in relazione le quotazioni stellari del listino americano con la politica monetaria più espansiva del secolo!
Oggi il rischio è divenuto quello che la bolla speculativa arrivi a scoppiare prima che la FED intervenga con sufficiente forza, per quanto le prospettive dell’economia reale possano risultare nel complesso migliori di quanto i giornali di tutto il mondo avessero lasciato credere prima del successo di Trump alla Casa Bianca.
Il punto è che se la Federal Reserve agirà in maniera decisa, dunque più decisa di quanto i mercati si aspettino, la borsa inevitabilmente stornerà e quantomeno ciò rischierebbe di farci rivedere un incremento della volatilità dei corsi. Niente di peggio per un Presidente che deve ancora insediarsi!
Il ribasso di Wall Street è dunque scontato e anzi imminente? Non è proprio detto, tanto per ragioni di macroeconomia (l’America sembra orientata ad una nuova crescita economica nonostante il suo ciclo espansivo duri dal 2009 in poi), quanto perché le medesime ragioni che hanno sino ad oggi indotto la FED alla prudenza potrebbero far sì che essa si limiti a seguire la curva dei rendimenti già espressi dai mercati, di fatto non penalizzandoli, anche per non danneggiare troppo il bilancio federale con il rialzo del suo costo del debito.
D’altra parte sono almeno due anni che molti analisti predicono un ritorno a quotazioni più moderate dei mercati azionari e, nonostante di principio essi potessero affermare cose logiche, il mercato è andato dalla parte opposta e non è così scontato che non prosegua.
Fino a quando?
Difficile dirlo, ma se vogliamo peccare di ottimismo potremmo attenderci dopo Natale uno stop generalizzato alla crescita dei corsi azionari e una loro rotazione che tenga meglio conto delle differenze di performance tra i settori ciclici e quelli anticiclici, senza che pertanto i listini debbano dunque necessariamente scendere nel complesso.
L’alternativa è che la speculazione di breve periodo tenti di anticipare tutti gli altri innestando un movimento al ribasso fin da subito. Ma in tal caso essa -per definizione- avrebbe una logica di breve respiro!
Nessun tracollo catastrofico quindi è così probabile, nemmeno con una bolla speculativa di queste dimensioni!
4) MONTE DEI PASCHI: LA PUNTA DELL’ICEBERG
Il timore di molti osservatori del caso del Monte dei Paschi è che esso rappresenti solo la punta dell’iceberg del complesso di tutti gli istituti di credito che compongono il sistema bancario italiano, a prescindere probabilmente anche dalla dimensione degli istituti, dalla latitudine della loro localizzazione e dall’ammontare dei titoli obbligazionari di cui hanno infarcito la clientela.
A nessuno possono sfuggire infatti due fenomeni macroscopici che li riguardano: la “mala gestio” (come si dice ancora in Tribunale in caso di dissesto) che ha caratterizzato quasi tutte le banche italiane e la sproporzione tra l’ammontare dei crediti in sofferenza (altissimo) e gli aumenti di capitale di cui si parla (una piccola frazione dei primi).
Al di là di ogni possibile tecnicismo (che, man mano che la crisi incalza, lascia sempre più il tempo che trova), quel timore (che il caso del Monte dei Paschi rappresenti solo la punta dell’iceberg dell’intero sistema bancario nazionale) diviene una quasi certezza se si tiene conto degli enormi interessi politici che covano sotto la cenere degli istituti la cui situazione è già destabilizzata.
Possiamo dividere questi interessi politici in due grandi tronconi:
- Da un lato quelli dei partiti italiani (e delle fondazioni bancarie da essi occupate militarmente), che hanno utilizzato gli istituti come un bancomat per ottenere voti di scambio (portandoli quasi tutti al dissesto), i quali premono affinché lo Stato (cioè i contribuenti e il debito pubblico) si faccia carico della situazione, al fine di non mollare il più importante strumento nelle loro mani;
- Dall’altro lato gli altri Paesi membri dell’Unione europea, che hanno sempre visto nelle banche italiane un buon boccone da prendersi quasi gratis (francesi in testa), ma che d’altra parte sono divenuti oggi assai insofferenti della situazione che si è creata in Italia, potenzialmente esplosiva per l’intero sistema finanziario europeo.
È evidente che quegli interessi politici al riguardo non solo configgono tra di loro, ma costituiscono il più serio ostacolo alla risoluzione del problema di stabilizzazione delle banche italiane!
Nonostante che quanto sopra costituisca un immenso duplice ostacolo, il problema delle banche italiane non potrà mai dirsi risolto senza tenere conto dei due fenomeni inizialmente indicati:
- La qualità del management bancario
- L’ammontare di capitale davvero necessario.
A proposito del primo dei due (la qualità del management), mi permetto qui di citare il prof. Alberto Bisin quando scrive che anche un bambino può ben comprendere che riempire un contenitore che rimane bucato è normalmente impossibile, oltre che inutile.
Fuor di metafora: sino a quando le aziende bancarie non saranno amministrate con competenza da chi ha già mostrato altrove di potervi riuscire con successo, sarà davvero difficile tanto dare una speranza di ritorno economico al capitale investito quanto ottenerlo da chi ne dispone.
Saranno delle grandi ovvietà, ma dalla lettura dei giornali e dei più autorevoli commenti al riguardo non sembra di trovarne traccia!
A proposito del secondo fenomeno (la sproporzione tra le perdite su crediti e l’ammontare degli aumenti di capitale oggi citati) io qui pubblicamente ammetto la mia ignoranza: non mi è chiaro con quali diavolerie sia possibile tamponare definitivamente una falla da 47 miliardi di euro (le sofferenze di MPS) con un supposto aumento di capitale da 4 o 5 miliardi!
Temo però che il problema sia che non è chiaro a nessuno.
