Newsletter di Novembre 2013

IL RUGGITO DEL CONIGLIO,
OVVERO CONTRORDINE:
NIENTE RIPRESA!

  

 

 

I TEMI:

In Sintesi: 
0) contrordine, niente ripresa!

Nel Dettaglio:
1) quei dannati settantacinque miliardi che mancano all’appello
2) patrimoniale o prestito forzoso? (l’alternativa probabilmente non esiste)
3) i mercati finanziari veleggiano bene: l’inflazione non c’è e i bond non caleranno (subito)
4) il peso dell’Euro sulle economie deboli
5) il ruggito del coniglio a Bruxelles 
6) il finanziamento dell’industria nazionale


0) CONTRORDINE, NIENTE RIPRESA!

sembravano tutti d’accordo: mercati finanziari, economisti, politici, imprenditori… E adesso la ripresa! I tassi cresceranno anche perché le politiche monetarie espansive e lo spostamento della ricchezza verso i paesi emergenti creeranno un po’ d’inflazione, il prezzo di gas e petrolio potrebbe scendere per l’espandersi dell’offerta di materia prima ad opera dei soliti americani, il dollaro perciò dovrebbe rivalutarsi… Tutti sembravano concordi nell’affermare che anche in Italia, dopo anni di crisi, disoccupazione galoppante e razionamento del credito, finalmente si sarebbe rivista una luce in fondo al tunnel.

Ironie a parte solo i mercati finanziari sembrano crederci, mentre nella vita reale dell’Occidente sta succedendo il contrario.

Oggi lo scenario nazionale di fine 2013 sembra molto diverso da quello recentemente atteso: consumi giù a picco, nuove tasse all’orizzonte, ancora nulla di significativo sulle misure per stimolare la ripresa, Prodotto interno Lordo giù (se va bene) dell’1,7% ovvero, più probabilmente, giù del 2%, consumi in calo di circa il doppio, gettito IVA (nonostante l’aumento delle aliquote) a -6%, disoccupazione al 12,5% (ma è una statistica molto addomesticata).
Per ora lo spread con la Germania resta basso ma qualcuno dovrebbe chiedersi se ancora significa qualcosa, visto che riguarda solo i titoli pubblici che le banche italiane comprano con il denaro della BCE mentre lo “spread” tra i costi di finanziamento delle imprese italiane e quelli delle corrispondenti tedesche viaggia molto più alto, intorno al 4%. E soprattutto in Germania i finanziamenti arrivano, le banche non hanno esaurito il capitale con gl’incagli nascosti e il mercato dei capitali è felice di approdare sulle rive del Reno.

Da noi stanno timidamente arrivando i Minibond, ma riguarderanno un numero esiguo di belle imprese, quelle che il denaro lo troverebbero comunque.

Rigurgiti di scontri politici e possibilità di nuovi disordini di piazza riportano un Governo di compromesso a vivacchiare e i politici a dedicarsi allo sport che conoscono meglio: la campagna elettorale! Con buona pace per la possibilità che nel frattempo qualcuno di essi faccia qualcosa per salvare l’Italia dall’arretramento generalizzato.
Conseguenze: prospettive piatte per almeno un biennio, con i tassi bassi e l’Euro alto una deflazione sempre più reale, la fuga dei capitali in prosecuzione, i conti pubblici puntellati (forse) dai primi veri tagli di spesa ma con il rischio di ulteriori, importanti conseguenze recessive per l’economia reale.
E allora, dove sarebbe la “ripresa”?


1) QUEI DANNATI SETTANTACINQUE MILIARDI

Austerity, si diceva! Dunque nuove tasse e meno trasferimenti dallo Stato.

Ma adesso, dopo aver innalzato le aliquote fiscali e fatto conseguentemente calare il gettito fiscale, al Governo qualcuno inizia a chiedersi: e adesso che si fa? Ci avviciniamo a un debito pubblico pari al 140% del P.I.L. e lo capiscono anche i bambini che se alziamo ancora le tasse il gettito fiscale scende ancora un po’ e altri capitali fuggono dall’ex-Bel Paese.

