Gennaio 2015

I CIGNI NERI DEL 2015


 

 

SOMMARIO:


1) IN SINTESI:  
Impossibile fare previsioni !


2) MERCATI FINANZIARI:

a) I Cigni Neri del 2015 (Scenario Globale)
b) L’ Europa tiene?


3) FUNDAMENTALS E DINTORNI :

a) Gli Interessi Economici alle Radici della Nuova Guerra Fredda
b) Reti d’impresa ed E-Commerce: occasioni per aumentare l’export delle PMI italiane


4) APPROFONDIMENTI:
 Addio Re Giorgio (senza alcun rimpianto)


5) INFORMALIA:
 I tre livelli di crisi economica

 

 

 

1) IN SINTESI :

     IMPOSSIBILE FARE PREVISIONI

Gli argomenti che contano davvero sui mercati e sugli andamenti economici prospettici in questo travagliatissimo scorcio di inizio anno sono pochi, importantissimi e maledettamente difficili da interpretare:

– l’Euro-Grexit: la possibilità che la Grecia esca dall’Euro e quali effetti potrebbe innescare 

– la discesa oltre ogni aspettativa del prezzo del petrolio: nessuno sa cosa può comportare 

– l’incerto Quantitative Easing europeo e lo scontro istituzionale che sottende

– la crisi del Rublo e l’improbabile default del sistema finanziario russo

– l’instabilità (maggiore di quanto appaia) del governo e del Paese e dunque anche dell’UE.

Il combinato disposto degli eventi sopra indicati è poi ancora più complesso da prevedere con qualche ragionevole probabilità e non soltanto sulla base del “gut feeling” di ciascuno di noi.

Per tentare di avvicinarsi alle possibili risposte quanto segue è un’analisi -strettamente qualitativa- degli scenari possibili, delle prospettive europee, dei controversi interessi economici globali e infine del decennio di spregiudicato uso del potere da parte di uno dei più inquietanti tra i Presidenti della Repubblica che abbiamo avuto, neanche a farlo apposta comunista e figlio naturale dell’ultimo Re d’Italia.

Perciò, nonostante quanto segue non sia del tutto infondato, non chiedeteVi stavolta cosa ci riserva il Fato: nessuno oggi è in grado davvero di anticiparlo con un quadro d’insieme così frastagliato. E poi è sempre stato difficile fare previsioni, soprattutto se riguardano il futuro.

Buona lettura!

 

(In dettaglio)

2) MERCATI FINANZIARI

A) I POSSIBILI CIGNI NERI DEL 2015        

   

Come ogni fine d’anno, anche nell’ultima che abbiamo trascorso economisti e analisti di tutto il mondo hanno scritto fiumi di parole per sperticarsi nelle solite, ottimistiche e talvolta improbabili previsioni sui mercati e sugli andamenti borsistici che ogni anno essi ci ripropongono con presunzione, quasi fossero solide aspettative. Come sempre peraltro esistono importanti interessi dietro a tali informative e, soprattutto nel nostro bel Paese che non ha mai smesso di rimanere alla periferia del mondo civile, quegli interessi spesso contrastano con l’obiettività, con la realtà tangibile che i risparmiatori dovrebbero prendere in considerazione.

Il mio personale avviso è -al contrario- che l’anno appena iniziato si prospetti assai controverso e difficile da interpretare, a causa delle molte variabili in gioco e dell’elevata volatilità che almeno stavolta da tutti è attesa sui mercati. Le previsioni potrebbero perciò risultare più ardue che mai, e le possibili sorprese essere grandi, poiché numerosi eventi imprevisti e decisivi potrebbero fare la loro comparsa nell’anno appena iniziato.

Vediamo allora innanzitutto cosa dicono gli analisti e poi cosa pensano invece i “contrarians” come il sottoscritto:

1) mercati finanziari: ancora una volta gli analisti vedono rosa per le principali borse valori del mondo mentre c’è una buona probabilità che i corsi azionari subiscano nel corso dell’anno un deciso calo, in conseguenza di un’importante serie di fattori quali: l’eccessivo ribasso dei tassi di interesse, la perdurante deflazione globale, la possibile riduzione dei moltiplicatori dell’EBITDA per le valutazioni d’impresa (oggi forse ingiustificatamente generose) e la riduzione del reddito disponibile delle classi medie. L’attesa generalizzata di una maggiore volatilità dei corsi azionari renderà inoltre difficile fare scelte di portafoglio dal momento che la tempistica di investimento e disinvestimento potrebbe prevalere decisamente sui criteri fondamentali. È inoltre ancora tutta da verificare la capacità delle Borse anglosassoni (che normalmente fanno da traino alle altre) di fare a meno dell’importante aiuto che sin’ora ha costituito l’immissione continua di moneta fresca da parte delle Banche Centrali. Una drammatica combinazione di ridotte aspettative di ulteriore crescita economica e mercati divenuti improvvisamente quasi illiquidi potrebbe perciò, nella seconda parte dell’anno, rovinare a molti la festa!