A meno di uno sperticato ottimismo che porti a ritenere di poter recuperare buona parte di quei crediti, erogati dagli uomini del Monte più sulla base delle “amicizie” che su quella della logica, se le perdite potenziali ammontano alla differenza tra i 47 miliardi nominali e il valore di mercato di quei crediti in sofferenza (meno di un terzo), ci vuole un pari aumento di capitale (cioè servono 30 miliardi di Euro malcontati)!
Se invece di dotare l’istituto delle risorse che servono a compensare tali perdite, proviamo a foraggiarlo soltanto un po’ alla volta (con 4-5 miliardi di Euro), il risultato è che nessun investitore sarà mai davvero tranquillo circa la possibilità di averlo risanato con quel capitale!
E dunque non investirà.
Reperire quella manciata di miliardi di Euro per il Monte dei Paschi potrebbe perciò risultare inutile e financo rischioso, così come il giudicare un iceberg osservandone solo la parte emersa.
5) CI VORREBBE UNA NUOVA YALTA
TRUMP E PUTIN AVREBBERO TUTTO L’INTERESSE A FARE UN ACCORDO, MA DEVONO CAPIRE COME RIUSCIRCI
In tutta la campagna per le elezioni presidenziali americane si è parlato di Putin e adesso che Trump ce l’ha fatta, viene da chiedersi cosa farà davvero in politica estera il Presidente Eletto.
In primo luogo osserviamo che se fosse vero che le mail compromettenti di Hillary sono state trovate e spedite al pubblico ludibrio dagli hakers di Putin, sarebbe chiaro che a lui Trump adesso deve un piacere, che potrebbe ricambiare con l’abbandono delle sanzioni economiche inflitte alla Russia.
In secondo luogo oggi in Occidente Putin è visto da molti come uno dei pochi politici tutti d’un pezzo capaci di combattere davvero il terrorismo. Trump con il suo pragmatismo potrebbe cavalcare l’immagine positiva di cui Putin gode anche in America spacciandolo per una specie di salvatore dell’Occidente: se si vuole questo lo si può chiamare populismo, e Trump ne ha usato tanto per farsi eleggere, ma è altresì noto che egli è un uomo che. Joke risultati tangibili per i suoi elettori e dunque difficilmente si lascerà guidare dalle ideologie pro- o contro-Putin.
Resta il fatto che se oggi Trump volesse rivedere la posizione del suo governo nei confronti di Mosca, non partirebbe da zero. La gente non crede più al 100% ai soliti media americani che dipingono Putin come un mostro capace di scatenare l’atomica pur di consolidare il suo potere.
Anche la motivazione ufficiale delle sanzioni economiche erogate alla Russia è una favoletta relativamente facile da smascherare: la Russia afferma che storicamente la Crimea è sempre stata sua e che in Ucraina sono stati gli Americani a volere il colpo di stato per creare tensioni e colpire Putin, gli USA invece sostengono di aver aiutato solo i pacificisti che si preoccupavano dei diritti umani e della corruzione del precedente governo ucraino. La replica Russa è assai semplice: il Governo attuale quanto a corruzione non è da meno e per certo è stato inerte quando oltre un milione di persone sono state costrette a fuggire dai luoghi dove abitavano salvandosi oltre il confine con la Russia.
Chiunque può capire che probabilmente la verità sta nel mezzo: per i Russi vedere i missili Nato schierati ai propri confini non è rilassante, per gli Americani vedere muoversi l’esercito Russo in giro per il mondo (come ora per esempio in Siria), nemmeno! Non erano gli Americani quelli che difendono la democrazia e le libertà nel mondo civile? E com’è che contro l’Isis non sono riusciti a concludere nulla e anzi se la prendono con Bashar El Assad?
Per non parlare della Crimea: riuscire a prendersi la base militare russa di Sebastopoli era un boccone troppo appetibile per un governo ucraino telecomandato dagli Americani. Senza uno sbocco nel Mediterraneo la flotta russa a nord sarebbe stata bloccata nove mesi l’anno dai ghiacci dell’Artico e a est relegata ai confini dell’Oceano Pacifico. Era chiaro che Putin avrebbe fatto di tutto per impedirlo.
Come ha fatto di tutto per sostenere il contro-colpo di stato di Erdogan in Turchia, divenendone improvvisamente amico: lì ci sono i Dardanelli, e senza quel passaggio controllato da Istanbul la flotta russa non può spingersi verso il Mediterraneo. Ma in questo caso l’errore l’hanno fatto gli Yankee: hanno cercato di far fuori Erdogan sostenendo la forzatura dei suoi oppositori nel momento più sbagliato, e Putin ne ha istantaneamente tratto profitto salvandolo.
Ma il vero problema sta negli equilibri interni al mondo islamico: la Russia ha sempre sostenuto gli Sciiti, che in molti casi hanno rappresentato la parte moderata dell’Islam, quella che ha permesso l’instaurarsi di governi relativamente laici in Afghanistan (prima che gli Americani iniziassero a sponsorizzare i Talebani), in Irak (fintanto che gli Americani non hanno fatto fuori Saddam Hussein), in Iran (sino alla rivoluzione di Komeini, chiaramente sponsorizzata dagli Americani con la scusa della corruzione del governo dello Scià), come pure in Libano (dove oramai convivono diversi governi, chiaramente con referenti esteri opposti), fino alla Siria, da decenni dominata dalla famiglia Assad, storicamente vicina alla Russia.
Gli Americani invece hanno stretto relazioni molto forti con il califfato, cioè i Sunniti, dominati (e finanziati) dalla famiglia reale Saudita in Arabia e dagli emiri del Golfo Persico. L’Isis è una devianza estrema dei Sunniti e Trump stesso accusava Obama in campagna elettorale di averli sostenuti per il tramite degli Emirati. Ora però è chiaro che se Trump dovesse fare un patto di ferro con Putin, allora la fazione islamica dei Sunniti, quella sostenuta dall’America sino ad oggi nonché la più numerosa e più presente in Africa, diverrebbe una variabile fuori controllo. Dunque non può che muoversi in un contesto molto più ampio.
