Over the top?

INDICE:

  1. Recessioni prossime venture
  2. Uno sguardo ai mercati
  3. La crisi delle banche mette a rischio le Borse
  4. Cinque ragioni per le banche europee sono K.O.
  5. Verso un nuovo Medioevo?
  6. Il vertice di Atene ovvero la parabola dei furbi e dei fessi
  7. La Cina diviene il primo mercato finanziario per quotarsi in borsa
  8. La parabola discendente della mela morsa
  9. Finito il tempo degli investimenti finanziari si torna al mattone!
  10. Il rischio Italia ossessiona gli operatori finanziari
  11. Il mistero dell’inflazione per la signora Maria
  12. Acciaio

1) RECESSIONI PROSSIME VENTURE

La crisi delle banche europee non demorde, anzi: si prospettano nuove vittime in altri istituti anche al di fuori della zona Euro.

La madre di tutte le battaglie sarà probabilmente però la Deutsche Bank (DB), troppo grande per fallire, troppo importante per sperare in qualche trucco con il quale la Germania possa aggirare una normativa (quella sul Bail-In) fatta di recente apposta per mettere in difficoltà le banche degli altri Paesi-membri.

Se eccezioni alla normativa saranno fatte, tuonano i Renzi e gli Hollande, allora sarà per le banche di tutti i paesi europei, dal momento che ciascuno di essi ha qualche scheletro nell’armadio del credito.

La cosa è verosimile che accada, dal momento che DB ha problemi così grandi e così stagionati da risultare difficilmente risolvibili con manovre losche e ancor più difficilmente auto-risolvibili con il tempo.
Il che in realtà suona come una buona notizia, perché vuol dire che il “rischio sistemico” che incombe sul mondo intero, determinato da un’eventuale scivolone delle banche europee, può essere considerato una mera ipotesi di scuola e che DB ben difficilmente diventerà la nuova Lehman Brothers del 2016.

Il punto è che nonostante gli istituti di statistica di tutto il mondo facciano il possibile per raccontarci la favoletta della bambola Goldilocks, dell’eterna, moderata crescita felice, invero dopo molti anni roboanti successivi alla crisi americana del 2008 ci sono decisi segnali a indicare che mondo si avvia a scremare progressivamente le aspettative di crescita economica sino forse ad inaugurare una recessione congiunturale già entro il 2017, a partire da Giappone e Stati Uniti d’America (i soliti “early birds”) con possibili nefaste conseguenze in termini di posposizione delle azioni che sarebbero state urgenti per contrastare i grandi problemi irrisolti del pianeta (fame nel mondo, riscaldamento ed inquinamento globale, infrastrutture, lotta alle epidemie, eccetera).

Quei segnali sono più che piccole spie rosse, sono veri e propri semafori che indicano uno sbarramento del binario della crescita: dal crollo verticale dei volumi del commercio mondiale all’accresciuta instabilità monetaria, dal terremoto occupazionale che rischiano di provocare le nuove tecnologie sino alla permanente sovracapacità produttiva dei Paesi Emergenti, per non voler poi guardare alla progressiva disparità economica che si accompagna alla riduzione del potere d’acquisto delle classi più povere, sino all’insostenibilità del welfare (anche nei Paesi più sviluppati) come pure all’allarme lanciato da tempo sulla tenuta dei sistemi pensionistici in un mondo che, grazie alla medicina, invecchia più di quanto le statistiche non raccontino.

È probabile che l’Europa senta l’arrivo della recessione
con un po’ di ritardo, come è possibile che il denaro delle banche centrali possa in futuro essere finalmente indirizzato sulle infrastrutture globali e tecnologiche. In tal caso forse l’Europa potrà non sentire quasi il morso di una nuova ondata di recessione e disoccupazione, a causa dello stimolo economico proveniente dalla domanda di beni e servizi che le nuove grandi opere richiederebbero.

Ma non dimentichiamoci del fatto che le tensioni geopolitiche del pianeta sono giunte sui livelli dell’ultima guerra fredda (e addirittura sono in molti a indicare in Damasco la possibilità di una nuova Sarajevo), mentre le elezioni in arrivo in Occidente potrebbero essere salutate con molto scetticismo dall’alta finanza e le pressioni perché i tassi tornino a salire potrebbero già da sole provocare un forte slittamento dei mercati finanziari, magari in concomitanza con troppi altri “cigni neri” che possano concorrere ad una nuova crisi di sfiducia sui mercati, soprattutto in Estremo Oriente.

Tutto questo potrebbe far supporre (ovviamente con grande beneficio d’inventario) che l’inversione dell’attuale ciclo globale di crescita economica, possa avvenire con tempistiche diverse e soprattutto con intensità molto diverse per ciascuna zona del pianeta:

  • in America la possibile recessione potrebbe risultare precoce, forse piuttosto intensa (qualora per esempio si sommassero sfiducia nel nuovo Presidente, aumento dei tassi e discesa del biglietto verde), ma anche rapida a scivolare via all’inaugurazione di nuove misure di stimolo economico (per esempio il programma di investimenti in infrastrutture in America è stato lasciato più indietro. He altrove a causa dei problemi degli scorsi anni sul debito pubblico);
  • In Europa essa potrebbe arrivare tardi o non arrivare mai, per la concomitanza di più fattori positivi accanto a quelli negativi, soprattutto qualora nuove politiche di ribilanciamento in ambito comunitario dovessero utilizzare le riserve accumulate dalla Germania per armonizzare le economie;
  • In Asia la possibilità di una recessione è più forte che altrove, anche a causa della lunga sequenza di decenni di ininterrotto progresso economico, che ha sicuramente provocato tanti disequilibri da smaltire nell’ambito della prossima crisi economica.
    Ci si potrebbe aspettare dunque in Oriente fenomeni di rallentamento della crescita (che con la demografia attuale significa minor reddito pro-capite), scivolamento dei mercati e crisi bancarie più intense che altrove e forse anche più prolungate, con il rischio che possa provocare un deciso rigonfiamento dei debiti pubblici e un’ondata di sfiducia negli attuali sistemi politici, a tutto beneficio dell’Occidente;
  • Negli altri Paesi Emergenti forse una vera e propria recessione non arriverà mai a causa del grande gap ancora da colmare con i paesi più avanzati, che di per se è un traino per la crescita, sebbene a livello di reddito disponibile i loro cittadini medi sarebbero ugualmente penalizzati da una nuova ondata recessiva, quantomeno per il venir meno degli aiuti sin qui erogati.
  • Una previsione di calma piatta potrebbe risultare plausibile anche per i blocchi di economie più avanzate di quelle davvero emergenti, ma non “ricche” come quelle degli altri Paesi OCSE: Russia, Brasile, Argentina, Corea, Vietnam, SudAfrica , Australia…
    Alcune di esse potrebbero configurarsi come vere e proprie “isole felici” di relativa calma economica e limitate tensioni sociali, verso le quali potrebbero defluire i capitali in fuga dalle maggiori borse in ribasso mentre il resto del mondo potrebbe anche infiammarsi allo scoccare delle scintille di ciascuna delle singole recessioni prossime venture.

Si tratta ovviamente di scenari e ipotesi, per di più di lungo termine. Esercizi logici o “sillogici” da economisti della domenica, tutti da verificare, sebbene resti in piedi comunque la considerazione di fondo che l’attuale fase di crescita globale non potrà durare all’infinito.

Ma ciascuna delle possibili recessioni prossime venture potrebbe, per i motivi indicati, caratterizzarsi per intensità, modi e tempi, in forma molto diversa l’una dall’altra.