Anche per i cambi delle valute l’aspettativa generale di un certo fermento rende nella realtà ben più difficile individuare le effettive tendenze di fondo oggi in atto, anche a causa della difficoltà di prevedere le risultanze del futuro Quantitative Easing europeo (che dipenderanno molto dall’intensità con la quale la Germania permetterà che la B.C.E. possa muoversi) sul cambio dell’Euro, innanzitutto contro il Dollaro. Quest’ultimo da molti mesi sino ad oggi non ha fatto che rivalutarsi. Ma se il QE di Draghi sarà troppo timido i suoi effetti potrebbero risultare opposti a quelli voluti dai banchieri centrali: l’Euro tornerebbe di nuovo sulle montagne russe e la disponibilità di credito nelle zone periferiche dell’Unione (come il nostro Paese) non crescerebbe affatto. Sarebbe anche una vera doccia fredda sulla fiducia che i mercati hanno sino ad oggi a lungo tributato ai principali banchieri centrali, sentendosi da ciò a loro volta rassicurati.

Tra l’altro non si riesce a comprendere se la minaccia dell'”Euro-Grexit” (uscita della Grecia dall’eurozona) arriverà con la possibile vittoria di Syriza a trasformarsi in realtà. Lo scompiglio finanziario che ne potrebbe derivare lo farebbe rassomigliare molto al fenomeno della clamorosa sottovalutazione che la FED fece nel 2007 del possibile fallimento della Lehman Brothers. Aspettiamoci soprattutto in quel caso un bel balzo delle quotazioni del metallo giallo

Infine il fattore di tutti i fattori che potrebbe portare scompiglio sul più gigantesco comparto degli investimenti, quello dei titoli a reddito fisso, resta il possibile (e anche probabile, seppur magari limitato) rialzo dei tassi di interesse americani, scesi vicino allo zero assoluto oramai da troppo tempo e sconfinati talvolta in territorio negativo in Europa e Giappone. Quel piccolo rialzo potrebbe risultare l’antesignano di analoghe manovre da parte delle banche centrali del resto del mondo come pure di attese crescenti da parte degli operatori del mercato. Si dovesse innescare una tale giostra molti investitori materializzerebbero gravi perdite e molti fondi pensione non saranno più in grado di assicurare i loro sottoscrittori, contribuendo al gioco al ribasso.

2) crescita economica: gli analisti oggi concordano su un’aspettativa di decisa e costante crescita del Prodotto Globale Lordo anche per il 2015, oscillando tra il 3% e il 4% in termini reali, ma quest’anno ci potrebbero essere importanti sorprese al ribasso, a partire dal fatto che se finalmente la deflazione riuscirà a fare il suo scomodo ingresso nei dati statistici anche solo per mezzo punto percentuale, una crescita in termini reali del 3% corrisponderà ad una crescita in termini nominali di solo il 2,5%. Esistono però anche altri importanti motivi per attendersi possibili sorprese negative su questo fronte: la scarsa vitalità delle fragili economie dei Paesi Emergenti, da molti dei quali gli investitori hanno da poco tempo drenato capitali, come pure la possibile riduzione dell’impetuosa crescita dei Paesi asiatici, non a lungo sostenibile ai ritmi di quasi il 10% annuo come ci siamo abituati a vedere negli ultimi tempi. In particolare in Cina, laddove non si riuscisse a superare una crescita attesa del 5% per l’anno in corso, potrebbe instaurarsi un circuito negativo delle aspettative proprio adesso che il Governo Centrale sta sperando di innalzare il livello interno dei consumi. La cosa potrebbe perciò seriamente contribuire al caos generalizzato e spingere il Paese ad adottare politiche molto più aggressive di svalutazione del Renminbi nei confronti del Dollaro.

Anche il possibile (anche se non necessariamente probabile) ritorno all’aumento dei prezzi delle materie prime (in particolare di quelle alimentari) potrebbe contribuire a rallentare la crescita economica mondiale mentre, al contrario, la recente caduta del prezzo di petrolio e gas non ne comporterà necessariamente un’accelerazione. I motivi? Sono divenuti parecchi i Paesi del mondo che fanno estrazione ed esportazione di petrolio e gas (partire dagli USA) e sono ancor più numerosi i Paesi dove risiedono produttori di attrezzature e impianti per l’industria dell’ “oil&gas”, divenuta oramai particolarmente “capital intensive”. Sono perciò numerosi i Paesi che potrebbero vedere tagliati o divenuti improduttivi gli investimenti previsti per quell’industria con il conseguente crollo di tutta l’attività economica indotta. Molte economie di Paesi emergenti potrebbero risultarne gravemente danneggiate.

Soprattutto qualora i mercati finanziari dovessero terminare l’anno 2015 con una grave perdita il mondo intero comincerebbe allora seriamente a domandarsi quando si materializzerà di nuovo lo spettro di una nuova recessione globale.

Resta infine un ultimo grande spettro che incombe sui mercati finanziari di tutto il mondo: quegli strumenti derivativi che hanno innescato la crisi finanziaria degli ultimi anni, strumenti che Warren Buffet non ha mai smesso di chiamare “armi finanziarie di distruzione di massa” hanno raggiunto per le sole banche americane a fine 2014 l’impressionante picco di $300.000 miliardi (avete letto bene!), vale a dire circa 400 volte il loro capitale di rischio. La lezione della crisi del 2008 non ha evidentemente insegnato molto ai regolatori americani se di nuovo -nel corso dell’anno- potremmo trovarci di fronte  allo scoppio di una bolla speculativa su quei mercati!