D’altra parte il vero rivale con il quale in futuro l’America dovrà confrontarsi è la Cina, con il suo miliardo e (presto) mezzo di cittadini, molti dei quali iniziano ad essere sempre più acculturati e benestanti. Gettare la Russia (che ha il più vasto territorio del mondo e la seconda potenza militare ma ha solo 140 milioni di abitanti) tra le braccia della Cina non è stata una buona mossa da parte di Obama.
Dopo le sanzioni e l’embargo di gas e petrolio la Russia ha iniziato a vendere alla Cina tutto ciò che non vendeva più all’Europa. Trump dice che Obama lo ha fatto per sostenere forti interessi economici in ballo di coloro che lo avevano fatto eleggere: un gruppo di potere formato da alcune famiglie tra le più ricche nel mondo anche noto come Bildenberg Club.
Ecco dunque che lo scacchiere internazionale è piuttosto composito, e Trump sa che se vorrà continuare a governare con l’appoggio del ceto medio che lo ha votato dovrà avere un certo successo in politica estera, favorendo un’accelerazione della crescita economica internazionale che possa alla fine riflettersi nell’aumento del tenore di vita delle famiglie che si è ridotto nonostante il PIL sia salito negli ultimi anni.
I detrattori di Trump dicono che con le sue idee egli non farà che accelerare il declino dell’Impero Americano, i fautori sostengono che l’alternativa all’arrivo di Trump sarebbe stata la terza guerra mondiale. Certo Trump ha diviso in due l’America, mentre Putin viceversa nel suo Paese gode di un grande sostegno popolare, perché è riuscito a ridurre la corruzione e a far funzionare decentemente l’apparato statale. Tuttavia Putin ha un problema più grande: sa di dover urgentemente rinnovare il suo sistema industriale perché un’economia che basa la sua sussistenza sull’ex port di risorse naturali non sarà sostenibile. Conseguentemente sa di non poter restare al comando in eterno e forse non lo vuole nemmeno più.
In questo scenario in cui l’Europa (Germania compresa) manca completamente di una politica estera autonoma, la Cina flirta con entrambi i contendenti rischiando di profittarne più di tutti: mantiene un approccio pragmatico nei confronti di Trump, il quale ha più volte minacciato, in campagna elettorale, di innalzare nuove barriere doganali che danneggerebbero l’export cinese in America , e a livello di relazioni internazionali sfoggia una calma celestiale anche per timore che la situazione interna le sfugga di mano proprio mentre la propria economia continua a crescere vigorosamente. Ma la Cina deve fronteggiare il dilemma di come far fronte al consistente deflusso di capitali dal proprio territorio, che sta deteriorando il cambio con il Dollaro: nel breve periodo è andata bene a tutti, però alla lunga questo riduce il potere d’acquisto dei consumatori cinesi!
Torniamo allora all’Europa di Merkel e Hollande, che si sono detti sdegnati tanto dall’esito del referendum britannico quanto dal risultato elettorale americano.
Junker, posto in mezzo a Francia e Germania a fare l’ago della bilancia, sa di rischiare molto la propria permanenza al potere perché proprio nel prossimo anno ci saranno elezioni in Francia e Germania e forse anche in Italia, con una qualche probabilità che vincano i partiti “populisti”, e la possibilità che l’Unione europea giunga quindi a tensioni interne capaci di farla disgregare, riportandola ad essere quasi solo un’unione doganale.
La cosa tatticamente non è detto che dispiaccia a Putin e Trump, anche se gli istituti di studi strategici fanno fatica ad elaborare una teoria di vera convenienza per l’America dalle ceneri dell’Unione Europea, anzi: almeno dal punto di vista economico in caso di vittoria dei partiti populisti in tutto l’Occidente, chi potrebbe affermare la propria supremazia è il vicino di casa russo, mentre i mercati finanziari potrebbero risentire assai negativamente della prospettiva! E la mole dei debiti pubblici dell’Europa (i cui titoli in scadenza vanno costantemente rinnovati) non lo permette affatto.
Mai più che oggi sarebbe necessaria tra i grandi blocchi del mondo una nuova grande cooperazione internazionale, ad esempio una nuova Yalta (come nel dopoguerra). Ma quanto sopra attesta un quadro assai difficile che con ogni probabilità verrà trattato con estrema cautela da due leaders che, se non avessero le complicazioni sopra indicate, avrebbero già deciso di cooperare, sempre che qualcuno -per impedirlo- non riesca a farli fisicamente fuori, prima dell’insediamento di Trump.
Il partito della guerra, si sa, ha sempre molti iscritti. E il focolaio esplosivo degli interessi economici che si contrappongono in Siria potrebbe arrivare a far degenerare Aleppo in una nuova Sarajevo, addirittura già prima che Trump riesca a salire sul suo scranno a Gennaio. Dopo sarebbe certo più difficile.
6) LA BCE VA AVANTI, L’ITALIA PUÒ ATTENDERE…
La figura di Mario Draghi sugli schermi di tutto il mondo si staglia con forza e determinazione nell’utilizzo-ancora una volta- di tutti gli strumenti a sua disposizione per spianare la strada all’incerta ripresa economica europea (incerta è peraltro la “media del pollo” della crescita economica europea: dal momento che in Germania e dintorni ne mangiano due, dalle nostre parti nemmeno uno).
Il contrasto con la figura tutta ottocentesca del nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella non potrebbe essere più netto!