2)  UNO SGUARDO AI MERCATI

I mercati finanziari hanno più volte sorpreso tutti quest’anno, come spesso in quelli bisestili.

A partire dalla ridotta volatilità degli indici di borsa da primavera in poi, con l’esclusione di giugno e luglio e con il minimo raggiunto durante il periodo feriale nel quale tutti si aspettavano, al contrario, possibili tempeste estive.

Certo le Borse non sembrano davvero più capaci di continuare la loro crescita, tanto per i picchi sin qui raggiunti, quanto per il contesto economico globale che vede un accrescersi delle tensioni geopolitiche nei Paesi asiatici ed emergenti, oltre a una generalizzata preoccupazione derivante dall’esito delle elezioni nei Paesi più sviluppati. Il momento di vuoto di potere del trapasso da un presidente all’altro in America potrebbe infatti riservare al mondo delle brutte sorprese.

Tuttavia nel periodo post feriale si sono visti nuovi massimi, sia perché i mercati hanno condiviso l’idea che i tassi non sarebbero stati incrementati presto dagli americani (e, quando più avanti questi lo avrebbero finalmente fatto, avrebbero limato le unghie alle mosche con qualche zerovirgola già ampiamente scontato dalle borse e nell’impossibilità di far granché di più), che per la concomitanza della grande liquidità che continua a venire immessa dalle banche centrali con la cosiddetta sindrome T.I.N.A (there is no alternative) che ha persino frenato la crescita dell’oro oltre ogni condivisa aspettativa.

Per continuare con le sorprese sono stati proprio i titoli del settore energetico (i più penalizzati nella prima parte del 2016) ad avere il maggior impulso da Agosto in poi, anche a seguito di una stabilizzazione del petrolio. Altri settori che hanno sovraperformato nelle borse sono stati quello dell’estrazione e lavorazione delle materie prime (storicamente collegato alle altre commodities e all’energia) oltre a quello dell’informatica in generale e delle tecnologie innovative in particolare, dal momento che tutti si sono accorti di non poterne fare a meno in nessun campo per il prossimo futuro.

In molti avrebbero scommesso anche nel settore farmaceutico che in taluni casi si è mosso bene, ma le già elevate quotazioni in molti casi hanno impedito ulteriori rialzi, mentre ci si aspetta comunque una sovraperformance di quel comparto per i prossimi mesi.

Per assurdo invece i titoli finanziari, che avrebbero potuto beneficiare più di altri della messe di liquidità erogata a mani basse da quasi tutte le banche centrali, hanno avuto le peggiori performances proprio nei mercati dove queste ultime sono state più attive, a partire dall’Europa. Fiumi d’inchiostro sono stati spesi per le motivazioni che hanno portato ad un drastico ridimensionamento delle quotazioni delle banche, ma nessuno si è ricordato che ciò è avvenuto nel momento di massimo sostegno da parte delle loro “mamme”, le banche centrali.
Un esempio per tutti: i timori riguardanti Deutsche Bank non hanno mai tenuto conto dei 200 mld di euro pronti ad esserle erogati a tasso zero dalla BCE !

Anzi, la crisi del comparto bancario (con la quasi esclusione di quello del Nord America) ha alimentato timori di “rischio sistemico” per il possibile effetto domino che potrebbero avere sulle borse e sulle quotazioni dei titoli dei debiti pubblici, andando peraltro a sovrapporsi ai timori legati al rialzo dei tassi, a quelli relativi agli effetti delle “multe” erogate dagli U.S.A., fino a quelli legati all’arrivo di segnali di progresssiva riduzione delle facilitazioni monetarie da parte delle banche centrali, cui i mercati potrebbero reagire assai male.

Chi ha tuttavia beneficiato di tutti quei timori è stato, sempre contrariamente ad ogni aspettativa razionale, il mercato dei titoli a reddito fisso, tanto americani quanto europei, oltre ovviamente alle borse e alle valute dei Paesi Emergenti, andate controcorrente anche a causa dell’essere rimaste indietro nei mesi precedenti.

Fare previsioni è sempre più difficile (come diceva Mark Twain: soprattutto quando riguardano il futuro) in un mondo fortemente interconnesso e freneticamente in movimento e, più di prima, il “timing” degli investimenti risulta esiziale per determinarne il successo.
Se c’è una morale in questa narrativa è quella di una sostanziale calma dell’oceano dei mercati, sotto acque appena increspate. Molto in linea con le ripetute voci di avvio di quella “stagnazione secolare” di cui si è tanto discusso, anche in questa sede. In fondo potrebbe essere un buon auspicio…

3) LA CRISI DELLE BANCHE METTE A RISCHIO LE BORSE

C’è un fil rouge a unire la vicenda delle prime quattro banche italiane finite sottosopra e salvate per decreto, quella del crollo di valore delle azioni delle popolari venete, e infine quella dei titoli di banche grandi come il Monte dei Paschi o importanti per l’economia del distretto dell’acciaio bresciano, come la Popolare Valsabbina.

Non si tratta di fatti isolati di “mala gestio” relegati al nostro, degenerato Paese.

L’allarme generale di queste ore sul possibile collasso del colosso tedesco Deutsche Bank indica che sta succedendo qualcosa di molto più grave e in tutto il mondo. Qualcosa tra l’altro tacitato il più possibile sui “media”, per evitare la corsa agli sportelli e tutto quello che ne può conseguire.

Quanto accade alle banche (di tutto il mondo) è assai semplice: anni di insolvenze dopo la crisi del 2009 hanno devastato il loro capitale, mentre il perdurare dei tassi bassi azzera i loro margini caratteristici.
A oscurare ulteriormente le loro prospettive sopraggiungono però altri fattori: per sostenere i bilanci le banche sono state lautamente sovvenzionate dal denaro facile delle banche centrali (quel denaro poteva invece andare in direzioni più sane) con il quale esse hanno sottoscritto titoli di stato, obbligazioni aziendali, azioni e, soprattutto, i malefici derivati, (gli stessi che hanno generato la precedente crisi finanziaria) riempiendosi dunque la pancia di rischi di ogni genere.

Niente male, no? Prima faccio grandi perdite che riducono fortemente il mio capitale, poi cerco di nasconderle azzerando la mia reputazione, infine ottengo sovvenzioni importanti, ma invece utilizzarle per rimettermi in ordine le prendo e me le gioco al casinò dei derivati per esporre in bilancio i facili guadagni che in prima battuta ne ottengo, salvo dover poi registrare invece altre perdite.
Se volevo minare alla base la mia credibilità e forse anche la mia stessa ragion d’essere non potevo fare di peggio.

Tra i motivi possibili forse anche la sensazione di inaffondabilità tra i grandi banchieri, i quali hanno alimentato i loro già alti redditi iscrivendo utili fittizi che hanno fatto lievitare i loro bonus, sapendo di essere quasi intoccabili. Perché sanno che se falliscono loro viene giù tutto un’altra volta, come è successo nel 2008 con la Lehman Brothers.

Oggi ovviamente i mercati si chiedono quanto devono essere valutate delle aziende (le banche europee quantomeno) che non guadagnano più quasi nulla dalla loro attività primaria e si sono giocate forse per sempre la reputazione nei confronti di chi fino a ieri aveva affidato loro i propri risparmi. Se lo chiede prima degli altri la speculazione internazionale, che a differenza del pubblico indistinto dei piccoli depositanti non può essere tenuta a bada dai comunicati governativi lanciati a un stampa compiacente.