Morale: con gli scenari sopra accennati per l’anno appena iniziato sembra proprio difficile fare previsioni. Al massimo qualche scongiuro.

 

B) L’EUROPA TIENE? :

 

 

A distanza di circa un anno dall’ascesa al governo di Matteo Renzi sono in molti gli italiani rimasti delusi dall’assenza di significativi cambiamenti della politica che conoscevamo già. Renzi anzi si è infilato senza adeguata preparazione in un tunnel che potrebbe decretarne -se non la fine- quantomeno un discreto ridimensionamento: il dissidio interno al partito (cresciuto anziché diminuito, che quasi sicuramente porterà a una scissione), lo scontro frontale con i sindacati (pronti a dare battaglia su qualsiasi argomento, per far vedere che esistono ancora, sebbene restino pur sempre una forza sociale), una dialettica sempre più serrata con un Berlusconi redivivo sul patto del Nazareno e sulle sue implicazioni nella scelta del nuovo Presidente della Repubblica ( proprio nel momento in cui la medesima dovrebbe riformare la propria costituzione), un’economia che mostra altri segni di cedimento mentre egli aveva sperato di avere subito un primo riscontro dalle iniziative intraprese, la fine di un semestre di presidenza italiana nell’UE che egli aveva sperato di utilizzare per far passare significative misure a sostegno degli investimenti, ed infine la nomina inutile della sua fedelissima Federica Mogherini e quella dannosa di Junker (fattoci ingoiare senza tanti complimenti dalle èlites della Mitteleuropa) che ha subito varato un ambizioso quanto impossibile piano di investimenti infrastrutturali europei non coperto da alcuna vera previsione finanziaria, perciò fantasioso nella forma e sterile nella sostanza!

Cosa c’entra questa bella infilata di guai del nostro Premier con la tenuta dell’Unione Europea e soprattutto della Divisa comune? Non poco, a quanto pare, dal momento che la ripetuta ingovernabilità italiana fa il paio con la crescita del deficit e del debito pubblico, con il perdurare della crisi di fiducia nel nostro Paese e conseguentemente con la mancata ripartenza degli investimenti produttivi e con la possibile caduta verticale del merito di credito del nostro debito pubblico, proprio in un momento in cui la Grecia sta arrivando ad una possibile svolta indipendentista (tutt’altro che certa però), la Francia potrebbe vedere vincitrice Marine Le Pen, l’Inghilterra potrebbe decidere a primavera di uscire dall’Unione e i mercati potrebbero persino anticipare lo scenario con un tonfo che oggi nessuno si aspetta. È solo un’ipotesi, ma d’altra parte nella tenuta della costruzione comunitaria l’Italia rappresenta un tassello essenziale che sta andando rapidamente fuori posto: la mancata ripresa economica è figlia di riforme incerte e di portata troppo limitata, mentre il mancato aiuto europeo trova giustificazione nel mondo tedesco proprio nell’inutilità del dare una mano (almeno dal punto di vista degli investimenti infrastrutturali e delle facilitazioni monetarie) ad un Governo capeggiato da un’anatra divenuta zoppa e a una periferia dell’Europa che vede in forse la stessa appartenenza dei Paesi più deboli.

Anche l’infilata dei prossimi eventi è tale da scuotere una montagna: il prossimo 22 Gennaio si riunisce il Direttivo della Banca Centrale Europea (che vede in corso un confronto serrato tra Draghi, supportato dalla maggioranza dei suoi membri e la componente germanica che gli è rivale) per decidere su un Quantitative Easing che rischia di nascere da un compromesso infelice, incapace di rassicurare i mercati e dai possibili effetti controproducenti. Poi il successivo 25 Gennaio gli elettori greci si esprimeranno sul Parlamento e, di conseguenza, sull’appartenenza della Grecia all’Eurozona, con i possibili effetti dirompenti che potrebbero conseguire da una vittoria di Tsipras (Syriza). Infine dal 28 Gennaio partiranno i seggi per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, la cui figura potrebbe anche oscurare da quel momento in poi il nostro Premier nel dialogo con il resto d’Europa, forse limitandone le future sorti politiche. Ricordiamoci infatti che Renzi è stato nominato da Napolitano, e che il possibile scioglimento delle Camere dipenderà dal nuovo inquilino del Quirinale.

Il legame tra la politica italiana e quella europea resta insomma l’economia e ciò che diranno le Agenzie di Rating, come reagiranno i mercati finanziari ai prossimi cruciali appuntamenti politici potrebbe a sua volta generare non pochi sconvolgimenti sul futuro di un’Unione mal progettata, principalmente a causa del mancato passo indietro che i singoli Stati Nazionali avrebbero dovuto fare man mano che l’Europa veniva costruita.

Pur in assenza di alcuna certezza sugli scenari futuri, l’Unione e in particolare l’Eurozona sono oggi comunque flagellate dal debito pubblico, dalla disoccupazione, dalla deflazione (riteniamo non correttamente riportata dalle statistiche ufficiali) e dalla progressiva deindustrializzazione. Se Sparta (Roma) piange insomma, Atene (Berlino) non può ridere.