Stavolta la manovra di stabilità è riuscita come un’operazione chirurgica, ma sfortunatamente il malato (il Paese) è morto, economicamente, s’intende.

Il crollo del Prodotto Interno Lordo dell’1,7% (che risulta essere una foto molto sbiadita della più dura realtà) è ancor più vasto se si pensa che, nonostante l’aumento delle aliquote il gettito IVA è sceso del 6%!

Questo vuol dire consumi reali in calo di almeno il 4%, nonostante il ripetersi del mantra che tutto va bene e che la ripresa è alle porte. Sì: forse del resto dell’Europa! E non si sa per quanto, perché i motori della crescita mondiale sono mezzi spenti e vanno sempre più ad Oriente.

Guarda caso quei €75mld che mancano al bilancio della Pubblica Amministrazione stanno alla differenza tra il PIL atteso a fine anno (circa €1557 mld) e quello stimato dal Documento di Programmazione Economica di inizio anno (€1662 mld) come le entrate fiscali complessive stanno al P.I.L. (Circa il 70%).

Quel che è successo è semplice: le manovre tese a ridurre il deficit lo hanno di fatto ampliato perché hanno ucciso i consumi la voglia di investire e produrre in Italia (e probabilmente hanno fatto tornare a crescere il sommerso).

E allora, torna a risuonare la domanda: adesso che si fa?

( Per chi vuole approfondire l’argomento: http://www.governo.it/backoffice/allegati/72959-8932.pdf

2) PRESTITO FORZOSO O PATRIMONIALE?

Per fortuna in Europa siamo in buona compagnia e molti importanti Paesi si avvicineranno a deficit del bilancio pubblico dell’ordine del 5-6%, perciò il problema non investirà solo l’Italia così come è successo con Cipro. Persino Obama ha i suoi problemi di bilancio e i tedeschi dovranno contenere il loro istinto di fare comunque austerity a causa del particolare momento.

Certo il nostro Rating pubblico è così basso che dovremo immaginare qualcosa per risalire la china prima che i nostri Titoli di Stato vengano catalogati come quelli greci. Si parla perciò di imposte/prelievi straordinari, dell’ordine inaudito del 10-15% dei depositi bancari e/o della ricchezza privata, salvo che manca completamente la forza politica di imporre le medesime e non a caso: la spesa pubblica non è stata ridotta e anzi è di fatto cresciuta, facendo urlare di rabbia molti italiani!

Il punto è che senza manovre di concerto con il resto dell’U.E. ogni rimedio rischia soltanto di avere straordinari effetti depressivi sull’economia, azzerandone i vantaggi.

Lo stesso vale per i possibili incassi dalle privatizzazioni, il cui gettito possibile è percepito dal cittadino comune come una goccia nel mare, oltre a un evidente favore che verrebbe fatto a chi, attraverso le privatizzazioni, arrivi a detenere il controllo di alcuni gioielli di Stato.

L’accrescersi del deficit di per sé non ammazza nessuno, ma senza idee chiare, interventismo e collaborazione europea esso getta un’ombra funesta sulle prospettive del nostro Paese!

3) I MERCATI FINANZIARI VELEGGIANO BENE

Le Borse internazionali come pure i titoli a reddito fisso hanno trovato un buon equilibrio statico nella situazione in cui siamo, in cui nonostante non esista la locomotiva della crescita economica americana (anzi: l’unica vera locomotiva sembra quella del “Pacific Rim”) esiste un’altra locomotiva: quella delle Borse Valori e dei mercati finanziari in generale.