Chi ha studiato le di dinamiche del libero mercato sa che spesso la speculazione nel cercare il proprio guadagno fa anche una cosa utile, ripulendo i mercati dalle cose insensate, anche se lì per lì può generare un gran trambusto.
Ovviamente dipende dal livello di trambusto, se la crisi d’identità delle banche si associa ad un problema stagionato e fino ad oggi a mala pena puntellato come quello dei debiti pubblici di tutto il mondo (che continuano a crescere) oltre ad un secondo problema più recente ma altrettanto grave che è la bolla speculativa delle borse valori, sino ad oggi alimentata dalle stesse banche, che può scoppiare da un momento all’altro ancor più facilmente.

La crisi d’identità delle banche unita all’eccesso di debito pubblico e al rischio di crollo dalle vette stratosferiche cui sono giunti i valori delle borse e dei titoli a reddito fisso sono tre problemi giganteschi. Tutti insieme possono minare la sopravvivenza dell’intero sistema capitalistico globale.
Si badi bene, globale: non soltanto quello occidentale, dal momento che la Cina rischia ancora più dell’Occidente sugli stessi fronti debitori, bancari e delle borse, mentre il Giappone ha esagerato prima e di più di tutti gli altri. Se la maggioranza dei sistemi finanziari cadono, non saranno certo quelli zoppicanti dell’India, della Russia, del Brasile o del Sud Africa a salvare il mondo!

Se si prende coscienza di tali rischi perciò si cambia probabilmente anche mentalità: nessuna sana speculazione che punta il dito sulle storture può risultare accettabile se questa volta essa mette a rischio il mondo intero, che può subire un effetto domino dalle proporzioni inusitate e finire per tornare indietro di secoli, all’economia del baratto!
Ma quantomeno la speculazione è utile per denunciare i bilanci falsi delle banche, che i burocrati e i maggiorenti di tutto il mondo hanno fino ad oggi pensato bene di negare ufficialmente, nel timore del peggio.

Difficile invece dire come andrà a finire, perché emerge dalle vicende in corso che il vero problema sta proprio nel fatto che nessuno sul ponte di comando ha mai seriamente preso in considerazione il rischio cumulato.

Cioè che insieme alle banche questa volta possa saltare proprio tutto!

4) CINQUE RAGIONI PER CUI LE BANCHE EUROPEE SONO K.O.

Nove anni dopo la scoppio della più grande crisi finanziaria dagli ultimi ottanta anni precedenti, sembra che stavolta il sistema bancario europeo (Paesi scandinavi, Svizzera e Gran Bretagna comprese) sia cotto davvero. E per motivi diversi dalla speculazione selvaggia di allora, peraltro localizzata principalmente altrove, in America.

Le disgrazie della Deutsche Bank infatti appaiono ai bene informati soltanto come la punta visibile dell’iceberg sommerso, dal momento che numerose altre istituzioni creditizie del vecchio continente rischiano gli stessi guai.
Anzi: se la Germania vorrà umiliarsi politicamente e rimangiarsi tutti i predicozzi moralizzatori impartiti agli altri membri europei (o ex-membri, come gli Inglesi) fino all’altro ieri, potrà salvare con un solo colpo di spugna la sua maggiore banca commerciale, perché ha tutte le risorse per farlo. In fondo poco prima dell’entrata in vigore della normativa sul Bail-In aveva erogato 300 miliardi di euro per salvare le proprie banche.

La stessa capacità finanziaria non è detto che sia a disposizione degli altri paesi europei, le cui banche di conseguenza rischiano forse di più.
Ci sono cinque importanti ragioni per le quali è oggettivamente difficile che le banche europee possano tornare a fare profitti nel breve – medio termine e, di conseguenza, a raccogliere con facilità capitali sul mercato.
E sono tutte imputabili alle conseguenze negative degli interventi pubblici originariamente intesi a sanzionare e prevenire i danni della crisi del 2008-2009 (normative regolamentari e politiche monetarie in testa) :

  • Innanzitutto i tassi di interesse scesi a zero : è molto difficile raccogliere e prestare denaro quando non ci sono ritorni significativi. Nemmeno i servizi erogati dalle banche si vendono più così facilmente quando si arresta l’attività principale, quella dell’intermediazione del denaro. E neppure l’attività di intermediario sul mercato Mobiliare rende più quel che rendeva prima che la curva dei tassi andasse a zero. Anzi: con i corsi dei titoli andati alle stelle, i bilanci delle banche stanno prendendosi in questo momento dei grossi rischi quando comprano e vendono in proprio.
    Per non parlare delle attività di investment banking: con i mercati in questa situazione di rendimenti nulli è difficile individuare operazioni con ritorni sul capitale idonei a pagare tutti i costi e i rischi necessari per mettere all’opera il capitale impiegato in tale direzione.
  • In secondo luogo le perdite pregresse in conto capitale, principalmente sui crediti erogati all’industria e al mattone. La riduzione del capitale disponibile ai fini di vigilanza e la difficoltà a ricostituirlo con gli utili che (per i motivi sopra esposti) è difficile fare, comportano la necessità di una forte limitazione nelle attività creditizie e di investimento, che però a loro volta intaccano in maniera sensibile la capacità di azione e di guadagno.
  • In terzo luogo ciò che osta forse più di ogni altra cosa alla ripresa dell’erogazione del credito sono i nuovi requisiti di capitalizzazione richiesti alle banche dopo il giro di vite successivo all’ultima crisi. Come dire che sono stati chiusi i cancelli dopo che i buoi erano scappati.
    Le normative di Basilea, dalla prima alla quarta, non solo hanno posto dei freni potenti ma hanno anche generato un divario profondo tra le performances delle banche europee e quelle di tutto il resto del mondo, in particolare Americane e Cinesi, che hanno avuto meno vincoli.
  • Poi viene la vicenda delle multe e sanzioni recentemente imposte loro dall’America a causa delle manovre per manipolare i tassi e i titoli sub-prime.
    Sanzioni per la maggior parte tardive e talvolta persino ingiuste, ma gli Stati Uniti dispongono di una leva importante per riuscire a negoziare efficacemente e incassare tali sanzioni: la minaccia di revocare loro le licenze in area Dollaro. Di fatto una tassa sulle banche non-americane, in qualche caso utilizzata come una clava per dare una botta in testa a colossi europei come Deutsche Bank.
    Il punto però più significativo è che il Dipartimento di giustizia americano punta a fare accordi basati sulla capacità di pagare delle banche coinvolte, più che sulle responsabilità maturate. Allora per quale motivo il mercato dovrebbe fornire capitale fresco alle banche europee? Per pagare maggiori sanzioni? È evidente che come minimo se ne riparlerà quando la vicenda delle sanzioni sarà definitivamente terminata!
  • L’ultimo e il più importante dei motivi per i quali le banche europee sono oggettivamente a terra riguarda l’obsolescenza del loro “modello di business”, cioè della loro formula imprenditoriale. Anni di regolamentazione protettiva e la conseguente rendita di posizione (ben più forte che in Asia o oltre Atlantico) hanno tolto lo stimolo ad un adeguamento delle banche al nuovo contesto ambientale.
    Il mercato dei capitali negli ultimi anni si è sviluppato enormemente e con esso la capacità delle imprese di raccogliere e impiegare denaro autonomamente rispetto alle banche. Lo stesso vale per i privati e il risparmio gestito.
    Il diverso contesto avrebbe comportato l’esigenza di trovare nella banca soprattutto una via d’accesso affidabile e qualificata , una guida attraverso gli esoterismi degli operatori, mentre sempre meno interessanti appaiono i conti di deposito e tutti gli altri strumenti tradizionali.
    Non essendo state le banche quasi mai capaci di adeguarsi velocemente, molte imprese e molti privati hanno trovato in altri operatori del mercato mobiliare, e in particolare in quelli on-line la risposta alle loro esigenze, con la conseguenza di una progressiva disintermediazione del sistema bancario.