Questi invece accenna quel sorriso marpione a mezza bocca che ricorda a tutti la Gioconda di Leonardo mentre se la prende comoda nel convocare le delegazioni di ogni risma delle “forze” che albergano in Parlamento, pur sapendo che l’Italia ha fretta di riprendere la rotta delle riforme e di presentarsi ai prossimi appuntamenti istituzionali con un Governo degno di quel nome.
L’esito della consultazione referendaria ha infatti seriamente e inequivocabilmente portato il calendario italiano indietro di anni…
Adesso si parla di legge elettorale proporzionale e di Governo di transizione mentre l’unica cosa che oltralpe vogliono sapere su di noi è se devono davvero preoccuparsi per il destino dell’Euro, già debole per conto proprio contro Dollaro.
Ma là fuori dei nostri confini per fortuna il mondo sembra aver innestato una marcia ancor più veloce. L’America, con un presidente eletto che piace improvvisamente a tutti e la sua borsa proiettata verso le stelle, sembra davvero tornata al suo ruolo di locomotiva economica del pianeta mentre l’Asia, con India e Cina in testa, continua la sua corsa che la sta portando a prevalere sul resto del mondo.
Fatte le debite proporzioni relative nemmeno l’Europa è da meno, ma sono gli Stati del nord che se la cavano, lontani anni luce dai Paesi del bacino Mediterraneo, Francia compresa e, forse, Spagna esclusa.
Per questo motivo la BCE rimane possibilista ma non può sventolare la bandiera dell ottimismo e, nonostante vada avanti con l’acquisto di titoli, deve stare più in campana possibile.
Certo le prospettive per il 2017 sono in generale molto buone, tali da farci dimenticare i nostri problemi endemici e l’incubo delle nostre banche. Ma l’Italia delle piccole e piccolissime imprese ha bisogno quelle banche come l’ossigeno. Se si spengono le une cessano di respirare anche le altre.
Magari non succederà, ma il divario tra il nostro Paese e il mondo civile e industrializzato sta aumentando… Presto non ne saremo più parte. E a chi dovremmo essere grati di ciò?
7) TRUMP ORA TROVA CONSENSO ANCHE NELLA FEDERAL RESERVE
L’INCREMENTO NELLA SPESA PER INFRASTRUTTURE E FORMAZIONE SUL LAVORO CHE DONALD TRUMP STA METTENDO A PUNTO PUÒ STIMOLARE LA RIPRESA DEGLI INVESTIMENTI E LA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO
Il vice presidente della Federal Reserve, Stanley Fisher, ha affermato ieri al Congresso delle Relazioni Internazionali di New York che finalmente forse con la prevista espansione degli investimenti americani in nuove infrastrutture le banche centrali non saranno più sole nel garantire una ripresa dell’economia soltanto attr politiche monetarie espansive.
Come dire: tutto il contrario delle aspettative catastrofiche espresse da buona parte degli economisti in caso di elezione di Donald Trump!
L’espansione del bilancio pubblico, se oculata, -ha proseguito Stanley Fisher- può anche portare ad incoraggiare gli investimenti produttivi privati e conseguentemente ad una crescita della produttività, variabile che sino ad oggi è rimasta sin troppo piatta in buona parte dei paesi più industrializzati.
Addirittura Fisher si è spinto ad affermare che l’espansione degli investimenti pubblici se incentrata su misure in grado di provocare la crescita della produttività può “facilitare il compito delle banche centrali lavorando su variabili di politica economica di più lungo periodo”, dopo che per molto tempo i governi sono rimasti inattivi su tale fronte.
Il programma del partito repubblicano prevede infatti di cogliere l’occasione storica che si prospetta al nuovo Presidente attivando contemporaneamente un taglio delle tasse e nuovi incentivi per gli investimenti produttivi, oltre appunto al trilione di dollari già previsto per rinnovare tutte le infrastrutture più strategiche proprio mentre i tassi di interesse sono ancora ai minimi storici di molti decenni.
Ci sono perciò tutte le premesse per affermare che l’America sta davvero per lanciare il suo nuovo New Deal, in uno sforzo coordinato e massiccio volto a restituire maggior benessere ai propri cittadini comuni mettendo più capitali al lavoro per generare più ricchezza collettiva.
Da tutti i punti di vista un’approccio innovativo alle politiche economiche dei conservatori che, dopo un primo approccio diffidente, adesso genera consensi e solleva entusiasmi !
Ma gli ultimi a celebrarlo ci aspettavamo fossero proprio gli alti ranghi della Federal Reserve, che invece oggi plaude e propone di coordinare con il nuovo Governo gli sforzi da compiere, anche per riportare l’inflazione attesa su livelli leggermente maggiori, facilitando il temuto aumento dei tassi con una maggiore prevedibilità delle politiche economiche governative.
E chi l’avrebbe mai detto anche solo un giorno prima che Trump venisse eletto?
8)L’OMBRA LUNGA DELLA YELLEN SUI CONTI PUBBLICI ITALIANI
Noi Italiani siamo da tempo immemorabile abituati a non preoccuparci mai troppo per gli eventi. Con un filosofeggiare a metà strada tra l’incoscienza e il relativismo mediterraneo, persino i nostri governanti dicono a tutti di stare sereni anche quando non ce ne sarebbe alcun donde.
È questo il caso del rialzo dei tassi di interesse, che sarà provocato a breve da una discutibile presidentessa della Federal Reserve of America la quale, nell’affermare che non si dimetterà (subito) dopo l’elezione di Trump, è decisa a di riaffermare la propria grigia e deteriorata immagine con un ultimo colpo di coda, dopo che l’elezione di Trump ha spinto in un colpo solo i mercati dove lei cercava di arrivare da anni, provocando tra l’altro una risalita dei tassi di quasi mezzo punto!