L’Europa perciò accelera nella sua corsa verso un bivio ritenuto oramai imprescindibile: il suo consolidamento politico e fiscale oppure la sua frantumazione. Scelta politica, senza alcun dubbio, fortemente dirimente tuttavia sull’economia e in ultima analisi sul benessere dei propri cittadini!

 

3) FUNDAMENTALS & DINTORNI 

3A) LE RADICI ECONOMICHE DELLA NUOVA GUERRA FREDDA 

 

 

L’espansione monetaria (Q.E.) nuovamente decisa dal Giappone lascia prevedere l’avvio di una ulteriore stagione di svalutazioni competitive nel mondo, le quali saranno inevitabilmente seguite a ruota da più o meno tutte le maggiori economie mondiali, che perciò difficilmente potranno adottare anche politiche fiscali volte a generare lo sviluppo auspicato. Sono possibili infatti comportamenti simili da parte delle banche centrali di tutti i Paesi industrializzati, ciascuna per evitare la sopravvalutazione della propria divisa, con il rischio che nel complesso il valore percepito di ciascuna di esse scenda di fatto sensibilmente alimentando una nuova corsa ai beni rifugio. Perché ciò non è già accaduto? Perché invece dell’inflazione ha fatto capolino il suo opposto: la deflazione, che rischia di deprimere tutti i prezzi, anche quelli dei beni rifugio.

Sono in molti a pensare che il Dollaro dovrebbe proseguire ulteriormente la sua corsa al rialzo, sia per la salute dell’economia americana, che per una precisa volontà politica affinché esso rimanga “la” valuta di riferimento, ma anche a causa del fatto che la Federal Reserve ha da tempo annunciato che presto alzerà i tassi di interesse. Tuttavia la velocità con la quale il Dollaro è cresciuto fa pensare che nelle prossime settimane si vedranno più le montagne russe sul mercato dei cambi che non il consolidamento di un trend ben definito.

Il risultato delle svalutazioni competitive potrebbe comportare un nuovo giro di valzer della “politica del rubamazzo” inaugurata dal Giappone e dagli USA a tutta spesa in definitiva dei Paesi più deboli, quelli incapaci di agire sulla politica monetaria oppure quelli meno interessati a svalutare le loro monete dal momento che buona parte delle loro economie dipendono fortemente dall’export di materie prime.

In presenza di un eccesso di debiti pubblici che ha reso impossibile ai principali Paesi occidentali la continuazione degli interventi economici fatti attraverso il deficit di bilancio, lo stimolo economico effettuato attraverso l’allentamento della politica monetaria sembra essere l’unico strumento disponibile per controbilanciare gli effetti recessivi della necessaria riduzione del debito pubblico, operata innanzitutto con l’incremento della pressione fiscale che riduce il reddito disponibile e i consumi.

Il punto è che il fenomeno è di per sè asimmetrico: i Paesi che hanno sino ad oggi accumulato più debito largheggiando con la spesa pubblica stanno tutti cercando di ridurla e aumentando l’imposizione fiscale (che rischia però di allontanare capitali e investimenti) mentre quelli che sino ad oggi sono stati più virtuosi non stanno affatto parallelamente incrementando i propri consumi e risparmiando di meno: l’unico risultato è che questi ultimi incrementano i loro avanzi di bilancia commerciale, esercitando una indiretta ulteriore pressione recessiva sugli altri Paesi, rimasti a secco di capitali e con disavanzi crescenti (come l’Italia).

Le teorie economiche keynesiane suggerirebbero in questi casi interventi statali diretti finalizzati all’incremento dei consumi di base, in grado di agire contemporaneamente tanto sulla domanda quanto sull’offerta di beni e servizi favorendo con ciò anche gli investimenti di capitale che ampliano la capacità produttiva e riducono il rischio di uno stimolo inflazionistico.

L’eccesso di debito pubblico e la speranza di una sua parziale monetizzazione operata “senza costo” perché in presenza di numerosi fattori deflativi (quali ad esempio la discesa del costo di materie prime ed energia) ha fatto preferire a tutti l’allentamento della politica monetaria che ha anche il merito di far scendere tassi e costi del debito pubblico.

Sebbene i Paesi che hanno preso l’iniziativa in tal senso abbiano già rivisto per primi la crescita economica, ci si deve chiedere però se l’ampliamento della base monetaria ha davvero comportato miglioramenti apprezzabili sul benessere collettivo, a causa del fatto che buona parte della liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali è rimasta intrappolata a monte presso intermediari finanziari, mercati borsistici e investitori istituzionali, perpetrando una deprecabile polarizzazione della ricchezza, incrementata in questi anni successivi alla grande crisi.

Probabilmente la gravità della situazione globale di ridotta crescita e deflazione strisciante necessiterebbe che i Paesi più avanzati agiscano sulla crescita con entrambi gli stimoli: sia monetari che fiscali, raggiungendo inoltre una concertazione internazionale che invece sino ad oggi è mancata.