Per non parlare dell’efficienza gestionale: in un mondo globalizzato dove i grandi colossi bancari asiatici e americani sono stati in grado di raggiungere livelli di assoluta eccellenza in determinati settori, le banche europee avrebbero dovuto prendere atto del contesto competitivo e riposizionarsi nelle nicchie da loro meglio presidiate, tagliando di conseguenza i loro costi per adeguarsi ad una offerta diversa (e più limitata) di servizi, ma ciò è stato rimandato all’infinito, con il risultato che oggi si parla di drammatici esuberi nella forza lavoro, che per la maggior parte non è sufficientemente qualificata.

Quanto descritto non è una condanna a morte del sistema bancario europeo, che ritengo potrà sopravvivere alla buriana in corso, soprattutto se se ne farà una ragione e imboccherà senza esitazioni la strada del cambiamento.

Ma come si è visto in precedenza molto dipende anche dal contesto normativo e dalle manovre delle banche centrali, forse troppo intente a sostituire l’inattività dei governi per rilanciare l’economia reale e a finanziare il rinnovo dei titoli del debito pubblico, acquistandoli direttamente.

Tuttavia la soccombenza delle banche europee per tutti i motivi visti non potrà terminare in un giorno o in un anno, e sino a quel momento nessuno vorrà ragionevolmente investire nel loro capitale.

Il che comporta nel frattempo pesanti conseguenze per le economie nazionali nelle quali quelle banche sono inserite!

5) VERSO UN NUOVO MEDIOEVO?

(le reazioni populiste alla globalizzazione e le contro-reazioni lobbistiche dei potentati economici possono portare all’oscurantismo)

La lettura di un recente articolo dell’Economist di cui riporto qui il collegamento ( http://www.economist.com/blogs/buttonwood/2016/09/economics-and-politics ) mi ha spinto ad alcune riflessioni a proposito dei pericoli derivanti dall’eccesso di concentrazione della ricchezza finanziaria nel mondo e dalle conseguenze politiche di tale fenomeno che consistono nel successo del populismo.

È infatti universalmente riconosciuto che la politica occidentale negli ultimi anni si trova a fronteggiare un crescente e motivato scetticismo popolare a proposito delle conseguenze economiche e sociali della globalizzazione.

L’uomo della strada non ha tutti i torti nell’imputare buona parte delle cause del suo crescente disagio sociale a occulti e spesso inconfessabili interessi economici globali delle grandi imprese multinazionali che hanno supportato la nascita di numerose manovre normative restrittive della concorrenza apparse di recente nell’Unione Europea.
Si tratta in generale di operazioni lobbistiche e finanziarie tese al progressivo consolidamento di monopoli globali di fatto. Manovre che peraltro spesso partono dall’altra sponda dell’Atlantico ma che hanno generato proprio nel vecchio continente le peggiori conseguenze.

Gli ultimi sessant’anni di storia hanno visto un’enorme crescita della ricchezza nel mondo: il Prodotto Economico Lordo del mondo si è sestuplicato, ma la ricchezza generata dalla progressiva industrializzazione non si è diffusa uniformemente.
Al contrario il controllo globale da parte di poche potenti mani su taluni monopoli naturali, non soltanto sulle risorse energetiche, sulle materie prime, sull’industria chimica e farmaceutica ma anche sull’utilizzo di internet (Google e Facebook, ad esempio) o sulle televisioni e telecomunicazioni è indubbiamente cresciuto negli ultimi anni.

Negli Stati Uniti dove le cose succedono sempre qualche anno prima che altrove, la quota di Prodotto Interno Lordo generata dalle 100 maggiori aziende americane è passata dal 33% ad esse attribuibile nel 1994 (che già non era poco) fino al 46% vent’anni dopo!
Oggi il 10% delle società quotate in Borsa in giro per il mondo genera l’80% di tutti gli utili aziendali. Non c’è da stupirsi dunque se nel constatare tali eccessi sono nate talune organizzazioni spontanee come ad esempio “Occupy Wall Street” e altri movimenti “no-global” che sono talvolta giunti a espressioni di piazza assai violente del loro pensiero !

Altro elemento da considerare è l’immenso potere finanziario accumulato dagli Usa e dai loro alleati ai danni della crescita delle economie emergenti. Tale fenomeno è oggi in progressivo ridimensionamento a causa del fattore demografico, che gioca a sfavore dei primi: la quota dei Paesi ad alto reddito sul totale del prodotto economico lordo mondiale sembra destinata a scendere dal 64% (a parità di potere d’acquisto) del 1990 a poco più della metà (il 39% ) nel 2020, mentre la quota degli Usa calerà leggermente meno: dal 22% al 15% del totale mondiale.

È inevitabile pensare che le élites finanziarie tendano a contrastare questa tendenza grazie al potere e alla capacità di influenza che hanno messo insieme negli anni di maggiore prosperità e che questo non può che accentuare la concentrazione delle ricchezze in poche mani con il disagio sociale che ne deriva.

La cosa ovviamente ha rilevanti conseguenza in tutto il mondo perché, soprattutto in Occidente, la reazione popolare a tale fenomeno non si è fatta attendere. Ad esempio il possibile successo alle prossime tornate elettorali europee di nuove fazioni politiche -spesso goffe e populiste ma alternative ai leaders governativi attuali- può essere in buona parte attribuito a quella diffusa sensazione di “accerchiamento” -percepita dalla gente- da parte dei grandi poteri economici globali che hanno indiscutibilmente tratto crescenti profitti dal processo di globalizzazione sino a divenire una “casta” capace di influenzare profondamente gli organismi governativi e sovranazionali penetrandoli scaltramente a livello lobbistico per rafforzare la loro supremazia.

Questo fenomeno di crescenti reazioni politiche al processo di globalizzazione e concentrazione della ricchezza finanziaria si manifesta soprattutto nell’insorgere dei movimenti populisti e antiglobalisti, che ha già determinato fenomeni macroscopici come la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea o le candidature estremiste di Marie LePen o Donald Trump, fino alla possibile vittoria di Beppe Grillo in Italia.

Ciò ha a sua volta generato importanti contro-reazioni istituzionali da parte dei potentati economico-finanziari , capaci di intessere forti relazioni a tutti i livelli istituzionali per consolidare il quadro normativo e influenzare a loro vantaggio le politiche economiche e monetarie, che può evolvere in una pericolosa spirale.

È probabilmente dovuto a quanto descritto se si sono create di recente situazioni paradossali come la forzatura delle dimissioni di Silvio Berlusconi nel 2011 o la soffocazione forzosa delle ambizioni del partito di Alexis Tsipras nel 2015. Sono stati in molti a vedere dietro il paravento istituzionale di queste operazioni dei decisi interessi economici e finanziari, come sono oggi in molti ad accusare i medesimi grandi interessi di fomentare il fenomeno dilagante dell’immigrazione dall’Africa e dal Medio-Oriente che sta investendo l’Europa per abbassare il costo della manodopera.