La cosa per molte cause ha dato un limitato fastidio ai mercati borsistici che avevano digerito già, nelle loro valutazioni, un aumento dei tassi di un quarto di punto e che hanno tutto sommato continuato a veleggiare sulla scia del l’entusiasmo di una nuova era e beneficiando della liquidità aggiuntiva che si è liberata dai disinvestimenti nei titoli a reddito fisso. Ma ora la borsa è ai massimi di sempre e molti si aspettano che possa non proseguire la sua corsa, mentre il prossimo rialzo dei tassi nei programmi della banca centrale USA é solo il primo di una lunga serie!
Il problema dunque rischiamo come al solito di beccarcelo noi Italici, da sempre “amici” dell’America (soprattutto sembrano esserlo i nostri politici più che noi stessi), dal momento che per quanto il momento sia di grandi entusiasmi, il ribasso delle quotazioni del reddito fisso può rovinare le pianificazioni economiche del governo e mandare alle stelle lo spread tra il rendimento dei nostri titoli pubblici e quelli dei nostri “amici” (anzi: dei nostri “partners” europei): i Tedeschi.
Il perché è presto detto: in caso di possibile instabilità dei mercati preferireste avere in mano titoli a rischio di mancato rimborso come quelli nostrani, o titoli “sicuri” come quelli tedeschi? E la possibile instabilità finanziaria nei prossimi mesi (o almeno sino a quando Trump non si insedierà nella Casa Bianca) non è una “ipotesi di scuola”, bensì una quasi certezza.
I nostri ministri di economia e finanze sanno bene quanto può pesare un mezzo punto in più di tasso in termini di milioni di euro di interessi aggiuntivi da pagare sul nostro trabordante (e crescente) debito pubblico ! Ma ovviamente siamo in campagna elettorale permanente e non è proprio il caso di ricordarlo ai risparmiatori italiani, né ai giornali o alle tivù.
Intendiamoci: non è detto che la maretta -se mai arriverà- debba durare a lungo sui mercati, ma a noi peninsulari che avevamo giurato fedeltà all’obiettivo di rialzare il deficit e stimolare l’economia con nuova spesa pubblica, il combinato disposto di un rialzo dei tassi, di un indebolimento dell’Unione europea e delle polemiche connesse alle possibili elezioni politiche a breve termine potrebbero assestare una severa botta in testa!
La nostra borsa è ancora piena di titoli bancari e potrebbe non risentirne troppo a causa del fatto che non è cresciuta sino ad oggi come le altre e poi il rialzo dei tassi di interesse migliora la redditività caratteristica di chi presta denaro. Ma l’incertezza sul rating del Bel Paese può incentivare un fenomeno deleterio e in atto oramai da decenni: l’esportazione (più o meno ufficiale) dei capitali degli Italiani.
Se accadesse c’è da attendere una possibile bufera sul debito pubblico nazionale proprio mentre il resto del mondo si avvia verso un percorso di potenziale nuova crescita e nuovo slancio imprenditoriale, e mentre l’America si prepara a tornare al suo ruolo di locomotiva dell’economia mondiale, sarebbe una vera iattura per il nostro Paese.
9) IL COMPROMESSO INNANZITUTTO
Per una volta i sondaggi avevano ragione da vendere, sebbene non avessero davvero colto la misura del dissenso, ben superiore a qualche punto percentuale. Questa prevedibilità del risultato forse ci risparmierà un vero e proprio tracollo dei mercati finanziari Italiani, i quali sono già sotto pesante schiaffo per il comparto bancario e per i titoli di stato (che non vuol comperare più nessuno).
Resta però il fatto che quel riscatto nazionale (economico, ma anche politico, e come tale capace di influenzare positivamente l’Unione Europea) che eravamo in molti a sognare attraverso le riforme “a tutti i costi” non arriverà neanche stavolta. Quel che arriverà (o meglio: che tornerà) si è già visto in TV poco dopo che si era diffusa la notizia del NO: le solite facce dei D’Alema e degli altri boiardi di stato della prima repubblica.
Renzi d’altra parte poteva giocare meglio le sue carte: la lezione della politica, quella che Trump nonostante i suoi eccessi ha mostrato di avere ben digerito portando a casa il supporto di Pence e di parecchi altri che hanno giocato un ruolo fondamentale per la sua vittoria, il Matteo nazionale non ha voluto proprio sentirla: il consenso della maggioranza del popolo in Italia non lo ottiene mai nessuno da solo!
E Matteo era solo con pochi intimi da troppo tempo. Se voleva fare una dimostrazione di forza c’è riuscito: la sua coalizione contro quasi tutte le altre ha superato il 40% dei consensi popolari. Cosa che nel nostro Paese non era riuscita nemmeno a Berlusconi! Però da sempre la nostra è la patria dei compromessi e delle ingerenze esterne. La coerenza da sola non ce la fa a sfondare, ahimè !
Qualcuno ha detto che ha sbagliato a personalizzare la partita delle riforme, io non sono d’accordo, ma ammetto che nel nostro Paese sono totalmente ininfluenti le cose che nelle democrazie più evolute contano di più: i fatti e i programmi ! Lo dimostra il successo di Grillo, che si è sempre ben guardato dal proclamarli e che ha la fortuna di un proprio partito che non governa quasi nulla, altrimenti non rischierebbe di vincere le prossime elezioni.
Renzi ha anche sbagliato molte altre cose, a partire dalla linea politica che non era né populista né radicale, né conservatrice né socialista, né interventista né tatticista. Era un compromesso anch’essa insomma, che non ha convinto troppo nemmeno i benpensanti, i quali si sono divisi tra coloro che ascoltavano i leaders della destra e quelli che volevano stare con Renzi nella speranza di veder finalmente cambiare qualcosa.
I suoi oppositori però hanno sbagliato a non accettare mai la sua ascesa, a insistere nello spaccare il partito democratico fino a desiderare che perdesse. Questo è un suicidio politico e lo si potrà facilmente vedere alla prossima tornata elettorale.
