Newsletter di Luglio 2013

IL MOMENTO DI MINSKY?

 
L’economista americano Hyman Minsky con l’ultima crisi finanziaria è divenuto -postumo- molto famoso a Wall Street per aver tratteggiato in un libro del 1992, un assai triste scenario che, nel 1998, durante la crisi del debito russo, è stato denominato “the Minsky moment” dall’economista Paul McCulley, gestore di PIMCO. 

   
 

IN PILLOLE:

Minsky scriveva che in un mondo caratterizzato dalla forte finanziarizzazione dell’economia e da un eccesso di debito, la creazione di ricchezza si riduce e dipende non solo dalla ovvia capacità industriale e commerciale di generare reddito operativo, ma anche e soprattutto dalla capacità finanziaria di accumulare risorse strategiche: il fine degli operatori economici non è più la produzione di reddito, bensì l’accumulazione di ricchezza monetaria attuata mediante attività finanziate tanto con capitale proprio quanto con il credito, ovviamente sintantochè qualcuno lo concederà.
La progressiva rarefazione del credito e il parallelo aumento del suo costo in termini reali sembra caratterizzare l’attuale fase economica, sotto il segno di una crescente volatilità dei mercati.
In un mondo che entra nel vortice dell’eccesso di indebitamento finanziario dunque ciò che diviene particolarmente prezioso -e dunque raro- è il capitale di rischio, posto che il capitale di debito sarà per molti motivi meno disponibile, a tassi reali crescenti e a condizioni sempre più svantaggiose.
Può allora permettersi il mondo di ridurre le misure di espansione monetaria proprio mentre imperversa una strisciante deflazione? Probabilmente no, sebbene ciò che auspichiamo nello scritto che segue è l’opportunità di sostituire gradualmente le politiche di rifinanziamento delle principali Banche Centrali con misure straordinarie volte a favorire la creazione di infrastrutture e investimenti tecnologici, per fornire quello stimolo alla ripresa economica che il capitalismo d’oggidì sembra aver perduto autonomamente.

 

NEL DETTAGLIO:

Allorché la domanda di moneta preme sull’offerta, non solo aumenta la velocità di circolazione della moneta, ma si moltiplicano le innovazioni finanziarie (la cosiddetta quasi-moneta) che aiutano i mercati a crescere e divenire sempre più liquidi, sino a generare quella bolla speculativa e quell’eccesso di propensione al rischio che ha portato alla crisi dei mutui “subprime”.

È una buona descrizione di ciò che è successo nel mondo occidentale all’inizio del nuovo millennio: la poderosa espansione di borse, finanza dei derivati e titoli “tossici”!

L’opposto va a succedere quando la bolla speculativa dei mercati invece “scoppia” e l’economia di conseguenza rallenta: la velocità di circolazione della moneta allora diminuisce e la disponibilità di moneta “percepita” dagli operatori si restringe più che proporzionalmente, generando a sua volta effetti recessivi.

Se il sistema finanziario globale raggiunge un forte indebitamento generale, esso è dunque maggiormente esposto al rischio di implosione del mercato finanziario, dato che la crisi di fiducia che ne deriva può generare notevoli ripercussioni sulle variabili reali: un relativo aumento dei tassi può produrre l’impossibilità di rifinanziamento delle posizioni speculative, che devono allora essere liquidate vendendo le attività acquisite in leva finanziaria, provocando a loro volta la caduta non solo dei relativi prezzi, ma anche del reddito generale e dei flussi monetari del sistema.

È una buona approssimazione di ciò che è già successo dal 2008 in poi.

Infine il “Minsky Moment”: la deflazione indotta dal perdurare della crisi finanziaria e il conseguente crollo dei prezzi degli assets, “svenduti” a causa della necessità di rientrare dai debiti,  generano a loro volta aspettative di una prolungata stagnazione, inizialmente a causa del fatto che la liquidità disponibile si restringe più che proporzionalmente e successivamente per l’autorealizzarsi di aspettative negative!

Irving Fisher aggiungeva che qualora l’eccesso di indebitamento conduca tanto gli stati sovrani, quanto le banche e i privati, al tentativo di liquidazione dei debiti attraverso la svendita di attività, allora con la deflazione si produce un aumento dell’onere del debito in termini reali.  Ciò conduce alla caduta dei profitti, dunque del reddito disponibile per i consumi come di investimenti e occupazione.
Quando questo accade interviene una caduta della fiducia dei mercati e della velocità di circolazione della moneta, inducendo una fuga dei capitali dai mercati emergenti per rivolgersi a quei mercati che mostrano un aumento del tasso di interesse reale, e la deflazione porta infatti proprio a questo (e alla nascita della cosiddetta “sindrome giapponese”).

Questa è peraltro una condivisa previsione a proposito di ciò che sta per accadere!