L’innalzamento del livello di confronto tra le opposte esigenze del capitale finanziario e di aspirazione popolare ad un ridimensionamento della sua capacità di influenzare la politica è tuttavia di un gioco di azioni e reazioni che inevitabilmente va a toccare interessi primari e motivazioni sociali profonde. La sua escalation può arrivare infuocare il confronto politico e a divenire socialmente esplosiva, soprattutto se le democrazie occidentali continueranno a vedere l’assenza di nuove grandi e illuminate figure di leaders, capaci di concentrare su sè stessi un elevato potere politico e al tempo stesso di volerlo utilizzare per riuscire a mediare sapientemente nell’eterna lotta tra le èlites (oggi più che mai economiche) e il popolo che ad esse è di fatto sottomesso.

È possibile che nessuno dei candidati “populisti” alle elezioni in arrivo in Occidente (in Oriente le elezioni sono spesso una farsa) abbia lo spessore richiesto dalla situazione, ma è anche comprensibile la voglia di ricambio che emerge dagli strati più deboli delle popolazioni chiamate al voto.

La Storia insegna che questa lotta c’è sempre stata, ma anche che a fronte dell’insorgere di un’escalation di tale confronto si sono spesso innestate spirali catastrofiche di grandi guerre, rivoluzioni e nuove dittature. Riuscire ad evitarle non sarà affatto semplice, ma al tempo stesso sarà vitale per prevenire le possibili tenebre di un nuovo medioevo!

6) IL VERTICE DI ATENE OVVERO LA PARABOLA DEI FURBI E DEI FESSI

L’incontro di Settembre, ad Atene, dei capi di stato dell’Europa del Sud (Francia compresa) ha messo ancora una volta in risalto la spaccatura profonda in Seno all’Unione Europea tra gli stati del nord che ancora predicano l’austerità e quelli del sud che ne denunciano l’ottusità, nonchè la profonda incoerenza della moneta unica con l’autonomia fiscale di ogni singolo stato.

Il momento in cui si è svolto il vertice è stato particolarmente azzeccato, perché alla luce degli ultimi dati macroeconomici appare chiaro che gli Stati del sud stanno planando verso uno scenario di crescita zero.
Dunque le previsioni di crescita dell’Unione Europea dell’1,6% per l’anno in corso sono esclusivamente basate sullo sviluppo delle economie del nord.

Se al quadro non particolarmente positivo si aggiungono la deflazione in corso e l’Euro che si rafforza contro tutte le divise del mondo, si capisce dove vanno a parare gli allarmi lanciati dal vertice: se non si fa qualcosa le tensioni finanziarie di molti paesi europei risulteranno presto ingestibili e si riaccenderanno a livello sociale le tensioni anti-europeiste che sino ad oggi hanno riguardato soltanto una minoranza delle popolazioni.

Questi messaggi sembrano avere tutti un unico bersaglio, il ministro tedesco delle finanze Shauble, la stizzita risposta del quale non si è fatta attendere: “quella di Atene è un’accolita di socialisti, dai quali non ci si poteva attendere nulla di buono”. E figuriamoci se poteva dire altro! Nenanche a farlo apposta notiamo che lo screditare l’interlocutore invece che entrare in argomento con lui è proprio una vecchia tecnica del socialismo reale.

Tuttavia la non-risposta di Schauble la dice lunga sulla volontà politica degli altri paesi europei di riallacciare il dialogo. La situazione mi ricorda tanto un mirabile scritto di Giuseppe Prezzolini: La Parabola dei Furbi e dei Fessi (tratto da “Codice della Vita Italiana”, Firenze 1921). Ecco un estratto del primo capitolo:

“I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi. Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente sulla magistratura, nella pubblica istruzione, ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. – questi è un fesso.
I furbi non usano mai parole chiare. I fessi qualche volta. Non bisogna confondere il furbo con l’intelligente.
L’intelligente è spesso un fesso anche lui. Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle.
Colui che sa è un fesso. Colui che riesce senza sapere è un furbo. Segni distintivi del furbo: pelliccia, automobile, teatro, restaurant, donne. I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini.
Dovere è quella parola che si trova nelle orazioni solenni dei furbi quando vogliono che i fessi marcino per loro. L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono.
Il fesso, in generale, è stupido. Se non fosse stupido, avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo. Il fesso, in generale, è incolto per stupidaggine. Se non fosse stupido, capirebbe il valore della cultura per cacciare i furbi.
Ci sono fessi intelligenti e colti, che vorrebbero mandare via i furbi. Ma non possono: 1) perché sono fessi; 2) perché gli altri fessi sono stupidi e incolti, e non li capiscono.”

In questo caso è evidente che i “fessi” sono le popolazioni del sud Europa, infinocchiate sicuramente dai loro politici corrotti ed incapaci, ma soprattutto tenuti al giogo imposta dall’Europa da popoli più “furbi” di loro che, guarda caso, con l’Europa hanno fatto un ottimo affare e non vedono il perché dovrebbero tornare sui loro passi.
Tra i “fessi” europei del sud ci sarebbero anche intelligenti e colti, che vorrebbero mandare via i “furbi”, ma non possono…

Ecco, per i governanti europei del sud è difficile andare oltre i proclami.
Le manovre necessarie per uscire dall’Euro sarebbero tutte inizialmente estremamente impopolari. E, tenendo conto del fatto che tra i loro cittadini ce ne sono parecchi anche stupidi e incolti, tali manovre sarebbero politicamente insostenibili.

Quelli come Schauble lo sanno benissimo, e per questo se ne fanno un baffo dei proclami di Atene!

7) LA CINA DIVIENE IL PRIMO MERCATO FINANZIARIO PER QUOTARSI IN BORSA

La Cina ha lanciato ieri ufficialmente il suo programma di quotazione alla borsa valori di Hong Kong del 15% circa del capitale della banca delle Poste Cinesi.

Un’offerta pubblica di sottoscrizione “Initial Public Offering” (nel gergo finanziario: IPO) “monstre” da oltre 8 miliardi di dollari per un istituto che è il numero cinque del Celeste Impero in quanto a valori dei prestiti effettuati , dotato di oltre 40.000 sportelli (che sono anche postali) e con una base di oltre 500 milioni di clienti, per una capitalizzazione di borsa stimata in oltre 50 miliardi di dollari.

Quegli 8 miliardi serviranno a far crescere ulteriormente la banca delle poste e a consolidare la propria leadership mondiale quale percettore dei piccoli risparmi per investirli in modo sicuro.

L’agenzia di stampa che riporta la notizia non ha mancato poi di precisare che, dell’intero importo che verrà collocato, una quota pari a tre quarti del medesimo è già stata sottoscritta da un vasto gruppo di imprese cinesi, molte delle quali in qualche modo collegate con il governo nazionale.
Come dire agli speculatori di tutto il mondo: su questa operazione non si puó scherzare. I giochi sono già fatti !

La mossa appare innanzitutto come uno schiaffo bello e buono al sistema (pseudo) capitalistico occidentale che vede proprio nel 2016 le sue banche sottovalutate e in apprensione per ciò che potrebbe risultare presto come una delle più pesanti crisi bancarie della storia economica, se le banche europee, fortemente collegate ai destini dell’intera economia OCSE, non invertiranno la loro rotta discendente in quanto a credibilità e profittabilità.

Ma il vero dato rilevante è un altro: con questa operazione da inizio anno tra Honk Kong , Shanghai e le altre borse cinesi sono stati collocati al pubblico titoli azionari per oltre 17 miliardi di dollari di nuove emissioni e l’anno non è ancora finito!
Due volte e mezza quanto collocato per nuove emissioni alla borsa di New York (meno di 7 miliardi di dollari) che a sua volta è la più attiva d’Occidente !