Ma questa è di fatto un’utopia, perché ciascuna delle grandi economie del mondo è anche protagonista nello scacchiere geo-politico e cerca di profittare della situazione per ottenere qualche vantaggio. È quello che sta facendo la Germania con il fiscal compact nei confronti dell’Italia, ad esempio, ma soprattutto questo è quello che stanno facendo gli USA nei confronti del resto del mondo manovrando affinché il costo delle importazioni di materie prime sia il più basso possibile e affinché il Dollaro resti la valuta di riferimento per i capitali internazionali.

Di fronte a questo scenario si può comprendere meglio l’acuirsi della nuova “guerra fredda” tra America e Russia. Quest’ultima esportatrice netta di energia e altre fondamentali materie prime, invece di lasciarsi travolgere dalla manovra in corso ha colto l’occasione della crisi finanziaria internazionale per fare due scelte fondamentali: avvicinarsi strategicamente agli altri BRICS tra i quali la Cina e incrementare concordemente con quest’ultima le proprie riserve auree, da detenere in alternativa al Dollaro.

Perché l’oro? Perché la monetizzazione dei debiti occidentali non potrà che tradursi in una riduzione del valore intrinseco delle principali valute di conto. Ma soprattutto perché per acquistare l’oro si vendono Dollari, operando all’opposto di quanto sino ad oggi è stato fatto dai principali Paesi occidentali per evitare che venisse percepita una perdita del valore intrinseco delle loro valute di conto: vendere oro affinché le sue quotazioni calassero e lavorare alla continuazione della prevalenza del Dollaro.

Russia e Cina sanno bene invece che chi controlla le riserve auree fisiche mondiali accumula un fortissimo potere di influenza. Non per niente la Germania ha chiesto (e non ancora ottenuto) a Stati Uniti e Regno Unito di rientrare fisicamente in possesso di quello proprio.

L’Occidente (Europa e America, ma anche Giappone e Australia) ha ben chiaro davanti a sé che l’esplosione demografica dei BRICS è una bomba ad orologeria che ne limiterà fortemente la possibilità futura di rimanere nell’attuale situazione predominante. Per contrastare tale avanzata è divenuto perciò strategico ridurre con ogni mezzo anche il potere economico degli altri Paesi, BRICS in testa, anche scatenando “guerre valutarie” alle quali non tutti potranno partecipare.

Per molti anni dal dopoguerra ad oggi l’Occidente è riuscito a mantenere la propria leadership attraverso l’avanzamento scientifico e tecnologico e di conseguenza con la propria supremazia economica e militare. Ancora oggi è così, ma la smisurata crescita demografica ed economica raggiunta dai BRICS può costituire una breccia in quella leadership occidentale che sino a ieri era inimmaginabile.

Ecco le radici della nuova guerra fredda: indebolire la Federazione Russa che flirta con la Cina e accumula riserve in oro anziché Dollari attraverso sanzioni e conflitti locali (che tanto paga l’Europa). Almeno sintantoché gli altri BRICS non crescano troppo, economicamente e politicamente. Unici fattori inaspettati: l’intelligenza e l’enorme consenso popolare di cui continua a godere Putin dopo vent’anni al potere, un uomo molto amato dai suoi concittadini e dipinto invece in tutto l’occidente come un ostinato volgare dittatore, spietato superstite del vecchio KGB!

 

3B) RETI D’IMPRESA ED E-COMMERCE:
DUE FORMIDABILI OCCASIONI PER AUMENTARE L’EXPORT DELLE PMI ITALIANE 

Si è a lungo discusso della grande difficoltà di riuscire ad esportare per le piccole e  medie imprese del “Made in Italy”.

Si è provato a spiegare questo handicap come risultato principalmente delle piccole dimensioni di quelle aziende come pure della spesso collegata arretratezza culturale che le ha contraddistinte sino ad oggi. Si è anche passati dal montezemoliano “fare sistema” che mancherebbe al nostro Paese e alle sue attività industriali, prive di rappresentanza politica e istituzionale nel resto del mondo.

Negli ultimi tre anni però la spesa complessiva media mensile delle famiglie italiane si è ridotta del 5,2% calando a €2.359 e per molte PMI attive nei settori tipici in cui eccelle il Made in Italy (beni voluttuari) il mercato interno si è ristretto ben di più: si calcola che dal 2008 al 2013 un quinto delle imprese familiari italiane abbia chiuso i battenti o sia finito in procedure fallimentari, generando a sua volta crisi e necessità di ripensare la formula imprenditoriale.

Secondo un recente studio di SACE, una delle principali ragioni di tale fenomeno è sicuramente stato il fatto che troppe PMI erano mancanti di risorse e organizzazione commerciale per evitare di restare eccessivamente focalizzate sul mercato domestico. Il fenomeno è ancora più accentuato se si paragona la propensione all’esportazione delle imprese italiane con quella di aziende delle medesime dimensioni in Germania, Spagna o Francia.

L’argomento è di grandissimo peso perché buona parte del “Made in Italy” quando non è un prodotto alimentare è design, moda, arredo, innovazione stilistica, artigianato tipico o innovazione funzionale. Tutta roba che si realizza spesso in piccolissima serie numerica e in stabilimenti artigianali di ridottissime dimensioni: caratteristiche assai ardue per una diffusione commerciale globale di quei prodotti!