 Anzi! Il fatto che i rendimenti reali americani tornino in territorio positivo può non essere per noialtri una buona notizia: se la locomotiva degli USA non “esporterà” presto e in dosi massicce la ripresa economica verso le nostre sponde dell’Atlantico, potremmo assistere ad una ulteriore e definitiva fuga di capitali dal nostro Paese, alimentando con essa recessione e deflazione e contemporaneamente dovendo subire un incremento degli interessi sul debito pubblico da rifinanziare, con l’arrivo di ulteriori tasse e giri di vite su spesa pubblica e consumi interni, difficilmente sostenibili se non interviene qualcosa o qualcuno a ristabilire un equilibrio.

 

 

Da notare che Hyman Minsky (un economista vissuto a Chicago dal 1919 al 1996, Keynesiano convinto ma con pochi fans alla “Scuola di Chicago”), aveva previsto con straordinario anticipo tutto questo.

La politica monetaria espansiva (QE) che le Banche centrali hanno praticato sino ad oggi è stata proprio rivolta a prevenire o quantomeno a posporre quel “Minsky Moment” da costui preconizzato.

Ma ci sono riuscite? Probabilmente no. Il fatto che la sbornia dei mercati borsistici si è presto esaurita, di conseguenza al programmato rientro dal QE, e i tassi d’interesse hanno cominciato a salire con una volatilità generale che si è impennata, non è un buon segno.
Il problema sembra risiedere allora nella necessità di dotare stabilmente (e non con manovre temporanee o con altri debiti) il sistema finanziario globale di molta più liquidità di quanta ne dispone attualmente, senza al contempo dover subire di conseguenza un’ondata inflazionistica!


COME USCIRNE ALLORA?

Mai come in questo momento c’è stato bisogno di una manovra coordinata, della UE in primo luogo ma fors’anche di tutti i Paesi OCSE, in termini di stimoli alla ripresa economica e contemporaneamente in termini di politiche espansive della massa monetaria, per contrastare il prosciugamento della stessa (deflazione), soprattutto laddove la salute delle economie minori risulta fortemente intaccata dall’incapacità di attrarre capitali!

Infatti soltanto un concerto di interventi tanto dei principali Governi occidentali quanto al tempo stesso dei loro Banchieri centrali, potrà scongiurare i danni derivanti da quell’eccesso di volatilità dei mercati che è divenuto già oggi una realtà e affonda le sue radici nella forte tendenza dei capitali a spostarsi sempre più velocemente da un mercato all’altro e da una valuta all’altra, e nella fine della sbornia di strumenti monetari introdotti dalle banche centrali quali misure temporanee per scongiurare i rischi di crollo del sistema finanziario che potevano derivare dalla caduta verticale della massa monetaria.
  
 

 

 

MA QUESTO “CONCERTO” AVRA’ LUOGO?

Sono in molti a sostenere di si, sebbene il solo fatto che se ne parli da anni (senza che nessuno prenda davvero l’iniziativa) impone di per sè una doverosa cautela.
I motivi affondano soprattutto nelle divisioni dell’UE (a molti Stati del nord Europa non dispiace puntare i piedi contro l’attivismo dei banchieri centrali, per attrarre a loro quei capitali che fuggono dalla parte meridionale dell’UE) e nella parallela necessità per gli USA di attirare capitali anch’essi, per riguadagnare la scena internazionale e porre in secondo piano i diffusi timori di collasso del più grande mercato finanziario al mondo (e del più grande debito pubblico al mondo).

Motivi che sino ad oggi lo hanno impedito, lasciando prevalere gli interessi “particolari” dei potenti del pianeta su quelli generali di tenuta del “Sistema Occidentale”.

Peraltro il voler rimandare la concertazione necessaria ad attuare gli opportuni stimoli alla crescita e la progressiva finanziarizzazione dei debiti pubblici di tutto il sistema economico occidentale rischia di risultare una miope manovra, visto che anche tutti gli altri sistemi economici e finanziari (in primis Cina e Giappone, ma sullo sfondo anche tutti gli altri BRICS) stanno sperimentando anch’essi i danni derivanti dalla riduzione del credito disponibile e stanno perciò programmando ogni sforzo possibile per attrarre verso di loro i capitali in fuga dall’Occidente, ponendosi di fatto in competizione valutaria con USA e UE.

Segno inequivocabile del fatto che questa crisi epocale del sistema finanziario globale ha inghiottito ed è a corto di molti più capitali di quanto si potesse immaginare!


E COSA FA L’ITALIA?

Il nostro sistema politico sembra stabilmente bloccato sull’eterno confronto tra destra e sinistra del Paese e sul sempre più grave deficit di risorse della pubblica amministrazione.
Ne è scaturita un’incapacità strutturale nel definire politicamente un accordo circa le misure necessarie a combattere disoccupazione e calo dei consumi, entrambi conseguenze dirette della recessione del nostro sistema industriale.