Il Paese va avanti ugualmente, per modo di dire, perché nessuno si aspetta che succeda un bel niente, ma il vuoto nella leadership politica ha partorito presto un nuovo Presidente del Consiglio (è la Costituzione che ne lascia appannaggio al Presidente della Repubblica) e questo è di per sé un buon segno.
Per gli illusi che però costui risulterà relativamente indipendente da chi lo ha proposto e da chi intende manovrarlo, viene da ricordare che il consenso di entrambe le camere il governo lo ottiene solo alla vecchia maniera: con il compromesso, appunto!
10) IL GOVERNO DI GENTILONI POTREBBE RIUSCIRE DOVE HA FALLITO RENZI
Due conti sulle (improbabili) elezioni basati sul Referendum:
- il 68,48% degli italiani aventi diritto ha votato
- il 40,88% ha votato no (il 59,7% del 68,48%)
- il 32,52% degli aventi diritto non ha proprio votato
- il 27,6% di essi ha votato si (il 40,3% del 68,48%).
Se dentro il no (40, 88% degli aventi diritto) ci mettiamo destra, sinistra all’opposizione, 5stelle e inc…ti, possiamo pensare che, in caso di elezioni subito, al 5stelle andrebbe al max il 25-30% dei voti (forse anche meno), più o meno però alla pari con la coalizione di Renzi (27,6%).
Ago della bilancia resterebbe probabilmente la destra di Berlusconi e Salvini o (meno probabilmente) l’estrema sinistra anti-Renziana.
Le riforme tarderanno, si tornerà alla legge elettorale precedente (proporzionale, uguale a ingovernabilità) e l’Italia, con un deficit che cavalca e una ripresa già terminata, sarà la nuova Grecia.
Dunque votando presto cosa cambierebbe? Temo nulla. Solo che i (pochi) nuovi parlamentari non avrebbero maturato il loro diritto al “vitalizio”.
A meno che nel frattempo qualcuno non riesca a “consumare” l’immagine di Renzi votando quelle riforme che il governo “di transizione” tornerà a proporre, mostrando così la debolezza del suo predecessore. Gentiloni dunque -sebbene per puro calcolo politico delle opposizioni- potrebbe anche riuscire in quello che a Renzi hanno impedito di fare.
Oscar Wilde amava ripetere che non c’è nulla di più stabile della precarietà e, per quanto buffo, sarei felice di constatarlo se, per una volta, i calcoli della lotta tra partiti potessero far bene al Paese!
11) MILANO NEMESI STORICA DI STARBUCKS
Howard Schultz, il fondatore di Starbucks, che nel farlo si era ispirato proprio al caffè italiano quando trent’anni fa se ne era innamorato sedendosi in un caffè del centro a Milano, ha annunciato a sorpresa le sue dimissioni da Ceo del gruppo e non sarà dunque lui a inaugurare il nuovo, elegante coffee shop in piazza Cordusio, che Starbucks aprirà a Milano a metà 2017, né quelli che sono in calendario subito dopo a Verona e Venezia.
È un’ironia del destino se si pensa che tutta la favola della gigantesca catena di caffetterie (oggi 24mila in 72 Paesi con 19,8 miliardi di dollari di fatturato) è iniziata quando Schultz venne proprio a Milano, si sedette a un caffè e disse «Voglio fare qualcosa di simile in America» .
Schultz aveva più volte affermato che «quello italiano è il progetto più importante per la nostra compagnia», e che «ci abbiamou messo tanto per non fare brutte figure proprio in Italia».
Schultz su quell’esperienza meneghina che lo aveva ispirato (e fatto diventare ricco) aveva elaborato una sua teoria e ci aveva scritto un famosissimo libro.
12) KOREA
UNA BELLA SCOPERTA
Un volo di 9000 chilometri non deve spaventare più di tanto chi decide di mettersi in viaggio per andarvi, soprattutto se si utilizzano le aerolinee coreane: la gentilezza di hostess e stewards è seconda solo alla loro tempestività! Si parte di sera alle 20 e si arriva al mattino alle 6, che però li sono già le 14. Se si riesce a dormire dopo aver mangiato bene e assaggiato ottimi vini è una vera passeggiata!
La Corea del Sud è tuttavia difficile da inquadrare con i nostri canoni di giudizio, se non con le generiche affermazioni che riguardano i Paesi dell’Asia orientale: gente molto premurosa, organizzata e disciplinata, quasi militarmente.
La Corea del Sud in più è un Paese molto piccolo, tecnologico, bello, moderno, ricco… Sembra una piccola Svizzera, incastonata in un angolo fortunato dell’Oceano Pacifico. Questa fortuna però sembra non riguardare la meteorologia: la Corea è vittima di correnti fredde che scendono dalle montagne a ridosso dell’oceano e si scontrano con il clima umido del Mar del Giappone, generando spesso piogge e nebbia.
E ciononostante essa resta un Paese angosciato dal suo fratello gemello: la Corea del Nord, che per molti versi è tutto il contrario, non soltanto dal punto di vista estetico e dell’opulenza (che gli manca totalmente: quasi 70 anni di dittatura hanno spento qualsiasi iniziativa economica e lo hanno ridotto sul lastrico), bensì soprattutto è il contrario per quanto riguarda l’aria che lì si respira. È infatti oggi definita come la quintessenza dell’assolutismo: una specie di regime da Grande Fratello di George Orwell, un vero e proprio inferno, che minaccia ogni giorno di lanciare un’atomica ai suoi cugini “ricchi” del sud.