Ma la verità è che per esportare stile o cibi di qualità ci vuole spesso un Global Brand e a sostenere il medesimo dovrebbe soccorrere l’intero sistema-paese, oltre alla disponibilità di tanto capitale di rischio per arrivare a farsi conoscere nel mondo e il supporto di quei media che fanno tendenza, digitali e non solo, che quasi mai sono italiani. Rari sono i casi di eccellenza come quello del vino, nel quale dal 2008 ad oggi le esportazioni sono cresciute del 42%, raggiungendo il valore di €3miliardi.

Il settore pubblico in Italia è invece stato bravissimo sino ad oggi quasi solo a spiazzare quello privato e a fare le pulci agli esportatori partendo dal pre-concetto che essi -soprattutto quando si organizzano in piccole e medie imprese- sono tutti evasori potenziali ed esportatori di capitali in forme più o meno illecite.

Dovremmo invece chiederci perché mai la maggioranza dei protagonisti del Made in Italy pensa solo a fuggire da quello che una volta si chiamava  il “Bel Paese”, come in precedenza succedeva solo ai popoli sovietici.

Negli anni recenti poi abbiamo superato noi stessi: la contrazione del credito disponibile ha spesso favorito la cessione di eccellenze italiane ad operatori stranieri e l’Unione Europea ha quasi sostenuto il processo di deindustrializzazione dei nostri territori sovvenzionando gli investimenti per la delocalizzazione di moltissime aziende al di fuori dei confini europei, ovvero il loro insediamento produttivo anche nei Paesi divenuti di fresco membri dell’U.E. cosa che in Italia ha sicuramente ridotto l’occupazione interna e conseguentemente depresso i consumi.

Come dimostra il caso illustre della F.C.A. (ex FIAT) persino lo spostamento della fiscalità in altri Paesi U.E. è favorito.

Un capolavoro di contro-politica industriale che oggi noi cittadini italiani paghiamo amaramente con il crollo dell’occupazione e la conseguente caduta verticale della domanda interna di beni e servizi.

Tuttavia un primo appiglio di speranza per le PMI italiane, spiazzate dal calo dei consumi e dalla difficoltà di riuscire autonomamente a sopportare i costi e i rischi dell’internazionalizzazione, è recentemente emerso da un fattore esogeno all’Italia e nato addirittura fuori dall’Europa: internet, che ha consentito una crescente digitalizzazione di tutti i principali Paesi del mondo.

Sul fronte della domanda di beni e servizi infatti, sul nostro pianeta ci sono già circa 2,6 miliardi di individui che cercano prodotti su internet e quasi la metà di essi (1,2 miliardi di persone) compra regolarmente “online”. Gli italiani che comprano sulla rete sono già 6 milioni (come dire: il 10%della popolazione totale e il 20% di quella attiva) e il 93% di essi ne manifesta soddisfazione.

Sul fronte dell’offerta invece, già in Europa ci sono 645 mila imprese che vendono attraverso l’e-commerce mentre in Italia ce ne sono soltanto 30 mila, contro -ad esempio- le 120 mila in Francia. Soltanto l’1% delle PMI italiane, cioè quelle che potrebbero avere il maggior vantaggio dall’e-commerce, si è fino ad oggi cimentato seriamente in tentativi di avvio del nuovo canale commerciale rappresentato dall’online.

 

 

A riprova dell’importanza prospettica del commercio sul web, Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale, fa notare che l’86% delle aziende fallite nell’ultimo anno non aveva neppure un sito internet. Perché l’Italia delle imprese si adegui non solo l’efficienza e la velocità della rete dovranno crescere, ma anche la normativa nazionale circa privacy, tassazione, copyright e protezione d’acquisto per il consumatore dovrà adeguarsi. L’Italia ha infatti ancora la metà dei siti internet aziendali delle imprese del Portogallo, mentre si sta velocemente ampliando nel mondo la platea di  potenziali acquirent: nel 2020 i cittadini collegati alla rete si calcola che raggiungeranno il numero di 7 miliardi.

Dunque tanto le caratteristiche intrinseche dei nostri prodotti quanto l’attuale arretratezza digitale delle imprese italiane (e dunque l’enorme spazio di crescita perché esse si adeguino ai nuovi standard mondiali quanto infine i tassi di sviluppo delle vendite su internet, fanno ben sperare che da questo fronte possa arrivare una bella scossa per le imprese italiane!

Peraltro l’accesso alla rete e la conseguente crescita di vendite online avviene oggi soprattutto attraverso i dispositivi mobili e l’Italia è fra i cinque Paesi con maggiore intensità di uso di telefonini e smartphone. In tutto il mondo le imprese italiane potrebbero recuperare terreno proprio grazie a ciò.

In termini di ritorno per lo sviluppo dell’economia italiana il ruolo dell’export e in particolare di quelle forme di export che richiedono minori investimenti, come l’e-commerce appunto, può essere molto importante. Per vincere la concorrenza commerciale sulla rete occorre tuttavia una vera e propria rivoluzione culturale dei nostri imprenditori, a cominciare dal dominio delle lingue straniere e dalla grafica, per superare vincitori la mancanza della percezione sensoriale del prodotto posto in vendita nei negozi digitali.

La presentazione dei prodotti risulta infatti fondamentale per montare un’attività e-commerce e offrire un servizio completo.

E poi la pubblicità online non può prescindere dall’uso dei social network, nessuno dei quali nasce nel nostro Paese.