Il messaggio al resto del mondo è chiaro: siamo noi Cina la più grande potenza economica globale, strapotere del dollaro o meno (è noto che se il Renmimbi non si fosse svalutato negli ultimi quattro-cinque anni il P.I.L. Cinese avrebbe superato da un pezzo quello U.S.A.) e siamo divenuti noi i migliori interpreti del Capitalismo Popolare, ora che nel mondo Occidentale la parola ha di fatto perduto il suo significato originario e non si parla più di libera concorrenza.
Tradotto: “imprese di tutto il mondo avete capito: se volete quotarvi in borsa venite a farlo da noi” !

8)LA PARABOLA DISCENDENTE DELLA MELA MORSA

Per un’intera generazione la parola Apple non ha significato soltanto il frutto che ha fornito ispirazione alle teorie di Isaac Newton, bensì anche e soprattutto la freschezza delle (vere) innovazioni portate avanti dal suo leader carismatico Stefano Lavori (Steve Jobs, tradotto in italiano)prematuramente scomparso pochi anni fa a seguito di un tumore. Apple ha cambiato il mondo ed è riuscita a fare più soldi di qualunque altra società in un campo da sempre difficilissimo come l’elettronica di consumo.

Grazie a Steve Jobs trent’anni fa tutti noi abbiamo iniziato ad aver un calcolatore domestico, grazie a lui è divenuto quasi banale utilizzarlo, grazie a lui abbiamo iniziato davvero ad usare telefonini che fanno un po’ di tutto, e infine sempre grazie a lui la tavoletta ha smesso di restare aggrappata alle mani di Mosè per segnare un’ulteriore rivoluzione culturale che ha (quasi) sconfitto l’uso dei PC.

Poi purtroppo lui se n’è andato presto, come tutte le cose migliori, e da quel momento lo sviluppo dell’elettronica di consumo ha subito un indubbio rallentamento. Intendiamoci: molti oggetti sono stati migliorati e potenziati, la stessa Apple ha sfornato negli ultimi anni prodotti bellissimi come lo smartwatch, ma nessuno di questi ci ha cambiato più la vita.

Apple ha continuato a macinare profitti e a proporre gli oggetti più “chic”, forse i più affidabili, sicuramente i più accattivanti. Ma il “ritmo” folle che imponeva il suo fondatore sembra essere perduto per sempre.

Ora ricordo che un mio insegnante al master mi diceva sempre: “se vuoi capire un’azienda guarda il suo prodotto”. E se devo essere sincero, alla prossima inaugurazione delle nuove proposte non credo che farò più “la notte” per aggiudicarmele prima degli altri! Esistono mille bellissime alternative, tutte tra l’altro più convenienti.

Qualcuno dice che la differenza l’ha fatta il nuovo titano del mercato: Google, con il suo sistema aperto Android. Ma non credo che ciò basti a spiegare il probabile declino del titolo Apple (che è la tesi sottostante ai miei ragionamenti).

I nuovi vertici di quest’ultima hanno scelto di fare due cose apparentemente incompatibili in un mercato che è prevalentemente di sostituzione: mantenere margini molto elevati sui prodotti venduti e ha contemporaneamente di centellinare nel tempo le innovazioni e i miglioramenti.
Difficile far felici con piccole innovazioni coloro che sono pronti a pagare più del doppio i prodotti targati con la mela per rinnovare quelli già posseduti.

Quel che è successo (e sta ancora accadendo) è che si è creato un ampio spazio di mercato per i produttori alternativi ad Apple, compensato solo parzialmente dalla crescita del mercato globale e dalla progressiva diffusione degli smartphone, dei tablet e e degli smartwatch tra le classi economicamente meno agiate della popolazione mondiale. Anche l’ultima tornata di nuovi prodotti, appena presentati al pubblico, ha lasciato un po’ la bocca amara al popolo dei fedelissimi, e qualche scetticismo tra coloro che clienti non lo sono ancora o non lo sono più.

Troppo poche le vere novità, troppo impercettibili le differenze per una categoria di prodotti che rischia la banalizzazione. Quest’ultimo fenomeno non vuole necessariamente dire che se ne venderanno meno, ma sicuramente che sarà più difficile chiedere un prezzo elevato per un oggetto di maggior prestigio.

Per chi vuol pensare ad un possibile crollo rovinoso della stratosferica capitalizzazione di borsa della Apple ci sono tuttavia poche speranze: il notevole livello tecnico e di interconnessione tra i suoi prodotti e l’elevatissima comodità d’uso lasciano pensare che Apple riuscirà ancora a lungo ad imporsi come leader del suo mercato. Il punto è un altro: quanto spazio ha quel valore per crescere ancora? Con un’economia globale che plana lentamente verso la cosiddetta stagnazione secolare molto poco. Forse nulla. In molti paesi emergenti Apple resta simile ad una borsa di Louis Vuitton: molto meglio indossarne la copia.

Eppure di innovazioni da lanciare sul mercato con il coraggio di chi rischia di far fuori troppo presto tutte le sue munizioni ce ne sarebbero parecchie: dalla ricarica dei telefoni senza fili, all’interconnessione degli apparati portatili con la domotica, agli occhiali con visore e telecamera, all’espansione dell’interfaccia vocale a molte altre funzioni degli apparati… Non è stata detta l’ultima parola sui cosiddetti “portable devices ” dove Apple sino ad oggi ha dominato sino a diventare la società che vale di più al mondo.

Basterebbe avere solo un po’ più di coraggio per non perdere il momento. Passato il quale nulla sarà come prima…

9) FINITO IL TEMPO DEGLI INVESTIMENTI FINANZIARI SI TORNA AL MATTONE !

Viviamo in un’epoca di grande instabilità finanziaria, di borse valori pericolosamente in bilico sui livelli massimi di sempre, di tassi sempre più negativi.

Con l’Unione Europea in frantumi, l’Italia sul punto di vedere bocciato il referendum costituzionale, l’America che deve fronteggiare una oramai possibile vittoria di Donald l’incontenibile, con i paesi più sviluppati alle prese con la stagnazione secolare e l’aumento costante dei debiti pubblici, secondo Voi è ancora possibile guardare con ottimismo al futuro prossimo venturo per investire i risparmi senza essere colti da un attacco di cardiopalma ?

La risposta più scontata del mondo -no ovviamente- non è però detto che sia la più azzeccata ad una domanda insidiosa e spesso inutile, dal momento che non solo se abbiamo dei risparmi da qualche parte li dovremo pur mettere, ma bisogna anche ricordarsi prima di uscire di casa del fatto che:

  • la terra continua a girare,
  • l’Africa continua a sfornare figli da esportazione
  • l’Asia, seppur con tutti i rischi di deflagrazione delle sue giovani e fragili economie, continua a produrre ricchezza e innova a prezzi accessibili.

Ecco dunque molto semplicisticamente spiegati i motivi della ripresa delle quotazioni immobiliari, del trionfo dei beni rifugio e persino del ritorno alla grande dei beni di lusso, il cui acquisto è spesso strettamente legato al tema dei beni-rifugio.
Ma non basta: persino i mercati finanziari dei paesi emergenti sono in grande spolvero!

Insomma i risparmiatori piccoli e grandi sono tutti alla ricerca dell’alternativa perduta, mentre la liquidità globale non accenna a restringersi e anzi le banche centrali, a turno, pianificano di espanderla ulteriormente visto che l’alternativa agli stimoli monetari, quella degli stimoli “fiscali” cioè effettuati con la spesa pubblica, sembra che nessuno voglia percorrerla.