Il nostro sistema economico a sua volta è sempre stato fortemente incardinato sulla dipendenza dell’industria dal sostegno del credito bancario e ha perciò subìto assai duramente lo “shortage” di liquidità che è derivato dalla crisi di credibilità internazionale del debito pubblico italiano, e dalla conseguente necessità di rifinanziare quest’ultimo sottraendo risorse al sistema industriale.
L’avvento delle misure straordinarie di austerity introdotte dal governo Monti è inoltre coinciso con una ripresa della fuga di capitali dai confini nazionali, che ha quantomeno ridotto gli investimenti industriali e strutturali nel nostro Paese e (molto) contribuito ad accrescere il tasso di disoccupazione.

L’Italia insomma ha subìto più di molti altri Paesi industrializzati i danni derivanti dall’eccesso di indebitamento, dalla fuga dei capitali e dalla successiva riduzione del credito disponibile (anche perchè le banche hanno ridotto le loro disponibilità patrimoniali a causa delle perdite su crediti e hanno ricevuto dalla BCE finanziamenti, non capitali, usati innanzitutto per sottoscrivere quei titoli pubblici italiani che gli stranieri non volevano più).
Il nostro Paese, per contrastare il fenomeno, dovrebbe più di tanti altri Paesi industrializzati praticare ogni genere di sforzo nell’attrarre al suo interno quei capitali che mancano all’appello. E tuttavia l’argomento è praticamente assente da ogni tavolo politico, dalle priorità confindustriali, sinanco dalla stampa prevalente, mentre -per trovare delle soluzioni- bisognerebbe iniziare col prenderne atto.


INDICAZIONI PRATICHE:

Le Borse, dopo una bella sosta di ristoro nel Luna Park, hanno imboccato decisamente l’ingresso della giostra delle Montagne Russe, anche se per molti motivi noi continuiamo a ritenere che la tendenza di fondo resterà positiva.
Si tratta di indovinare in quale momento entrare o uscire dal mercato e la cosa si appresta ad essere sempre più difficile. Nel medio termine invece tutto dipenderà dalla possibilità che di liquidità sul mercato se ne immetta ancora, dal momento che si è accumulato un certo gap tra domanda e offerta di denaro e per il fatto che il mercato dei titoli a reddito fisso ne brucerà ancora non poca.
Ma anche su questo tema siamo relativamente ottimisti: non vediamo alternative alla politica di prosecuzione del “QE-Infinity”, casomai, come scritto più sopra, vediamo la possibilità che a tali operazioni vengano sostituite manovre più strutturali, tendenti all’immissione sui mercati di capitale permanente e meno di debiti temporanei del sistema bancario: tutto il mondo occidentale ne ha bisogno (a partire dagli USA).

Anche la guerra valutaria, iniziata dagli USA e proseguita con decisione dal Giappone, finalizzata a fornire più stimoli alla ripresa industriale (ma soprattutto ad attirare capitali prima e più stabilmente di quanto potranno farlo altre economie-paese) non crediamo sia terminata, anzi è appena iniziata!
Se ciò danneggerà la stabilità dell’Euro oppure la rafforzerà non è facile prevedere. Ci sono due scenari estremi nel consensus degli analisti e poca probabilità che ciò che accadrà sia una via di mezzo: il primo parla di rottura finale della divisa europea sull’onda dell’ennesima crisi di fiducia dei mercati, il secondo parla di grande forza della valuta Europea, sempre a causa del peso prevalente delle economie nord-europee sul valore intrinseco della divisa, le quali peraltro mostrano di essere tra le più sane al mondo!

Siamo poi entrati in una nuova era del commercio internazionale che dal punto di vista della quantità di merci fisiche che si spostano potrà anche diminuire, ma dove l’interesse prevalente di molti paesi emergenti (a partire dai BRICS) è divenuto quello di accaparrarsi know-how e talenti, e questo in qualche modo favorirà le piccole e medie imprese italiane, se esse avranno voglia e capacità di cercare partnership, capitali e capacità distributiva fuori dei confini nazionali.

I rendimenti reali dei titoli di debito invece, soprattutto se Minsky avrà avuto ragione, non potranno che accrescersi, gettando nel panico il relativo mercato anche a causa dell’accresciuta instabilità generale e di conseguenza della volatilità dei tassi. La cosa è peraltro calmierata dalla desolazione indotta dalla deflazione strisciante, dall’elevato livello dei tassi di interesse reale, e dal fatto che la crescente ed obbligata finanziarizzazione degli enormi debiti pubblici (quelli americani innanzitutto ma anche europei: si pensi alla mole di titoli in scadenza della Francia e della Spagna, oltre che dell’Italia, dove però il risparmio privato è pari al doppio dell’ammontare del debito pubblico) possa indurre i banchieri centrali a mantenere artificialmente bassi i rendimenti obbligazionari.

Indicazioni tutt’altro che facili da applicare, ma di questi tempi osservare il mondo è sempre più complicato!

 

Stefano L.di Tommaso