Milano Finanza fa tuttavia notare che, in un contesto di generale arretratezza delle aziende italiane, non mancano casi virtuosi come Yoox, il più importante sito al mondo di vendite online del segmento fashion oppure Dalani, €100 milioni di fatturato raggiunti in soli tre anni e la presenza in 15 Paesi del mondo, un e-commerce italiano che vende tutto per la casa, dai mobili ai materassi e che ha creato nello stesso periodo mille nuovi posti di lavoro.

Gli strumenti per favorire l’export non si fermano tuttavia alla crescita dimensionale e alla crescente digitalizzazione. Un recente studio di Banca Intesa San Paolo ha messo in evidenza un altro strumento rivelatosi formidabile per favorire le esportazioni e dunque la sopravvivenza delle PMI italiane è stato la crescente diffusione delle reti d’impresa, che ha consentito anche alle più piccole aziende di molti distretti industriali di mettere a fattor comune attività costose e rischiose come l’analisi dei nuovi mercati e l’apertura in giro per il mondo di uffici dedicati alla penetrazione commerciale.

Già la formazione dei distretti industriali aveva creato nei due decenni precedenti casi illustri di cooperazione spontanea tra le imprese, sebbene su base volontaria e in modalità non riconosciute dalla normativa.

A partire dal 2009 invece è stata promulgata la nuova disciplina del contratto di rete di imprese (L.9 Aprile 2009 num.33) che consente alle aggregazioni di imprese di instaurare tra di esse una collaborazione organizzativa duratura nonché di fruire di rilevanti incentivi e agevolazioni fiscali, pur mantenendo la propria autonomia giuridica. Anche la Legge di Stabilità 2015 istituisce incentivi e contributi a favore di questi raggruppamenti.

Si calcola che quasi il 25% delle micro imprese (con fatturati sotto ai due milioni di euro) che hanno aderito a un contratto di rete sia divenuta esportatore, contro il 12% circa di quelle che non lo hanno fatto.

Come si è sempre detto: l’unione fa la forza!

 

 

4) APPROFONDIMENTI:     

        ADDIO RE GIORGIO, SENZA ALCUN RIMPIANTO

 

 

In questi giorni ho letto molti commenti sulla cosiddetta “era Napolitano”, che sta durando quasi un decennio e che ha spinto molti a trarre bilanci e valutazioni di quanto è accaduto nel lungo periodo di sua reggenza.

Nel più recente quinquennio i commentatori più estremi lo hanno semplicemente condannato, considerandolo un Presidente che ha troppo spesso imposto al Paese la sua figura superando la soglia dei poteri che gli venivano attribuiti dalla Costituzione, divenuto prima severo giudice politico della coalizione berlusconiana che aveva vinto le elezioni e poi artefice di ben tre governi di “emergenza” (Monti, Letta e Renzi), la cui nomina fu basata non sulla vittoria elettorale del partito di chi doveva governare, bensì sulla sua personale valutazione degli equilibri parlamentari, senza mai arrivare a indire nuove elezioni.
E quegli equilibri, più che tali, erano degli arditi (sebbene arguti) equilibrismi, dal momento che le tre forze partitiche principali, divisissime tra loro, si sono ulteriormente frastagliate nel corso di una sanguinosa legislatura, quella tutt’ora vigente e su tali divisioni egli ha beatamente navigato, da esperto conoscitore del mare magnum della politica italiana.  

 

I commentatori più moderati hanno invece posto il problema (pur condivisibile) di cos’altro il Presidente avrebbe dovuto fare i quei momenti : ebbene essi concludono che, alla luce di quei fatti e di quei momenti difficili, non sarebbe stato facile fare scelte molto diverse da quelle che Napolitano ha operato. Costoro insomma, pur non tributando al Presidente uscente sperticate lodi, arrivano a dargli comunque un voto di sufficienza, soprattutto tenendo conto delle difficoltà dei momenti in cui Napolitano ha dovuto agire.

Sarà anche corretto ma a me viene un conato di vomito nel leggere ed ascoltare entrambi, perché non posso non considerare costoro alternativamente malati di miopia oppure di strabismo.

Dall’alto del colle Quirinale infatti non si può e non si deve cogliere soltanto la percezione della brezza che tira in un determinato momento politico, bensì anche uno sguardo d’insieme ben più ampio sul Paese, tenendo conto anche delle sue sorti. E qui casca l’asino! Anzi: qui si evidenzia la profonda malafede dell’inquilino uscente.

Come poteva infatti un anziano Presidente della Repubblica, da sempre accreditato di importanti relazioni internazionali, non vedere a quale sconsiderato livello di discredito, erano giunte le Istituzioni? A quale propensione allo spreco e all’indebitamento si erano spinti i loro organi di governo? A quale corruttela generale era arrivata la classe politica italiana?

Come ha potuto avallare quell’andazzo che ha messo in ginocchio l’Italia e l’ha resa più debole nei confronti dell’Unione Europea per quasi un decennio, senza mai richiamare severamente i “partecipanti al banchetto” e i protagonisti dell’inettitudine?

Come ha potuto egli lasciare che il suo solo ufficio della Presidenza della Repubblica costasse ai contribuenti più di quattro volte Buckingham Palace e dell’intera famiglia reale britannica?