Ecco allora per quale motivo le borse mediterranee vanno molto meno bene di quelle continentali: si ritiene che i governi dell’Europa meridionale non avranno abbastanza risorse da profondere negli incentivi “fiscali” alla crescita, mentre si prospetta comunque la fine di un ciclo economico di ripresa post-crisi del 2009, per quanto edulcorata dagli sforzi dei governi occidentali di attutire il più possibile gli effetti del prossimo ritorno del pendolo, per evitare che esso provochi una nuova crisi economica globale.

Tuttavia dal momento che i grandi governi della terra ancora non fanno (o non fanno abbastanza) l’unica cosa che dovrebbero fare davvero: vale a dire il rilancio dei grandi progetti infrastrutturali che potrebbero far evolvere tutta l’umanità, non c’è troppo da attendersi invece dagli sforzi per rilanciare un’industria affetta da sovracapacità produttiva praticamente in qualsiasi campo, mentre il settore del commercio e dei servizi è già eccessivamente presidiato e potrà solo restringersi con l’avvento del commercio elettronico di massa.

Il lago di liquidità che affoga i nostri risparmi perciò non è destinato a ritirarsi presto, anche perché i consumi arrancano e, con l’estendersi delle attese di durata della vita, la popolazione attiva è soprattutto preoccupata di trovare anche per un futuro in cui vorrebbe ritirarsi in pensione, i mezzi di sostentamento.

Quindi se ne può dedurre che quella liquidità non potrà che favorire nei prossimi mesi gli investimenti destinati all’accaparramento di beni reali, soprattutto se si tratta di cespiti unici, stragegici, ovvero suscettibili di generare tanto reddito (in particolare quando paragonato ai rendimenti negativi dei titoli).

La mia personale convinzione è perciò che, una volta esaurite in fretta le opportunità di investimento in veri beni-rifugio, saranno gli immobili la regina delle “asset class” da qui a un po’ di tempo, almeno sino a che non si riuscirà a trovare il modo di investire in aziende non troppo sopravvalutate, in titoli che rendono qualcosa e in altri strumenti finanziari (come le polizze assicurative o le quote di fondi pensione) che non promettano cose che non possono mantenere.

10) IL RISCHIO ITALIA OSSESSIONA GLI OPERATORI FINANZIARI

Negli anni e nei mesi passati è stata la Grecia a minacciare l’Unione Europea di dichiarare la propria insolvenza ed essere dunque costretta a lasciarla. È un’eventualità cui si è andati molto vicini ma che non si è mai materializzata.

Quel che è successo in Grecia però è stato ugualmente molto doloroso per la popolazione dal momento che l’impossibilità dello Stato di rinnovare i titoli del debito in scadenza ha reso incapaci gli organismi pubblici a pagare stipendi e pensioni, mentre le banche sono rimaste senza liquidità a causa della corsa agli sportelli che si è verificata per ritirare i loro depositi denominati in Euro (prima che si potesse materializzare un ritorno alla Dracma e, di conseguenza, una forte svalutazione degli stessi).

A parte le manifestazioni di piazza che in alcuni momenti sono arrivate alla violenza e agli scontri sociali, le banche hanno esaurito la moneta contante e hanno chiuso gli sportelli e i bancomat, mentre molte di loro hanno dichiarato fallimento nell’impossibilità di far fronte alle perdite sui crediti che parallelamente si sono moltiplicate.

In assenza di una propria banca centrale che poteva battere moneta gli aiuti giunti dall’Europa sono stati erogati con il contagocce, e sono risultati utili soprattutto a far pagare e capitalizzaee i debiti della Grecia verso i suoi creditori, lasciando un pesante strascico di tassi di interesse straordinariamente alti e infrastrutture pubbliche passate in proprietà agli stranieri.

Oggi l’Italia rischia qualcosa di molto simile, non tanto a causa della sua capacità di rinnovare alla scadenza i titoli pubblici (oggi molto più sorvegliati ed acquistati dalla Banca Centrale Europea) quanto perlopiù per la possibilità che l’insolvenza di altre banche dello Stivale possa provocare un effetto domino con la conseguente corsa agli sportelli e all’esportazione dei capitali che si è vista in Grecia.

Dal momento che la capitalizzazione di Borsa di molte di esse si è praticamente dissolta (e con essa la capacità di raccogliere nuovo capitale) anche la capacità di raccogliere depositi per mote di esse è al lumicino, lasciandole trepidanti in attesa di qualche nuovo imprevisto che possa mandare all’aria l’intero sistema bancario.
E non c’è bisogno di andare lontano: quella spintarella aggiuntiva potrebbe essere costituita dal voto per il referendum, che oggi come oggi risulterebbe facilmente come una bocciatura dell’attuale governo.

Nel frattempo anche l’erogazione del credito si sta assottigliando (non potrebbe essere diversamente, in mancanza di risorse) danneggiando tuttavia in tal modo irreparabile l’economia produttiva, in uno scenario generale di limbo che viene tenuto appositamente nascosto il più possibile dai media e dagli organi ufficiali, ma che fa gridare l’allarme a più di un commentatore straniero, timoroso che l’effetto domino possa varcare i confini nazionali per estendersi a tutta la comunità europea e alle borse dell’intero Occidente.

Nessuno può dire se e come l’Italia potrà venire fuori da questo difficile labirinto. Ma fa specie che nessuno ne parli, alla faccia della pluralità degli organi informativi. L’Italia non è la Grecia continuano a ripetere, e gli effetti di una sua caduta possono ripercuotersi nel mondo intero.

Per mantenere la calma forse può aiutare non spargere il panico, ma certo il silenzio stampa non allevia l’apprensione degli operatori finanziari, notoriamente bene informati.

Brutte notizie dunque per loro ma anche per Piazza Affari e in definitiva per noi cittadini: sintantochè la possibilità che si materializzi uno scenario come quello sopra descritto non sarà completamente evaporata, aspettiamoci che altri capitali prenderanno il volo e altre banche si vedranno svuotare i forzieri! È triste ma è anche la verità.

11) IL MISTERO DELL’INFLAZIONE PER LA SIGNORA MARIA

Tutti noi abbiamo sentito parlare negli ultimi 24-36 mesi dello strano fenomeno della deflazione, collegato peraltro alle politiche monetarie estremamente espansive perseguite in Occidente, che hanno contribuito a far andare sotto zero i tassi di interesse (e con essi le rendite delle pensioni private) .

Molti di noi hanno tuttavia constatato che le statistiche emesse in tutto il mondo concordano nel segnalare una dinamica dei prezzi sotto lo zero, pur in presenza di un costante rincaro dei generi alimentari, degli affitti, delle bollette, eccetera, imputando (correttamente) il divario tra le statistiche e quanto sperimentato nella vita reale ai rincari nelle imposte locali, all’aumento di tasse e balzelli specifici o alla relativa svalutazione dell’Euro.
Ma la signora Maria, la tipica casalinga/pensionata italiana che ha a mala pena frequentato le scuole superiori e che si è dedicata alla cura della casa, dei figli o di qualche parente bisognoso, proprio non lo ha capito: “se i prezzi di ciò che io acquisto salgono perché le statistiche ci raccontano che essi scendono?” – si chiede. È perché continuano a dire che sarebbe opportuno che l’inflazione salga?