I motivi non risiedono soltanto nel non arrestarsi del tanto decantato Quantitative Easing (l’inondazione di liquidità operata dalla Federal Reserve, che ha scatenato la guerra delle valute), bensì piuttosto nella fiducia generalizzata in una crescita dei profitti delle grandi multinazionali, e nella continua immissione al listino di titoli tecnologici e innovativi che fanno ben sperare gli investitori. L’ “economia di carta” sta cioè creando ricchezza, ma non si sa quanto la medesima possa essere “reale”.

Inoltre è chiaro come il sole che l’inflazione tanto temuta è un argomento relegato ai sepolcri imbiancati dei banchieri centrali (siamo in piena deflazione) e dunque persino la temuta discesa dei corsi dei titoli obbligazionari non sembra materializzarsi. È un limbo innaturale, quello dei mercati finanziari, con guerre valutarie mai disdettate ma oggi soltanto sospese per un po’, mentre l’Europa sembra non volersi preoccupare della decisa risalita dell’Euro, affaccendata com’è nella digestione dei nuovi assetti politici nei territori settentrionali.

Questo avviene proprio mentre gli Stati del suo meridione (cioè noi, gli Spagnoli e pochi altri) iniziavano a sperare in una ripresa economica che avrebbe scacciato i fantasmi di ulteriori misure di austerità.

4) IL PESO DELL’EURO SULLE ECONOMIE DEBOLI

La forza dell’Euro è principalmente dovuta ad un forte avanzo delle partite correnti, sebbene il dato sia quello medio e la media sia quella del pollo, ponderata dall’enorme avanzo primario della Germania sul resto del globo e dal minor disavanzo dei paesi periferici (l’Italia è da poco passata in territorio positivo e chissà per quanto a lungo). Tecnicamente è perciò normale che l’Euro salga di valore, coaudiuvato nella sua crescita dal fatto che la BCE non sta di fatto più facendo Quantitative Easing (il nuovo LTRO servirà solo a finanziare il rimborso del precedente) mentre quasi tutti gli altri grandi paesi del mondo sì. Quanto durerà è difficile dirlo, quantomeno perché ciò minaccia il ruolo del Dollaro quale valuta di riferimento delle materie prime.

E la riduzione di competitività sull’export -che l’ascesa della nostra divisa può provocare- varia molto da paese a paese: più il valore aggiunto è alto, più forti sono i contenuti tecnologici, digitali e di affidabilità dei prodotti esportati: meno il sistema industriale è sensibile al maggior prezzo di quei prodotti che la rivalutazione monetaria provoca. Viceversa se (come dalle nostre parti) l’export è fatto di frutta, ciabatte, spugnette, bulloni e ingranaggi, cioè privo di quei contenuti tecnologici e di valore aggiunto di cui sopra, più si è esposti alla concorrenza dei paesi emergenti (che spesso detengono le materie prime) e quindi un cambio alto ci penalizza.

Come dire che il cittadino tedesco medio può persino beneficiare della rivalutazione dell’Euro, mentre quello italico o ispanico rischia ancor più di perdere il proprio posto di lavoro! (Si legga in proposito: http://vocidallestero.blogspot.it/2013/11/telegraph-leuropa-del-sud-e-in-un.html?spref=fb)

La questione di per se non sarebbe così letale se non fosse che cade in un momento in cui in tutta Europa stanno crescendo i consensi verso partiti autonomisti, anti-Euro, contrari all’ulteriore integrazione e molto scettici sull’eccesso di costi che gli organismi comunitari hanno moltiplicato negli ultimi anni.

Come dire che il numero di avversari interni all’Euro sale, proprio mentre il suo maggior cambio rischia di portare conseguenze molto differenziate da paese a paese, fattore di per sè disgregante.