Gli altri Paesi limitrofi della Corea non sono da meno quanto a cattivi rapporti nei confronti della Corea del Sud: la Cina è stata un rivale storico forse quanto lo è stata per Taiwan (che però è un acerrimo concorrente della Corea) sino all’altro ieri, frontalmente opposta per questioni ideologiche, come peraltro lo era la Russia che ha il suo avamposto più orientale a un passo da Seoul: Vladivostok .
Il Giappone che è molto legato alla Corea per fatti di sangue (le due popolazioni sono della stessa etnia) non lo è altrettanto se prendiamo in considerazione i rapporti bilaterali, che sono sempre stati di grande rivalità commerciale.
E infine c’è il più scomodo degli alleati: l’America, che non è vicina di casa ma è come se lo fosse ! La Corea del Sud resta ancora oggi politicamente una sorta di suo protettorato, tanto quanto lo è Santo Domingo, solo molto ma molto più dinamico e intraprendente (e per questo difficile da controllare).
È proprio l’intraprendenza dei Coreani però che mi porta a viaggiare fino qui: una loro delegazione governativa è venuta a trovare la mia società e ha stretto rapporti d’affari che paiono molto promettenti, nell’ambito dei quali mi ha invitato a parlare ad un Congresso internazionale qui a Seoul: tutto pagato e così ben organizzato che viene da chiedersi: perché il Governo italiano non fa nulla di simile? Perché da noi invece gli imprenditori sono visti come una vacca da mungere? (cambiamo discorso chè mi viene tristezza)…
L’altro grande tratto distintivo dei Coreani, così come lo si può dire per i loro cugini Giapponesi, è la grande compostezza della gente, strutturata in una società civile suddivisa in mille livelli gerarchici, sono rispettosi di un protocollo assai complesso per qualsiasi argomento, sensibili e, soprattutto, estremamente puliti!
Sì, facce pulite, strade pulite, uffici decorosi, sguardi seri ma non tristi, i Coreani sono una bella scoperta per gli Occidentali che, come me, girano il mondo meno di altri.
SOUL OF SEOUL
Si dice che se vuoi capire davvero un Paese non devi fare il turista ma stare con la gente del posto.
Lo spirito di una nazione infatti non si coglie che minimamente nei suoi monumenti, bensì soprattutto nelle facce e nei pensieri della gente.
E io per non farmi mancare nulla sono stato tutto il giorno con i Coreani, (stamane, poi a colazione, in comitato e poi di nuovo a tavola per un “dinner” coi fiocchi), però nulla di nulla: non posso dire di aver capito qualcosa solo per aver parlato con i miei amici e commensali i averli osservati per un giorno.
Alla sera ho invece deciso che dovevo sapere qualcosa di più della Capitale coreana e sono andato nella zona di Gangnam Station a vedere un po’ di”movida” serale. E lì forse ho osservato un po’ di più di quel fatidico spirito!
Siete mai stati a Chinatown di New York? O nei quartieri commerciali più malfamati di Parigi (Rue de Saint Denis, per esempio)?
Ecco, lo spettacolo assai asiatico di strade pedonali e migliaia di insegne una sull’altra, coloratissime, è a dire il vero più o meno il medesimo (e anche gli odori forti di frittura) ma il “sapore”, quello sì, è completamente diverso!
Niente contrabbando, porno o massaggi, tanto per cominciare: ma quasi solo giochi e locali dove mangiare, bere, intrattenersi e incontrare un mare di giovani (troppo giovani e aitanti, ahimè!) tutti molto per bene, spesso in coppia ma, anche se no, sempre ordinati e allegri.
Neanche grandi magazzini tra l’altro. Anche se qualcuno ce ne sarà lo stesso in città, non sono così frequenti (come persino a Milano in Corso Como si vedono)! E nemmeno l’elettronica di consumo, è così diffusa: quasi non ne ho trovata, se non qualche outlet ufficiale di Apple e
Motorola… Avrei detto il contrario. Più che altro tantissimi locali di ritrovo o specialità alimentari.
Sembrerebbe che quaggiù persino per i film proiettati agisca una severa censura preventiva. Figuriamoci per i PIP Show piuttosto che per i finti massaggi!
E i risultati si vedono: moltissimi dei ragazzi che ho incontrato in giro vestono abbigliamento di tendenza, hanno telefonini di ultima generazione e guidano vetture rigorosamente nere e grandi, ma hanno i capelli corti, l’aspetto sempre decente e le facce sincere. Più di altre cose mi ha colpito l’avere incontrato molte ragazze che giravano da sole o con qualche amica: circolavano sicure e senza bisogno di essere “scortate”.
Quasi impossibile invece per uno straniero riuscire ad apprezzare i (pochi, invero) monumenti nazionali: le scritte sono davvero incomprensibili e te ne fanno passare la voglia. Persino capire cosa vendono i negozi non è talvolta così scontato!
Viene invece in mente la notizia sbandierata da giornali e tivù di tutto il mondo del sommovimento popolare di “oltre un milione” di persone che protestano contro la Presidente del Paese: pare che invece i manifestanti siano stati “solo” 270mila.
E soprattutto quella sera di manifestanti non c’era proprio nessuno in strada. A guardarli in tivù questi cittadini indignati che scendono in piazza con mogli e figli e ci restano da giorni per chiedere le dimissioni della Presidentessa della Repubblica c’è da domandarsi quali obiettivi abbiano, ma soprattutto se esistono davvero.
In questa ripetibile testimonianza di finta allerta mediatica io stavo per non andarci nemmeno in Corea, invece non ne ho trovato traccia e ci si muove in giro per la capitale senza problemi. L’operazione di sommossa popolare antigovernativa sembra quasi solo fatta per le televisioni e non è risultata visibile a chi come me è andato in giro a Seoul: probabilmente la spiegazione sta nel fatto che tra un anno ci saranno le elezioni e “l’indignazione preventiva di piazza” può aiutare a cambiarne le sorti. La solita bassa cucina della politica testimonia che in queste cose tutto il mondo è paese!