La risposta a queste semplici domande non è però affatto semplice.
La ragione principale dello iato di cui parliamo sta sicuramente nei prezzi (alla fonte) dell’energia: petrolio e gas costano (un po’) meno e la famosa media di Trilussa è tornata principalmente così: se quei prezzi scendono e gli altri salgono, “in media” starebbero fermi.
Fin qui in teoria, perché molti di noi nella vita reale il riscaldamento e dintorni lo fanno pagare alle amministrazioni di condominio, nelle bollette del quale non hanno notato alcun ribasso, o perché sulla benzina delle auto sono aumentate le accise, o perché la liberalizzazione delle forniture di luce e gas ha di fatto inserito altri costi occulti in bolletta che sono andati a compensare i minori costi della materia prima, o infine perché le tasse sulla casa sono comunque salite, perché la tessera del tram ogni anno rincara un po’, mentre al supermercato sono scesi alcuni prezzi ma altri sono saliti più degli altri, rendendo alla fine di tutti i giri un po’ più povera di prima la signora Maria!

Se poi quest’ultima avesse ceduto alle lusinghe del suo assicuratore sottoscrivendo (magari con la propria liquidazione)qualche pensione integrativa o polizza di capitalizzazione, allora la frittata sarebbe stata proprio completa: adesso non rendono più nulla! Anzi qualche costo lo espongono ugualmente. Al supermercato tuttavia le polizze non le accettano, anzi qualche volta tentano anche di vendertele.

Resta indubbiamente più basso di qualche anno fa il costo del telefonino, ma nel frattempo dovremo ammortizzare l’acquisto di quello nuovo, del quale alla signora Maria frega, onestamente, pochissimo! Allora l’inflazione è quella che si legge sul Sole 24 ore o quella che si deduce dallo scontrino del supermercato?
Se proprio ci tenete andate a chiederlo alla signora Maria, ma prima indossate un giubbotto che vi protegga dal suo bastone!

12) ACCIAIO

“Overcapacity” è il tema ridondante negli ultimi mesi riguardo al mercato dell’acciaio. Si stima infatti che oltre 1/3 del metallo ferroso necessario da qui al 2020 a livello globale sia stato infatti già estratto. Conseguenza diretta della sovrapproduzione è un abbassamento del prezzo che è calato di circa il 70% rispetto ai valori del 2008. Le stime per il 2016 e 2017 sono positive con un incremento del consumo dell’acciaio in tutti i principali settori.

La produzione di acciaio a livello mondiale è stata pari a 1,621 Milioni di Tonnellate, contro un consumo pari a 1,5 Milioni (circa l’8% in meno di quello prodotto). Il player principale nel processo di estrazione è la Cina che detiene il 68,7% della produzione globale, secondo player è L’unione Europea con una quota di mercato pari al 10,2%.

Da questi numeri si evince come la Cina abbia il controllo della produzione e del prezzo dell’acciaio.

La questione della sovrapproduzione sta però creando tensioni commerciali in mezzo mondo dall’Europa all’India tanto che è diventato argomento cardine delle ultime riunioni di G20 e G7. “ L’eccesso di capacità nell’acciaio è un problema globale che richiede risposte collettive” ha affermato Jean-Claude Juncker presidente della Commissione Europea.

La Cina sta rispondendo attivamente al problema sottolineato dai principali paesi del globo; ha ridotto l’output del 2,3% nel 2015 rispetto al 2014 e ha ordinato tagli fino a 150 Mt fino al 2020. In un contesto macroeconomico complesso L’Europa è il secondo player in termini di produzione con un output prodotto nel 2015 di 166,1 Mt.

L’Italia a livello europeo è il secondo player con una quota di mercato del 13% seconda sola alla Germania (26%). Nonostante la produzione di acciaio in Italia sia diminuita del 7,2% nel 2015 rispetto al 2014, il Paese mantiene ancora una quota rilevante di mercato.

A livello globale le stime per il consumo di acciaio nel 2016 sono con segno negativo con una riduzione rispetto al 2015 del 0,8% mentre nel 2017 si stima un aumento dei consumi dello 0.4%. Uno scenario differente si ha in Europa che gode di un buon momentum in termini di consumo. Si stima uno +2,4% nel 2016 e un + 3,0% nel 2017.

Le dinamiche positive registrate in Europa nel 2016 sono dettate dall’andamento positivo dei principali clienti del mercato dell’acciaio.
Il mercato delle costruzioni, dell’automobili ha avuto un andamento positivo rispetto al 2015. L’unico settore che ha avuto un trend negativo è quello dei tubi in acciaio. Le stime per il secondo semestre del 2016 sono positive e si prevede un ulteriore incremento della domanda di acciaio.

Come nel primo semestre i settori trainanti saranno quello delle auto e delle costruzioni. L’andamento negativo registrato dal settore dei tubi nel primo semestre avrà segno positivo nella seconda metà dell’anno. In totale l’output di acciaio usato in UE è stimato incrementare del 2,4 % nel 2016 rispetto al 2015. Le stime per il 2017 sono al rialzo. Il Swip Index è stimato in aumento del 3% rispetto al 2016.

% consumo 2015 1Q16 2Q16 3Q16 4Q16 2016 1Q17 2Q17 3Q17 4Q17 2017
Costruzioni

35

1,5 1,1 0,3 2,8 2,9 1,8 1 3,4 2,5 2,4 2,4
Ingegneria meccanica

14

0,1 0,7 0,2 0,9 1,2 0,7 2,7 2,5 2,5 2,7 2,6
Auto

18

7,5 6,8 7,2 4 3,8 5,5 3 3,7 4,5 3,5 3,6
Applicazioni domestiche

3

4,3 2,9 3,1 2,9 2,4 2,8 2,3 1,8 2,1 2,6 2,2
Altri trasporti

2

6,7 4,6 3,5 1,9 -1,3 2,1 1,9 3,1 3,2 3,2 2,8
Tubi

13

-5,5 -6,8 -1,6 5,7 8,1 1,1 10,8 8,5 2,3 0,8 5,6
Beni metallici

14

2,2 2,6 3,1 1,7 1,4 2,2 2,3 2,2 2,9 2,5 2,5
Altro

2

1,4 0,9 1,7 1,1 1,2 1,2 1,6 1,1 2,3 2,1 1,8
Totale

100

2 1,8 2,2 2,8 2,9 2,4 2,9 3,5 2,9 2,6 3

E’ un buon momento per operazioni di Fusioni e Acquisizioni (M&A)?

I dati positivi del 2016 registrati in Europa lasciano presagire un aumento dell’attività di M&A.
Al fine di contrastare il calo prezzi si prospetta un’aggregazione delle principali società attive nel settore in Europa. E’ un processo necessario afferma Kerkhoff, Cfo di ThyssenKrupp.

In particolare in Italia già a partire dal 2003 si sta verificando un processo di aggregazione nell’industria dei servizi dell’acciaio infatti confrontando il numero di aziende presenti sul mercato nel 2003 (204) con quelle presenti nel 2013 (140) si nota una riduzione del 31,4 % del numero totale.

Alla base delle ragioni per le quali si può supporre una tendenza all’aggregazione delle imprese esistenti vi è un necessario aumento del numero di tonnellate di acciaio gestite da ciascun operatore, al fine di mantenere l’equilibrio gestionale.
Infatti come afferma Lakshmi Mittal, Ceo di Arcelor Mittal le società vincenti a livello globale avranno una capacità produttiva tra i 150 e i 200 milioni di tonnellate e questo significa la necessità di raggiungere una maggiore concentrazione nel settore, sia a valle che a monte.

Stefano L. di Tommaso