Il detonatore della possibile deflagrazione potrà consistere nel vistoso calo delle entrate tributarie di Paesi come il nostro, che hanno tamponato la misura della discesa del Prodotto interno Lordo ma che hanno visto crollare la misura dei consumi e degli investimenti, principalmente a causa della parallela fuga dei capitali dalle rive del Mediterraneo verso quelle del Reno. Quel calo non è ancora stato incorporato nelle previsioni che i grand-commis-d’ètat vanno pubblicando e aggraverà fortemente i disavanzi nazionali dato che nulla o quasi viene fatto (in tutta Europa) per ridurre la spesa pubblica, quantomeno parallelamente alle entrate.

Come dire che i crescenti disavanzi non potranno che riflettersi presto sul rating assegnato ai nostri titoli di Stato, rating che da noi viene vissuto solo come una seccatura ma che il resto del mondo sembra ancora tenere in forte considerazione.

5) LE FORZE CENTRIFUGHE DELL’UNIONE EUROPEA

Ulteriori discese del Rating di Italia, Spagna e Francia sotto la soglia di sicurezza basterebbero da sole a scatenare altre forze centrifughe dall’Unione Europea.

E qui torniamo a chi potrebbe sferrare l’attacco decisivo: i nuovi e vecchi partiti anti-Euro : Lega Nord, Alba Dorata, Marine Le Pen, ecc…

Primo: come dargli torto? Sono soprattutto quelli dei popoli nordici che ci fanno notare che a finanziare un’Unione incompiuta sono stati soprattutto quei popoli, mentre gli autonomismi, le svolte a destra e quelli che invocano la chiusura delle frontiere non fanno altro che dare voce ad un sentimento popolare diffuso: lo sdegno spesso non è razzismo bensì denuncia di assenza di regole e programmazione dei flussi migratori, proprio mentre la crisi morde di più. Ma chi oggi governa avrebbe dovuto pensarci per tempo!

Secondo: come evitare che la deriva dell’Europa si trasformi in un dramma economico dell’Occidente democratico? Temo che solo una serie di passi in direzione dell’ulteriore integrazione politica e amministrativa potrebbe arrestare le forze centrifughe. Così come un coordinamento tra i principali Paesi industrializzati sarebbe necessario per evitare la deriva dei baricentri economico-finanziari verso i Paesi dell’estremo oriente.

Ciò però presupporrebbe delle forti leadership politiche, una decisa convenienza economica a coordinare gli incentivi allo sviluppo, una strategia di fondo fortemente condivisa tra le principali banche centrali occidentali (che invece fanno la guerra delle valute). Siamo realisti: le probabilità sono al massimo alla metà!

6) IL RUGGITO DEL CONIGLIO A BRUXELLES

Se si può affermare qualcosa con certezza a proposito di Enrico Letta è che di strappi sembra non averne mai fatti in vita sua, probabilmente nemmeno agl’indumenti di quand’era bambino: l’Harry Potter de’noantri preferisce asserire strenuamente soltanto grandi ovvietà, speso con indomito coraggio e grande autorevolezza. E nemmeno su quelle grandi ovvietà peraltro viene molto ascoltato, al di là degli elogi formali ricevuti.

Era parso dunque molto strano che decidesse di recarsi all’Eurotower piuttosto che a Bruxelles per chiedere a gran voce la collaborazione europea ai progetti di rilancio dell’Italia. Cosa esattamente gli abbiano risposto non è dato di saperlo, ma il senso è fin troppo chiaro: niente da fare, per adesso.

L’importante allora è parlare ai media di altro: l’immigrazione (sicuramente un tema europeo, cosa volete che sia: soltanto siciliano?) la sicurezza delle comunicazioni tra leaders nazionali (salvo Berlusconi e compagni, ovviamente), la revisione dei bilanci del sistema bancario (che non vale per le Casse Regionali tedesche)…

Se non avessimo quasi problemi di sussistenza quotidiana e di ordine pubblico, un buon portavoce nazionale sarebbe utile per ricordare all’Europarlamento che l’Italia dopo aver regalato Telecom agli spagnoli, si è accorta dell’urgenza di separare la rete telefonica, piuttosto che della necessità di varare una spending review all’acqua di rose, senza fretta.