ASIA TO DATE
Nei precedenti due capitoli ho scritto della Corea e dei Coreani, ma mi sono soffermato soltanto sulle sensazioni, su riflessioni spontanee e superficiali, le prime che vengono in mente. Nel farlo tuttavia mi sono reso conto della necessità di avanzare qualche ardito paragone con la nostra vecchia Europa, nonché con il “nuovo continente” (la cui democrazia ha pur sempre compiuto i suoi duecento anni).
La nostra società civile ha infatti accumulato numerosi sostrati di civiltà che si sono succedute, di gerarchie che hanno fatto posto ad altre, di agglomerati urbani antichissimi che ne riflettono la storia ma anche le idiosincrasie, di istituzioni che talvolta funzionano più o meno come funzionavano già qualche secolo addietro, se non qualche millennio.
I popoli europei hanno poi storie così diverse da risultare forse condannati per sempre ad essere divisi, le nostre religioni giudaico-cristiane sono anch’esse divise ma anche così cristallizzate da risultare relativamente distaccate dalla società civile, alimentando nella gente la convinzione della totale separatezza delle istituzioni pubbliche dalla spiritualità, necessaria a sua volta per motivare il rispetto dei principi fondamentali per vivere in una vera democrazia.
Ecco, io non mi aspettavo di trovare così tanta spiritualità alla base del rispetto dei princìpi comportamentali che ho constatato in Asia. Non è solo forma, bensì anche tanta sostanza.
È forse la maggior differenza con le nazioni più giovani, più dinamiche e più “sane”, prive delle nostre stratificazioni. Queste ultime sono forse più “vere” nel condividere tali princìpi e per questo anche più “severe”, da loro non ha ancora attecchito quel germe dell’indulgenza che nutriamo verso le nostre debolezze.
A prima vista quella severità tutta asiatica può sembrare una sorta di cattiveria collettiva, o anche assolutismo (e in qualche caso dei peggiori: si pensi al regime dispotico cui è sottoposta la popolazione della Corea del nord), ma da altri punti di vista bisogna notare che la civiltà umana non può resistere a lungo quando le sue regole sono vissute con relativismo, quando ciascuno di noi è in fondo più o meno disponibile ad aggirarle.
Lo stesso vale per l’amministrazione della cosa pubblica: l’uomo ha sempre rubato e succederà anche in futuro, ma la corruzione va punita e disincentivata, affinché non si radichi nel pensiero comune la sua giustificazione e non affligga la possibilità di migliorare il territorio, il popolo, le istituzioni (penso all’Italia: quante cose in più potrebbe fare se non fosse così diffusa?).
Sembrano cose ovvie ma è solo osservando i Paesi dell’Asia che mi rendo conto del fatto che a casa nostra non lo sono più.
In generale sono Paesi che hanno preso il meglio della nostra cultura, tecnologia, impostazione, e poi l’hanno reinterpretata, l’hanno adattata al loro spirito, ma l’hanno anche fatta evolvere, non si sono limitati a copiare. Sì guardi il Giappone, da oltre un trentennio una delle più grandi potenze economiche del mondo: solo qualche decennio fa ci faceva sorridere con i loro omini di piccola statura (oggi sono più alti) che venivano da noi a copiare tutto, per non parlare della famosa “delegazione giapponese” (cioè numerosa), che esibiva gerarchia e inchini (che beninteso fanno tutti in Asia ancora oggi).
Nonostante il progresso economico, le diversità delle nazioni asiatiche con l’America tuttavia non potrebbero essere maggiori: le società asiatiche non sono quasi mai multirazziali, non accettano la libertà assoluta che lì si respira (e che spesso sfocia nell’immoralità.
L’America ha usato altre leve per far crescere la propria economia e aborrisce la pianificazione centralizzata.
In America sono il capitale finanziario e la competizione a sospingere la ricerca scientifica e l’innovazione, non la cooperazione. In Asia ci sono (quasi) altrettanti grandi gruppi industriali e finanziari, ma sono soprattutto proprietari di grandi aziende, non le lasciano totalmente in mano ai loro managers.
Difficile dire chi ha ragione, ma c’è una sconcertante differenza con l’Asia: nonostante l’immigrazione resti elevata, l’America non fa figli, o almeno non ne fa neanche lontanamente quanti l’Asia, che conta in totale 5 miliardi di persone e più di un paio di miliardi nella sola sua parte più orientale.
Nessuna nazione, nemmeno l’America può pensare di continuare a governare il mondo con una popolazione pari a meno del 5% di quella mondiale. La bomba demografica asiatica crea di per sé sviluppo economico.
Il discorso sui confronti potrebbe andare avanti a lungo e non intendo fare violenza su alcun mio prezioso lettore, ma adesso mi è più chiaro che -senza fare queste considerazioni- noi occidentali continueremo a considerare “buffi” gli asiatici, senza riflettere sul fatto che potrebbero essere coloro che un giorno assumeranno i nostri nipoti come camerieri, o dove i nostri nipoti dovranno andare a studiare per non soggiacere alla miseria (altra cosa che non mancherà mai, nemmeno nel più splendido futuro che si possa immaginare).
Osservare dunque queste popolazioni che ai nostri occhi appaiono così “pulite”, così ordinate, così genuine nelle loro aspirazioni, non deve farci sorridere: siamo noi quelli che hanno oltrepassato la linea della decenza, della convivenza civile, del rispetto del territorio, per rischiare di sfociare presto nella più profonda disuguaglianza sociale, in probabili futuri disordini pubblici, che a loro volta è facile siano sinonimo di violenza e prevaricazione.
L’Asia odierna non va solo esplorata e osservata con distacco. Va anche studiata e apprezzata per i valori che può esprimere e che noi oggi non siamo più in grado di apprezzare e rispettare!