Negli ultimi anni, quelli più decisivi, il Paese sarà anche stato sull’orlo di una crisi di credibilità, sarà anche stato quasi ingovernabile, sarà anche stato al centro di forti pressioni internazionali, ma senza dubbio l’Italia deve buona parte della sua debolezza proprio agli eccessi di spesa di Stato e Regioni, allo sconsiderato livello di complicazione del sistema normativo, alle lungaggini e alla militanza politica di buona parte della Magistratura, al confronto perso in partenza con qualsiasi altro Paese civile quanto a efficienza dell’apparato amministrativo nazionale, affidabilità degli enti locali, giungla delle disposizioni fiscali e soprattutto in generale alla ridottissima credibilità delle sue Istituzioni.

Di tutto ciò il Presidente “non poteva non sapere”! Anzi: è proprio da tutto ciò che derivano la scarsa credibilità e la difficile governabilità del bel Paese, e da quel che ne consegue gli giungono poi le forti pressioni internazionali cui abbiamo assistito quasi inermi!

E nonostante che un consumato politico come lui queste cose le comprendesse benissimo, giunto sul colle dopo mezzo secolo di militanza nel partito che per definizione avrebbe dovuto avere a cuore gli interessi delle classi più deboli, Napolitano non mai ha posto al centro dei suoi frequenti interventi il problema della crisi degli investimenti e dell’apparato produttivo nazionale, cosa che ha inevitabilmente portato il Paese allo scempio occupazionale che ben conosciamo: oggi solo un terzo degli Italiani lavora e oltre la metà di tutti i giovani è senza alcuna speranza di trovare una fonte stabile di sostentamento per mettere su famiglia o, a maggior ragione, una propria iniziativa economica!!!

Una nazione che giunge a tanto sotto un’unica Presidenza della Repubblica forse non è più una vera Repubblica. Un Paese le cui èlites al potere non fanno l’impossibile per cercare di contrastare quella deriva forse non merita più nemmeno quel rispetto per le Istituzioni che ogni tanto Napolitano ha avuto il coraggio di richiamare. Un sistema di governo che non accompagna con una propria forte austerità lo “stringere la cinghia” dei cittadini, un terzo dei quali si trova oggi a ridosso o oltre la soglia della povertà e ogni anno che passa sta peggio, non può raccogliere consensi e considerazione nella persona del suo massimo esponente.

Non può perché per esempio solo poche settimane fa è stata pubblicata da Renzi l’ennesima legge finanziaria che esprime l’ennesimo deciso incremento della spesa pubblica per il prossimo triennio, riportando misure “di stabilità” che prevedono ulteriori inasprimenti della tassazione laddove la ripresa economica del Paese non avesse luogo.

Ma come si fa a non urlare allo scempio? A non richiamare alla decenza i ministri e i parlamentari che gli danno man forte? A non cercare soluzioni istituzionali diverse se il Governo non porta il Paese a fatti concludenti?

Come si fa a non mettere in gioco nemmeno sé stessi nel caso non si venisse ascoltati? La risposta c’è ed è una sola: egli stesso è stato artefice e parte del disastro odierno, anzi è stato il burattinaio del sistema che lo ha generato.

Ecco perché l’addio di Napolitano non può suscitare in me alcun rimpianto, alcun riconoscimento, alcuna lode, nemmeno parziale: il Paese andava a rotoli e lui lo ha cinicamente accompagnato. Il Parlamento continuava nei suoi sprechi, nei suoi privilegi e nell’alimentare la spesa di quel sottobosco politico e istituzionale che sta nella giungla delle Regioni e degli Enti Locali nonché nel costante restringimento dei servizi erogati ai cittadini e il Presidente assisteva a ciò senza nemmeno farlo notare, senza nemmeno denunciarne la profonda iniquità!

No caro Napolitano, non posso nemmeno giustificarti. Tu più di chiunque altro avevi il dovere di fare qualcosa, di alzare un urlo, o il dito, o il piccone, come facevano alcuni dei tuoi più illustri predecessori. La credibilità e la serietà delle istituzioni democratiche doveva essere preservata proprio da te, che invece hai mancato, giocando al risiko quotidiano della politica più bieca, gonfiando il petto e continuando a rivolgerti ai tuoi connazionali con finta compunzione, senza mai denunciare e nemmeno chiederti come fare contrastare la deriva in atto.

E ora che sei giunto al limitare dei tuoi giorni, politici e fisiologici, non credo Tu possa contare nemmeno nella giustificazione delle situazioni, nella considerazione degli osservatori, nella clemenza degli storici. Temo che nel tempo nessuno ti giudicherà troppo diversamente dal sottoscritto. E non è per simpatia o per credo politico.

È perché hai lasciato precipitare questo Paese in un baratro che non aveva precedenti senza nemmeno dimetterti per protesta.

 

 

5) INFORMALIA: 

      I TRE LIVELLI DI “CRISI ECONOMICA”


1) È crisi quando incombe la disoccupazione

2) È recessione quando disoccupato è anche il vicino di casa

3) È depressione quando disoccupati lo siamo anche noi.

 

 

Buon Anno a tutti !

Stefano L. di Tommaso