Fatti e numeri si cerca di non farne. Le leggi di riforma prima si varano e si annunciano. E poi, nelle commissioni parlamentari, si “aggiustano”.

Perciò fare la voce grossa caro Letta oggi non serve, soprattutto quando non si è nati leoni.

7) IL FINANZIAMENTO DELL’INDUSTRIA NAZIONALE

Il crollo verticale degl’investimenti in capacità ed efficienza produttiva porterà ad una maggiore saturazione degl’impianti industriali esistenti, in corrispondenza di un output produttivo però più basso. Questo evidenzia il deterioramento del nostro potenziale industriale: per tornare ad ampliarlo occorrerà che ripartano cospicui investimenti e quindi i grandi finanziamenti.

Su questo fronte i dati Istat continuano a essere negativi: la percentuale di imprese razionate nell’accesso al credito rimane, a ottobre, sui picchi massimi degli ultimi mesi (16% nel totale, 20% tra le piccole imprese). Il superamento del Credit Crunch rimane dunque lo snodo cruciale per dare intensità alla ripresa e ridurre i rischi di deterioramento strutturale delle possibilità di crescita, nonostante che Patuelli (A.B.I.) affermi che esso non esiste. Possiamo discutere del totale dei crediti in pancia alle banche (che non scendono perché per buona parte sono incagliati), ma non della minor disponibilità di nuovo credito: essa è inconfutabilmente limitata.

I Minibond non rappresenteranno di per sè una vera alternativa al credito, quanto piuttosto un fenomeno interessante ma per ora di proporzioni ridotte, che nel tempo potrebbe contribuire ad avvicinare le esigenze dei risparmiatori a quelle degl’imprenditori, ma solo qualora -attraverso principi mutualistici o altro ancora- gli stessi non risulteranno investimenti sufficientemente sicuri per chi li sottoscrive.

Ci vorrebbe -per rassicurare i risparmiatori- la stesso supporto che viene fornito alle banche dal Fondo Centrale di Garanzia o, meglio ancora, una Agenzia Governativa che rimpacchetta i Minibond e li vende al pubblico con la garanzia dello Stato, come in America fanno le GINNIE MAE o FREDDIE MAC. Allora forse i risparmiatori si avvicinerebbero davvero allo strumento e le imprese potrebbero attuare quei nuovi investimenti che i depositi bancari non finanziano più da tempo.

Il circuito alternativo al finanziamento bancario riguarderà un gruppo di imprese sicuramente rilevanti ma che non soddisfa la loro totalità. Esistono infatti i POE (Piccoli Operatori Economici: quelli con un fatturato unitario inferiore ai 2 milioni di euro e meno di 10 dipendenti) che hanno un fatturato pari al 65% del totale e occupano oltre il 60% delle forze produttive. Il sostegno ai medesimi non passerà nemmeno dai Minibond, dunque urge un sostegno finanziario alternativo non solo al sistema del credito ma anche all’evoluzione dell’industria italiana, per esempio spingendo nel tempo molte mini-imprese a varcare i confini nazionali, ad aggregarsi o federarsi tra loro e collaborare di più per ricerca e innovazione, magari con specifici supporti europei.

Per risollevare il Paese, l’industria e lo stesso mercato finanziario, l’Italia ha dunque molto bisogno di investimenti e incentivi alla crescita, ma anche di politiche «a costo zero», mirate alla creazione di un contesto favorevole all’investimento in equity domestico e allo sviluppo di nuovi investitori istituzionali specializzati in piccole e medie imprese.

Perché il rischio – in assenza di sostegno bancario e senza investitori istituzionali domestici specializzati – è che nemmeno le imprese in via di quotazione trovino adeguato supporto per lo sviluppo. E allora piccolo non sarà più bello per nessuno.

Stefano L. di Tommaso